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Genitori alla scuola della vita

Abstract: L’articolo mette in risalto l’importanza del rispetto reciproco e di un sano distacco nel rapporto tra genitori e figli

Il pedagogista Daniele Novara afferma: “La fiducia per i bambini è la base stessa della loro crescita. Essere genitori vuol dire anche proteggere e tutelare la loro naturale «gioia di vivere», la curiosità e il gusto della scoperta. I piccoli devono tornare a giocare assieme senza pregiudizi e stereotipi che per natura non coltivano”. I figli sono un atto di fiducia della vita e nella vita e hanno bisogno di fiducia. La fiducia è spirito di vita, quello spirito da instillare nei bambini come si arguisce dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dall’art. 29 lettera d della Convenzione. I genitori, però, sembrano sempre più sfiduciati e sfibrati dal loro ruolo risultando inadeguati o inefficaci, per cui da più parti, tra cui lo stesso Novara, si parla della necessità di una scuola per genitori.

Daniele Novara aggiunge: “[…] mi auguro che i genitori continuino a cercare di essere loro stessi la principale risorsa per i loro figli, senza delegare alle etichette neurodiagnostiche la gestione dei bambini e dei ragazzi”. I genitori non devono scoraggiarsi al primo problema o contrasto con i figli e ricorrere a medici ed esperti, anche perché quest’atteggiamento diventa diseducativo. Da ricordare che “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri, essendo capaci di prendere decisioni e di avere il controllo sulle diverse circostanze della vita, garantendo che la società in cui uno vive sia in grado di creare le condizioni che permettono a tutti i suoi membri di raggiungere la salute” (da “Entrare nel futuro” della Carta di Ottawa per la promozione della salute, 1986).

Novara spiega: “L’eccesso di confidenza corporea può provocare nei bambini una carenza nel riconoscimento dei limiti e dei vincoli di autorità che si ritrova spesso nel rapporto a scuola con gli insegnanti. Ci sono alunni che sembrano disadattati nel saper vivere le figure adulte come diverse da loro stessi”. Il rapporto genitori-figli deve essere asimmetrico e con una giusta distanza, anche per un armonico sviluppo dell’identità e della personalità del bambino, altrimenti l’amore genitoriale rischia di diventare incestuoso in senso lato o, comunque, asfittico o ammorbante. Non a caso nella lettera c dell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge: “[…] inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori, della sua identità”. Emblematico è anche lo sviluppo uterino in cui il bambino riceve nutrimento dalla madre attraverso il cordone ombelicale, ma lo stesso rappresenta la distanza dalla madre.

Altrove si legge: “Aiutiamo i nostri figli ad allacciarsi le scarpe... ad attraversare una strada trafficata... ad entrare in un parco senza farsi male... I nostri figli hanno bisogno del nostro aiuto anche nel mondo digitale. Anche i bambini hanno bisogno del nostro aiuto con il mondo digitale. Dal restare al sicuro sui social media, a trovare i giochi che aiutano a sviluppare il loro cervello in modo positivo, e consentire loro di divertirsi” (dall’introduzione della guida in inglese “Genitori intelligenti nell’era digitale – Guida digitale per genitori di figli da 0 a 8 anni”, “Smart parenting in the digital age: A HOW-TO GUIDE FOR PARENTS”, pubblicata nel marzo 2019). Essere genitori è aiutare i figli, non sostituirsi ai figli né camminare davanti a loro né allarmarsi né impedire che qualcosa accada: questo ancor di più nel mondo digitale o nell’era postdigitale.

In alcune aree geografiche si deve debellare lo sfruttamento del lavoro minorile. Altrove, invece, si deve lottare contro lo spegnimento delle vite di ragazzi che stanno sempre chiusi in casa o sul divano, che non studiano né cercano lavoro e per i quali si inventano acronimi o etichette (per esempio la sigla inglese NEET, “not (engaged) in education, employment or training”, o l’espressione giapponese “hikikomori”). Oppure ci sono ragazzi che sfruttano i coetanei con atti di bullismo, in baby gang, nella baby prostituzione o altro. È sempre più doveroso l’intervento degli adulti e che facciano gli adulti, in particolare i genitori con l’esempio e con educazione che sia tale e non edulcorazione o adulterazione della realtà e della vita in generale. È quanto si ricava soprattutto dalle fonti normative internazionali, tra cui la Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro (Roma 1967) e la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare l’art. 29 dove alla lettera d si legge: “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione […]”.

“Mettiamo che debbo ammettere che mi ero fissato su un mio obiettivo, un desiderio che mi aveva mangiato l’intelligenza. Una cosa buona – ma anche no – che mi sembrava primaria. Ma era una mia produzione propria. E qualcuno mi diceva pure che stavo sbagliando e io, orgoglioso, lo mandavo a quel paese. Ecco: quando una cosa prende lo spazio del rapporto con i miei figli, non è buona, non funziona. Allora sai che ti dico: fammi mettere un po’ su un foglio di carta quale è lo spazio intoccabile per i miei figli… orari, giornate, atti che debbo fare con loro… […] E poi, sai che c’è? Che mollo il fantacalcio, và, che non c’entra proprio niente con questa priorità. E sai che fo? Io il sabato il telefono lo spengo proprio, lo accendo solo due volte in tutto il giorno, se per caso ci fosse un’urgenza che mancherei alla carità verso qualcuno, ma vengono prima i miei figli. E mi sa che mi debbo pure far aiutare a capirlo. E praticherò lo sport estremo che più temo: chiedo a mia moglie che ne pensa. Quella finisce che mi dice… e me lo faccio dire” (don Fabio Rosini). Man mano che i figli crescono, i genitori non li ri-conoscono più o rinfacciano loro di non aver mai fatto mancare nulla, eppure avranno fatto mancare la condivisione del tempo o le giuste modalità di dedizione genitoriale. Soprattutto i padri, quelli più presi da lavoro, investimenti, tecnologia, divano, sport o altri interessi, dovrebbero staccare la spina (dal proprio egoismo o orgoglio) e giocare con i figli o osservarli nel gioco. La presenza, lo sguardo, il contatto sono fondamentali e la loro mancanza causa vuoti esistenziali; ciò rientra nel dovere di assistenza morale verso i figli (artt. 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.).

In passato i bambini (ma pure nel presente) non avevano le scarpe o le avevano più piccole o più grandi dei loro piedi, con la punta bucata, risuolate col cartone. Aspettavano la domenica o la festa o la prima Comunione per mettere quelle nuove o quelle dei fratelli più grandi. Le scarpe, simbolo di crescita, cammino, cambiamento, rappresentavano una trasposizione emozionale (senso dell’attesa e della sorpresa), trasmissione di valori (sacrificio e condivisione), transizione d’età, un traguardo. Oggi, invece, i genitori tendono ad appiattire i figli anche nell’abbigliamento e nelle calzature, ad acquistare il superfluo, ad anticipare i bisogni, ad annullare i desideri, ad abbondare nelle coccole e nei vezzeggiativi, ad amplificare ogni evento e complimento, ad annientare l’attesa, ad accontentarli senza nemmeno sentirli o, peggio, senza ascoltarne le esigenze. E così i figli crescono in “sovrappeso ed obesi” in senso traslato e manifestano, in taluni casi, disturbi del comportamento alimentare o della condotta o della personalità.

“Credo nei ragazzi di oggi. Molti di loro cercano, vogliono sapere, capire, non vedono l’ora di essere aiutati a camminare da soli” (il cantautore Ivano Fossati). Bisogna dare fiato, fiducia, forza, futuro ai giovani, ovvero il meglio di sé e non cose tanto per accontentarli al momento. Come nell’immagine di Dio Creatore descritta nella Genesi e nell’affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina che ha un valore antropologico e pedagogico al di là di ogni credo religioso. La scienziata Rita Levi Montalcini “I giovani devono credere in qualcosa di positivo e la vita merita di essere vissuta solo se crediamo nei valori, perché questi rimangono anche dopo la nostra morte”. I genitori non devono dare ai figli dei contentini affinché stiano zitti, non diano fastidio, non facciano capricci, non abbiano poi nulla da rinfacciare, ma dare ai figli dei contenuti affinché nel crescere abbiano voce nella vita, possano dire la loro e non essere alla mercé degli altri o di altro. I genitori non devono contentare i figli ma contenere i figli per orientarli nella vita, come si addestra un cavallo entro la staccionata per prepararlo al seguito. I figli non devono essere la contentezza dei genitori, ma avere contentezza della loro vita. I figli non devono essere contenitori di cose (vestiti, giocattoli o altro di materiale ed effimero), ma avere contezza del valore della vita.

I genitori si preoccupano tanto della salute fisica dei figli e si alleano e si battono in caso di malattie oncologiche o invalidanti dei figli, ma non fanno altrettanto per il “cancro” o le invalidità che causano dentro i figli in caso di rapporti conflittuali o altre scelte egoistiche o deleterie. L’infanzia negata diventa, poi, età adulta “legata” o “segata”.

Lo psichiatra tedesco Manfred Spitzer scrive: “L’esperienza dell’abbandono da parte dei genitori nella prima infanzia ha conseguenze notevoli per lo sviluppo del cervello” (in “Connessi e isolati. Un’epidemia silenziosa”, 2018). I genitori devono fare attenzione ad ogni forma di “abbandono”, tra cui la violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 cod. pen.).

Un bambino di pochissimi anni d’età, poco distante dai genitori, con un ombrello più grande di lui: un’immagine simbolica di quei bambini che devono pararsi da tempeste, familiari e non, ed anche metafora del doversi preparare ad affrontare autonomamente le intemperie o intemperanze della vita.

Dalla parola “genitori” si ricava “torni” (plurale di “tornio”), perché insieme, con l’educazione coerente e corale con altri soggetti educativi, plasmano la massa della personalità del bambino che prenderà forma nel tempo. Solo, però, dalla parola al plurale “genitori” si ricava “origine”: questo è significativo per i genitori (attuali e potenziali) e per tutti.

Genitori, geni-tori: devono essere abili come geni e forti come tori e possibilmente in due, né di più né di meno. I genitori non devono, peraltro, fare i sindacalisti dei figli ma, piuttosto, i sindaci dei figli: dare orientamento all’amministrazione della loro vita, farsi aiutare da altri in questo compito, applicare la democrazia nelle relazioni, rispettare diritti e doveri di ognuno. E i figli sono e restano cittadini della loro vita.

“Il figlio è una cosa importante. - Non si finisce mai di imparare quanto!” (da una fiction). La prima cosa che devono imparare i genitori per essere genitori è che il figlio è altro da sé. 

L’articolo 144 del codice civile nella pratica

Sintesi: La relazione di coppia non è un traguardo ma un processo continuo in cui ci si avvicina e ci si allontana

Abstract: L’articolo propone una rilettura dell’art. 144 del codice civile per evidenziarne la portata innovativa e la sua attualità alla luce delle relazioni sempre più conflittuali o disfunzionali

Sposarsi non è programmare, organizzare e fare il viaggio di nozze, ma programmare, organizzare e fare il viaggio oltre le nozze, perché il matrimonio stesso è un viaggio. Ci si può pure allontanare ma l’importante è essersi muniti di un buon navigatore per far ritorno a casa, alla vera dimensione di “casa”.

Il rapporto di coppia è come il rapporto di un musicista col suo strumento. Lo conosce, lo accorda, lo pulisce con gli appositi panni morbidi e kit di pulizia, lo custodisce, si rivolge ai centri di assistenza per le eventuali riparazioni. Deve avere orecchio, lo sguardo almeno di tanto in tanto allo spartito, provare e riprovare i brani, portare il tempo e rispettare il tempo, cimentarsi anche in nuovi arrangiamenti, provare trasporto con tutto il corpo. E andare avanti nonostante qualche nota stonata o qualche concerto non riuscito. Giuridicamente i principali passi e passaggi sono indicati nei tre articoli letti a conclusione del rito del matrimonio, artt. 143, 144 e 147 cod. civ., in particolare nell’art. 144 rubricato “Indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia”.

La psicologa e psicoterapeuta Anna Oliviero Ferraris scrive: “La coppia da complementare è oggi divenuta simmetrica: padre e madre sono impegnati professionalmente per lo stesso numero di ore, i loro ruoli di servizio in casa e accudimento dei figli sono sostanzialmente intercambiabili, ma per “reggere” questa impostazione egualitaria e democratica è necessaria una grande sintonia, e la fatica della coppia a volte è molto elevata” (in “Famiglia”, 2020). La vita di coppia comporta una fatica come il lavoro, per cui alla coppia si possono applicare in senso lato i principi dell’art. 46 della Costituzione relativo alle aziende in cui si parla di diritto a collaborare alla gestione (parola che ha la stessa origine di “gesto”, quei gesti di cui si ha bisogno nella coppia e in famiglia). Prima della riforma del diritto di famiglia del 1975 il marito era il capo della famiglia (art. 144 cod. civ. previgente) per cui non vi erano la fatica e, al tempo stesso, la fecondità del confronto e del contrasto. Oggi, però, si è a “conoscenza” che la vita di coppia comporta delle difficoltà, anche in quello che può sembrare banale (per esempio sopportare gli odori sgradevoli dell’altro), per cui occorre che si prenda anche “coscienza” e “consapevolezza” di ciò.

Essere sposati non è vedere il mondo nello stesso modo ma guardare il mondo nella stessa direzione. Non significa aggiungersi all’altro ma congiungersi (conservando così la propria identità individuale), non livellarsi all’altro (come nelle relazioni disfunzionali di simbiosi o dipendenza affettiva) ma elevarsi l’un l’altro; non a caso il legislatore ha previsto: “I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare” (art. 144 cod. civ.). Ci si può scontrare, anche andare dalla parte opposta, ma quel che conta è ritrovarsi allo “stesso indirizzo”.

Interessanti le riflessioni e le indicazioni fornite da Edoardo e Chiara Vian, esperti di famiglie in difficoltà: “Tagliandi frequenti. Un’automobile, perché duri nel tempo, ha bisogno di revisioni al motore o all’impianto di condizionamento. E la coppia? Quante volte ci fermiamo per dirci: «Come stiamo noi due?», «Dove siamo come coppia?». Imponetevi di prendervi una serata ogni due settimane e un fine settimana ogni sei mesi, con l’obiettivo di fare un check-up sull’amore e di comprendere su quali cose sia opportuno investire per continuare a nutrirvi”. L’autonomia privata consente ai coniugi (o conviventi more uxorio) di stilare una sorta di programma, progetto o decalogo di vita in comune per ritrovarsi sui punti condivisi e ritrovarsi agli appuntamenti in due e con se stessi: è quell’indirizzo della vita familiare di cui all’art. 144 cod. civ..

Ancora Edoardo e Chiara Vian: “Quante volte anche nella relazione di coppia ci costruiamo i nostri giudizi sul partner e poi questi divengono metro con cui misuriamo la complessità dell’altro! Un particolare diventa un assoluto che cristallizza l’altra persona. Mi dimentico di fare una commissione e divento un inaffidabile, in una discussione perdo la pazienza e divento un irascibile, ti muovo una critica e divento un lamentoso. Quante coppie ho visto spararsi addosso giudizi ormai fossilizzati nel tempo, in cui i fatti risalivano ad anni prima”. La relazione di coppia non è un traguardo ma un processo continuo in cui ci si avvicina e ci si allontana ma alla base deve permanere il rispetto, soprattutto in senso etimologico, cioè “guardare indietro, guardare di nuovo”, quello sguardo che diventa sempre più distratto o inesistente nelle coppie e nelle famiglie di oggi. Per la coppia coniugale fondamentale è il concordare l’indirizzo della vita familiare cui tornare e in cui rincontrarsi.

Gli esperti Edoardo e Chiara Vian continuano: “Spostate lo sguardo dal vostro ombelico. Una parte della vostra persona è votata all’appagamento: non giudicatela, fa solo il suo lavoro, ma imparate a gestirla, non fatevi dominare da essa. La realtà e il vostro partner non sono lì per farvi star bene, per corrispondervi, sono semplicemente quello che sono. Imparate a riconoscere in voi quella parte che vorrebbe mettervi al centro di ogni cosa, per essere venerati, e reindirizzatela, illuminatela da un’altra prospettiva, quella della libertà da voi stessi”. Sposarsi è spostarsi dal proprio ego, dal proprio mondo e posarsi sull’uscio della vita dell’altro, del “mondo del noi”. Tra le più rilevanti innovazioni legislative della riforma del diritto di famiglia le locuzioni “esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa” nell’art. 144.

“9. Un litigio è qualcosa di sgradevole, ma se sappiamo «interrogarlo» può raccontarci tantissime cose interessanti. Come mai quella reazione mi ha provocato quell’emozione? Che cosa dice di me? A quali elementi della mia storia si aggancia? Quale bisogno affettivo insoddisfatto si cela dietro? Quale idea di me racconta? E nell’altra persona che cosa sarà successo? Quale vulnerabilità sarà stata toccata? Come o cosa potrei, o potremmo, fare la prossima volta perché le cose vadano meglio?” (dal “Decalogo per la (buona) coppia” dei coniugi Vian). Litigare non fa male alla coppia perché si deve anche saper litigare, pertanto nell’indirizzo concordato della vita familiare bisognerebbe altresì prevedere uno “spazio neutro” rispetto alla famiglia in cui ciò possa avvenire.

“Forse”, “insieme”, “di nuovo”: alla base della comunicazione, costruzione, consolidamento della coppia. E non usare espressioni “sempre”, “mai”. Anche così ci si concorda sull’indirizzo della vita familiare. Un’altra parola chiave dell’art. 144 è “concordare”, che è più e oltre l’andare d’accordo o raggiungere un accordo come in una qualsiasi relazione interpersonale. “Con-cordia” in una coppia e in famiglia: “Ciò non significa che io debba rispondere di «sì» a ogni loro richiesta, ma che devo frenare il mio atteggiamento respingente, saccente, e scegliere di avere un ascolto comprensivo, accogliente, paziente, che sa anche dire di «no», ma senza la presunzione che l’altro si sottomette automaticamente alla mia presunta autorità” (Edoardo e Chiara Vian). La famiglia nasce da un incontro di due ed è un quotidiano andarsi incontro, è un esercizio di medietà e l’art. 144 cod. civ. ne fornisce la bussola. Quando si perde il controllo è auspicabile che si ricorra a un terzo, come la mediazione familiare, non per avere ragione ma per ritrovare la via della ragione, come già disposto nell’art. 145 cod. civ. caduto in desuetudine.

La linea parabolica di alcune coppie: dal lisciarsi al lasciarsi, dal duetto al duello, dalla corte alla morte (interiore o fisica).

Lo psichiatra tedesco Manfred Spitzer spiega: “La vita in coppia è una risorsa per una vita più sana e lunga. Ma non tutte le relazioni sono sane e hanno un effetto positivo sulla salute. In una coppia, sono di solito le donne che vivono in modo più intenso e che soffrono di più in un rapporto non felice. Nel caso di una separazione o un divorzio, l’effetto negativo sulla salute di tutte le persone coinvolte non è da sottovalutare” (in “Connessi e isolati. Un’epidemia silenziosa”, 2018). Nella vita di coppia, sin dall’inizio, non ci si deve accontentare, ma la vita di coppia deve accontentare. La vita di coppia contribuisce al proprio benessere e a quello altrui, pertanto non è un fatto marginale o solo personale. Realizza anche una forma di solidarietà e di economia. Si pensi agli effetti dei conflitti familiari, dalle depressioni personali ai costi processuali. “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri” (da “Entrare nel futuro” della Carta di Ottawa per la Promozione della salute, 1986). 

Si dice della scuola

“Oggi hanno deciso di distruggere l’arte e la cultura, e senza cultura la società è barbarie” (cit.). Disincentivare l’arte e la cultura è bloccare le nuove generazioni, le emozioni, la crescita umana, quello sviluppo che si è avuto sin dai graffiti preistorici. Si è tutti responsabili, a cominciare da coloro che non si sentono responsabili, che sono pronti a puntare l’indice ma non a muovere un dito per darsi da fare. Come l’atteggiamento di molti genitori avvezzi ad accusare la scuola, a ricusare i propri errori e a scusare i figli.

La scuola sembra essere diventata merce alla mercé dei genitori e di altri soggetti. La scuola andrebbe rivista dal modo di reclutamento del personale all’edilizia ma, purtroppo, ogni governo introduce una riforma che, talvolta, è solo lessicale o di appesantimento burocratico.

Sulla scuola di oggi la giurista Elisabetta Frezza: “Si è trasformata in un incrocio tra un luna park e un laboratorio di rieducazione etico-sociale collettiva. Una sorta di allevamento di ominidi in batteria, allestito come un villaggio vacanze, con animatori addestrati, i poveri docenti” (in un’intervista dell’8 agosto 2022). L’apprendimento deve avvenire divertendosi ma la scuola non è e non deve essere ritenuta luogo di divertimento come o peggio di altri destinati a ciò.

A scuola non si dovrebbero apprendere (solo) le materie ma la materia della vita, la disciplina, come lo stare insieme e il bello della vita. Da questo discenderebbero poi le materie, le discipline. Per esempio la matematica non usa il linguaggio della solidarietà con divisione, addizione, moltiplicazione...? La scuola ha un valore costituzionale: “La scuola è aperta a tutti” (art. 34 comma 1 Cost.).

La scuola è la fucina dell’italianità. “Parlare e scrivere correttamente in italiano è la condizione necessaria per vivere appieno il nostro ruolo di cittadini consapevoli a scuola, nel lavoro e nell’esercizio stesso dei diritti civili” (il giornalista Alessandro Bettero). La lingua italiana è elemento fondante e fondamentale dell’italianità, quel patrimonio storico-culturale, che trova i suoi fondamenti nella Costituzione, in tutta la Carta costituzionale e in particolare nell’art. 9, la cui nuova formulazione finisce con “anche nell’interesse delle future generazioni”.

La scuola non deve aprirsi solo per gli open day e non deve diventare una “prigione” per gli alunni così come spesso è percepita.

Lo storico gesuita Giancarlo Pani analizza: “Ci sono bambini di meno di tre anni che vivono in carcere con le loro mamme. È questo il loro interesse? Certamente no. Se fosse rispettato l’articolo 3 [Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia], nel caso di donne in carcere, l’esigenza primaria del bambino imporrebbe che madre e figlio vivessero in casa loro, in ragione della dignità del bambino e del suo accudimento. Gli adulti dovrebbero trovare altre forme per proteggersi rispetto alla pericolosità sociale delle loro madri. Se l’articolo 3 venisse osservato, quando nasce un bambino in una famiglia, tutte le regole e gli orari dovrebbero cambiare per rispettare il suo interesse, compresi gli orari di lavoro, perché i genitori possano dedicargli tutto il tempo necessario. Non è un caso che i Paesi del Nord prevedano due anni di maternità: numerose ricerche dimostrano oltretutto che solo in apparenza questo periodo prolungato sarebbe una spesa sociale, perché, in realtà, i bambini che hanno potuto essere allattati e accuditi più a lungo risultano generalmente più sani, e quindi costano meno alla società” (in “I diritti dell’infanzia”, 2019). Nel mondo odierno i bambini passano da una “gabbietta” all’altra: casa, abitacolo dell’automobile, scuola, ludoteca, palestra, doposcuola, casa dei nonni… Ci si preoccupa della sicurezza, della privacy e di altro ancora, ma vengono meno la naturalezza e la bellezza dell’infanzia.

La priorità dell’interesse del fanciullo in ogni procedimento, stabilita dall’art. 3 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, purtroppo in Italia è trascurata anche nella quotidianità, per esempio a scuola, dove spesso si continua a procedere per stagioni dell’anno senza chiedersi se ciò possa giovare o meno alla formazione dei bambini. Gli educatori, come i giornalisti, dovrebbero essere “sentinelle della verità”, sempre e solo nel bene e per il bene dei bambini senza alcuna dietrologia adultistica.

Non bisogna scolarizzare precocemente i bambini perché gli effetti sono deleteri se non devastanti. Tra le varie conseguenze, all’ingresso nella scuola primaria i bambini possono provare stanchezza o disamore e possono manifestare vari “disturbi” che gli adulti si affannano a etichettare o certificare, quando in realtà si tratta di tempi non maturi o di abilità non acquisite nel modo giusto. Anche il bullismo, segnale di debolezza o fragilità, può essere un grido di aiuto da parte di quel bambino che non ce la fa a sostenere pressioni e aspettative dei genitori e della scuola.

Una volta i bambini mancini subivano pregiudizi e interventi educativi errati. Questo dovrebbe mettere in guardia da etichettamenti, acronimi o pratiche preconfezionate che si è soliti applicare a scuola nei confronti dei bambini in generale (per esempio BES, bisogni educativi speciali).

La legislazione (in particolare quella sociale) e la cultura scolastica sono cambiate nei confronti dei bambini con disabilità sino a giungere al concetto di “inclusione”. Anche questo concetto, però, andrebbe superato perché dà comunque l’idea di un sistema chiuso o precostituito. Ogni bambino ha una sua personalità, sue capacità, specificità e difficoltà per cui si potrebbero recuperare o rimarcare altri concetti come “personalizzazione”, come si evince pure dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, tra cui l’art. 23 par. 1 relativo alla disabilità e l’art. 29 par 1 lettera a relativo all’educazione. “La società e la scuola non dovrebbero imporsi l’inclusione, ma lavorare attraverso le specificità di ciascuno per costruire l’orizzonte. […] Ma allora che cosa significa cambiare? Di fatto un mutamento di forma e di formato, qualcosa che prima si verifica all’interno per poi rivolgersi al di fuori di sé. Un po’ come un musicista che impara a maneggiare e a comporre con il proprio strumento fino ad accordarsi con gli altri in un’orchestra capace di produrre insieme nuove sinfonie” (il giornalista Claudio Imprudente).

Esemplare il servizio “pedibus” nelle città: bambini e ragazzini che vengono accompagnati a piedi a scuola da volontari e altre figure adulte procedendo lungo una corda e intonando canzoni come boy scout. Così la scuola e la vita, così la scuola della vita: accompagnare e accompagnarsi lungo le strade facendo cordata come gli alpinisti. Nella vita dei giovani bisogna indicare e portare la luce affinché, poi, sappiano trovare la loro strada.

La scuola dovrebbe tornare (o, almeno, provare a tornare) al suo significato etimologico e stimolare il naturale atteggiamento poetico dei bambini e dei ragazzi e fare così naturalmente “poesia”, che è produzione dal sé e del sé. A scuola avvicinare i bambini alla poesia non dovrebbe essere far imparare poesie a memoria, farle imparare più lunghe per dimostrare quanto siano bravi a memorizzarle, scegliere poesie in base agli eventi, periodi o mode (anche editoriali) del momento, secondo il proprio punto di vista adulto, preparare recite e saggi di fine anno, né far studiare poeti, spiegare e far rispettare la metrica. La poesia è linguaggio, emozione, ascolto, espressione, è come la primavera: va annusata, sentita sulla pelle, interiorizzata. Educare alla poesia, coltivare l’atteggiamento poetico è, pertanto, far provare emozioni, far conoscere la propria interiorità e farla esprimere liberamente. La poesia contribuisce allo sviluppo pieno ed armonioso della personalità del fanciullo e a creare un’atmosfera di felicità, amore e comprensione (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Si può parlare di una sorta di “diritto alla poesia” come diritto all’ascolto (art. 12 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e diritto alla libertà di espressione (art. 13 Convenzione).

Significativo il monologo del regista Paolo Sorrentino sulla scuola (20 gennaio 2023), in particolare sui genitori nella scuola per i quali usa l’espressione “entusiasmo immotivato” e conclude dicendo che dell’educazione dei genitori si dovrebbe occupare Dio. La scuola è diventata uno show sottoposto all’indice di gradimento, audience, share dei genitori che fanno da fan dei figli e critici televisivi degli insegnanti. Anziché manifestare entusiasmo immotivato per ogni minima cosa (anche irrilevante, per esempio dire ripetutamente “bravo/a, bravissimo/a” al/la figlio/a durante il semplice svolgimento dei cosiddetti compiti a casa), i genitori dovrebbero instillare entusiasmo motivato nei figli (ai quali trasmettono, invece, tutt’altro).

La scuola deve co-progettare e non diventare un progettificio e un’applicazione di programmi: i bambini stessi sono progetti di vita e gli adulti di riferimento devono contribuire a “fare cantiere”. 

Diritto alla bambinità

Abstract: L’articolo vuole essere un monito per gli adulti evidenziando alcuni errori tra i più comuni che si fanno nel relazionarsi con i bambini 

Ricordare, per ridare voce, per rifare luce: Giuseppe Di Matteo, vittima di mafia. Rapito a quasi 13 anni, sequestrato per 25 mesi, 779 giorni, tenuto in pochi metri quadrati, spostato in sette nascondigli, strangolato da tre killer, sciolto nell’acido a quasi 15 anni. Ha vissuto gli ultimi giorni peggio di Anna Frank, perché non ha potuto né scrivere né esprimersi, peggio dei condannati alle camere a gas, perché non ha potuto sentire la voce e la presenza di nessuno se non dei suoi carcerieri. Poi si parla di diritti fondamentali dei bambini, diritti umani dei detenuti, diritto internazionale di guerra… “Se questo è un uomo”, scriveva Primo Levi, scampato ai lager, se questo è un uomo, c’è da chiedersi ancora, ogni giorno e oltre, fin quando sarà commesso un aberrante crimine atroce, soprattutto a danno dei bambini. Oltre a crimini efferati e alle guerre che causano la morte dei bambini, la società attuale è sempre più free child o no kids, ovvero manifesta la “sindrome antibambini” oppure vìola i bambini o impedisce loro di essere tali.

Il grande pedagogista polacco Janus Korczak scriveva: “Purtroppo non conosciamo i bambini, o meglio: li conosciamo sulla base di pregiudizi”. Si ignorano l’infanzia, la cultura dell’infanzia e la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, nonostante nell’art. 42 della Convenzione si preveda di farla conoscere diffusamente e nell’art. 45 si disponga di promuoverne l’effettiva applicazione. Il primo diritto dei bambini è quello di essere bambini e rimanere bambini quando ne hanno l’età per divenire “buoni” e “veri” adulti.

Il saggista Goffredo Fofi afferma: “La pedagogia non si è forse mai portata così male come oggi. Ripartire dall’essenziale, dalle osservazioni immediate e dalle necessità evidenti come fece Korczak, sarebbe oggi indispensabile a chiunque ami davvero l’infanzia e la rispetti”. “Osservare”, letteralmente “guardare diligentemente, tanto con gli occhi fisici che con quelli della mente”, e “necessità”, etimologicamente “raggiungere, conseguire, adoperarsi per raggiungere un fine”: spesso tra gli aspetti più trascurati nei confronti dei bambini, mentre ci si preoccupa maggiormente di come vestirli e di cosa far mangiare loro e, se mai, pure in modo inidoneo e secondo i gusti unilaterali degli adulti, innanzitutto delle mamme.

Anche Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, sostiene: “Se sappiamo osservare il bambino e dialogare con lui, ci rendiamo conto di come i primi sei anni costituiscano un laboratorio di scoperte e invenzioni. Spia privilegiata di questo intenso lavoro cerebrale è l’acquisizione del linguaggio, in cui la logica cede il passo alla fantasia e alla creatività”. Il primo e principale modo dei genitori e educatori di mettersi al cospetto dei bambini è dunque osservare (come fanno gli ornitologi dai capanni o dalle torrette o come hanno fatto i primi cultori dell’infanzia, Jean Piaget e

Maria Montessori) e dialogare; in tal modo si rende anche possibile l’applicazione degli articoli 12 e 13 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

La prima cosa che si osserva in un bambino è il sorriso. Anzi, sin dalla nascita si cerca di cogliere e si ammira il sorriso del neonato e ci si stupisce come se fosse sempre un evento nuovo. “Non hanno neanche due mesi e già ti sorridono. Forse imitano gli adulti, forse è l’innato bisogno di compiacere, forse è la rivincita della natura sulla seriosità o forse qualcos’altro che ignoriamo. Fatto sta che il sorriso da subito fa parte integrante di una comunicazione vitale (così come le lacrime, d’altra parte, e i bambini riescono a piangere e a ridere insieme, mischiando senza vergogna sensazioni ed espressioni di piacere e di frustrazione). […] lo vediamo tutti noi, come nessun bambino rinunci a sorridere appena ne sia capace; e in quel sorridere, puro e un po’ enigmatico, si intravede una promessa, un segreto, una sfida. Il bambino ti sorride finché lo guardi negli occhi in una relazione diretta e attenta; un sorriso che ti costringe a fermarti, a non allontanartene bruscamente, ma quasi chiedendo permesso e scusa. E ti sorprende sempre” (fra Danilo Salezze, esperto di problematiche sociali). “Egli [il bambino] ha diritto alla spensieratezza, alla risata, al gioco, e anche a un avvenire professionale” (dalla Charte du BICE, Parigi 2007). Dalla serenità dipende il presente che, a sua volta, diviene solida base del futuro. “Sereno” etimologicamente significa “splendente” per cui si riferisce al cielo limpido e, poi, allo stato d’animo tranquillo, pertanto si addice a quanto scritto nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare “atmosfera di felicità, amore e comprensione” (Preambolo), “benessere” e “protezione” (art. 3) (il significato etimologico di “protezione” è “coprire davanti”, quel gesto di copertura che richiama la volta celeste). Ai bambini di oggi manca spesso la possibilità di alzare lo sguardo al cielo e sognare o il loro cielo non è affatto sereno ma tenebroso o con bagliori di bombe.

“La nostra cultura ha bisogno di sognare. La nostra società, stretta nelle grinfie del mostro poliedrico chiamato «denaro», non sa più sognare: ha bisogno di immaginazione escatologica, di alimentare la propria speranza collettiva” (lo studioso gesuita Bert Daelemans). Si ha bisogno di sognare, sospirare, soffiare: come un bambino che soffia sulla torta del suo compleanno per spegnere le candeline esprimendo il suo più grande desiderio con gli occhi chiusi e credendo fermamente a quello che fa in quel momento e in quel gesto. I bambini hanno il diritto di sognare e di crederci e gli adulti, se proprio non possono contribuire, almeno non devono intervenire o interferire per demolire o deturpare.

I bambini sono sempre più privati del loro tempo, del loro ritmo, della loro spensieratezza. Per esempio alcuni genitori li iscrivono anticipatamente alla scuola dell’infanzia o alla scuola primaria non tenendo conto del carico degli orari scolastici e delle attività didattiche proposte da dover sopportare quando lo sviluppo psicofisico del bambino non è ancora adeguato (si pensi alla difficoltà nell’impugnare matite colorate o altri strumenti). Sull’anticipo scolastico l’insegnante

Paola Spotorno consiglia: “È un’opportunità e una facoltà che hanno i genitori, ma che deve essere esercitata nel rispetto dei reali bisogni del bambino e non di una supposta perdita di tempo nell’aspettare ancora un anno. Non c’è mai perdita di tempo se si rispetta la naturale crescita dei bambini, che non sempre coincide con la loro intelligenza o capacità di apprendimento, né tanto meno con lo sviluppo fisico. Bisogna prima di tutto valutare la loro capacità di concentrazione e il loro reale sviluppo emotivo”. “Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, a prescinderne dalle frontiere, sia verbalmente che per iscritto o a mezzo stampa o in forma artistica o mediante qualsiasi altro mezzo scelto dal fanciullo” (art. 13 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Affinché il bambino si esprima e sia libero di esprimersi è necessario che abbia il giusto tempo di acquisire questa capacità e i relativi mezzi.

“Esprimere” significa letteralmente “fare uscire premendo” e dentro di sé si hanno emozioni, stati d’animo, sentimenti che i bambini stanno imparando a provare e a incanalare, ma si tende a dare più importanza alle emozioni che ai sentimenti. Il filosofo gesuita Gaetano Piccolo chiarisce: “Le emozioni non interessano, per se stesse, nel discernimento, perché evidenziano la nostra passività rispetto alla realtà. Nel provare sentimenti, invece, siamo coinvolti come soggetti attivi, che di fatto stanno già operando mediante interpretazioni. Il sentimento, in altre parole, è la chiave di accesso per scoprire cosa stiamo pensando, come ci stiamo ponendo di fronte alla realtà. Per riprendere Spinoza, sono i sentimenti che permettono alla persona di conoscersi. […] Il conflitto, certo, rimane, ma si palesa come conflitto fra sentimenti, cioè tra interpretazioni della realtà. […] Se dunque nel sentimento sperimento chi posso essere, scegliere tra sentimenti in conflitto vuol dire scegliere chi voglio essere, decidere di me. Ecco perché non ci può essere riconoscimento della propria identità senza passare attraverso la consapevolezza dei propri sentimenti”. I bambini hanno il diritto di essere educati ai sentimenti e nei sentimenti, hanno il diritto di vivere i loro sentimenti: è quanto si ricava anche dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare dal Preambolo e dall’art. 8 in cui si parla espressamente di “identità” e “relazioni familiari”.

Lo scrittore Marco Missiroli annota: “C’è qualcosa che conta più della bellezza, della sensualità, del potere. È la purezza. Nessun uomo, e nessuna donna, riuscirebbe a desistere davanti alla possibilità di far proprio un candore”. Descrizione che rispecchia l’infanzia. I bambini sono letterari, non letterati: dicono quello che pensano e non pensano (= pesano) quello dicono. Altro che immaturi i bambini: essi manifestano già consapevolezza dei sentimenti, chiarezza nel linguaggio, comunicazione diretta, esprimono e mantengono segreti. I bambini si esprimono sempre, ma dall’altra parte non sempre trovano adulti pronti, preparati e premurosi. L’educazione sentimentale deve, pertanto, incanalare e salvaguardare questo patrimonio.

Purtroppo, l’ambiente circostante i bambini è sempre più “adultiforme”, sempre più bambini sono figli unici, nipoti unici, neonati unici in una società che si rivela sempre più adultocentrica e senescente. Ogni bambino è di per sé unico, ma bisogna fare in modo che non diventi “tiranno con la sindrome dell’imperatore”.

I genitori e gli altri adulti di riferimento dicono continuamente sì ai figli o ai bambini in generale, anche perché fisicamente comporta meno fatica ed energia chinare il capo, come quando ci si addormenta (segnale e metafora dell’addormentamento delle coscienze e delle responsabilità). Qualsiasi regola è accettata e rispettata se, anziché essere imposta, è condivisa, spiegata e incanalata verso un comune obiettivo: esperienza che si può e si deve fare con i bambini, cittadini del presente e del futuro. “Occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Ai bambini bisogna non solo trasmettere le regole ma dire anche la verità in certe situazioni, ovvero i bambini hanno bisogno di autenticità (il cui etimo è “autore”, come per la parola “autorità”). Lo psicoterapeuta Alberto Pellai sottolinea: “La verità, anche la più difficile, per i bambini è sopportabile. Quando è stata detta, permette di dare voce a tutte le emozioni che essa scatena. Si può piangere per la tristezza, urlare per la rabbia, addolorarsi per la fatica. Ma almeno le cose possono essere dette. Così non rimangono intrappolate nella paura o nella bugia di chi sa qualcosa che c’è ma che non può essere comunicato. La verità fa bene. Anche quando fa male. A questo dovremmo pensare quando in gioco c’è il dolore e la malattia. E quando in questo gioco doloroso, purtroppo, sono coinvolti i bambini”. Nel summenzionato art. 13 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, si stabilisce che il fanciullo ha diritto di ricevere informazioni e idee di ogni genere affinché possa avere la libertà di espressione. Il “vero” è ciò che è conforme alla realtà ed è importante che il bambino sappia il vero in qualsiasi campo, a maggior ragione personale, in modo tale che sviluppi ed eserciti la sua libertà di scelta (art. 14 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’infanzia).

Ai bambini bisogna sì esporre la verità ma soprattutto saperla comunicare. La scrittrice Donatella Di Pietrantonio fa dire alla bambina per due volte abbandonata, prima dalla famiglia di nascita e poi da quella cui era stata affidata: “– Io voglio vivere a casa mia, con voi. Se ho sbagliato qualcosa dimmelo, e non lo farò più. Non lasciarmi qui. – Mi dispiace, ma non ti possiamo più tenere, te l’abbiamo già spiegato. Adesso per favore smettila con i capricci ed esci, – ha concluso fissando il niente davanti a sé. Sotto la barba di alcuni giorni i muscoli della mascella gli pulsavano come certe volte che stava per arrabbiarsi” (in “L’arminuta”). Nelle separazioni delle coppie e nelle forme abbandoniche dei figli si innesca un meccanismo perverso: da una parte l’autocolpevolizzazione dei

bambini e, dall’altra, adulti sempre più egocentrati sui loro problemi, sulla conflittualità con l’altro/a e sulla ricostruzione della loro vita.

Si ricordi che la “personalità del fanciullo è sacra” (art. 1 Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro, Roma 1967) e che “ogni bambino ci dice a suo modo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama così alla nostra responsabilità” (dalla Charte du BICE, Parigi 2007).

I bambini hanno chiaro tutto, gli adulti forse no: i bambini hanno diritto alla bambinità, alla loro bambinità, dal primo momento, in ogni momento.

Salvaguardare la natura bambina

Sintesi: I bambini, prima ancora di essere il futuro, sono il presente

Abstract: L’articolo propone considerazioni sulla realtà autentica dei bambini invitando gli adulti a cambiare il loro sguardo, a volte distratto o proprio assente

Dinanzi a un bambino nei primi mesi di vita si sorride, si ammira e ci si sorprende per qualsiasi cosa faccia. Perché, poi, si perde quest’atteggiamento di meraviglia e di gratitudine nei confronti della vita?

Secondo la filosofa Isabella Guanzini non tanto la bellezza salverà il mondo quanto la tenerezza, “la rivoluzione del potere gentile” salverà questa “società della stanchezza”. “Tenerezza” viene dal latino tenerum, che significa “di poca durezza, che acconsente al tatto”, dunque “sensibile”: tenerezza come quella che hanno e suscitano, per natura, i bambini. Qualcuno parla di diritto alla tenerezza, in particolare di diritto del bambino alla tenerezza. “Ogni bambino ci dice a modo suo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama altresì alla nostra responsabilità. La sua nascita rappresenta un’esperienza nuova per l’umanità che gli deve ciò che ha di meglio” (dalla Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance, Paris 2007).

La vera misura dello sviluppo di un paese è l’efficacia con cui provvede ai propri bambini: alla loro salute e incolumità, alla loro sicurezza materiale, alla loro istruzione e socializzazione, al loro senso di essere amati, stimati e integrati nelle famiglie e nelle società in cui sono nati” (da un report dell’UNICEF del 2007). I bambini hanno diritto alla vita, né di più né di meno: la vita contiene tutto quello di cui hanno bisogno.

Un noto proverbio africano dice: “Quando gli elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata”. “Gli Stati parti si impegnano a rispettare ed a garantire il rispetto delle norme di diritto internazionale umanitario applicabili nei casi di conflitto armato e la cui tutela si estenda ai fanciulli. Gli Stati parti devono adottare ogni possibile misura per garantire che nessuna persona in età inferiore ai 15 anni prenda direttamente parte alle ostilità” (art. 38 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Anche se parlare di diritto internazionale umanitario in materia di diritti dei bambini è un controsenso. Sarebbe meglio che non ci fosse alcun conflitto, in particolare quelli familiari, i più deleteri per i bambini, ancor di più dei conflitti armati, i quali fanno notizia e attirano l’attenzione dell’opinione pubblica, anche se in maniera superficiale, mentre quelli familiari si consumano, il più delle volte, nel silenzio e nella solitudine.

“I bambini di Napoli non erano innocenti, ma colpevoli tutti di nascita e di luogo. Ho conosciuto in Bosnia una ferocia simile, i cecchini miravano ai bambini per segno di bravura su bersagli difficili. Eppure li ho visti giocare sulle macerie dei bombardamenti: giocare alla guerra, giocare alla fame, giocare alla morte” (da “Infanzia” di Erri De Luca). I bambini di oggi non rischiano solo le bombe, ma anche le scelte sempre più egoistiche dei genitori che sono deleterie quanto le bombe. I veri super-eroi sono i bambini che continuano ad avere fiducia nella vita e a lottare per lei (come quando danno i calci nella pancia della mamma).

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro richiama: “Se non vogliamo accettare passivamente che i bambini perdano la vita per mano dei violenti ma non siamo capaci di scendere a fianco delle famiglie e delle comunità colpite, le nostre convinzioni non valgono nulla, e la violenza avrà ottenuto il risultato voluto: terrorizzarci e isolarci gli uni dagli altri”. Non si facciano “scomparire” (in ogni senso) i bambini e la loro infanzia: i bambini, prima ancora di essere il futuro, sono il presente, la base della vita. E non si parli dei bambini con sigle o etichette (come, per esempio, si fa scuola dove si parla di DSA, BES, DVA, …) perché anche questo deturpa la loro infanzia, l’unicità dell’infanzia come l’unicità della vita.

Pablo Neruda scriveva: “Potranno tagliare tutti i fiori ma non fermeranno mai la primavera”. Potranno ferire o far perire molti bambini ma non cancelleranno l’infanzia, “primavera, prato e primizia della vita”. I bambini sono fiori, frutti e, al tempo stesso, impollinatori della vita.

Un bambino: “Io metto la mia mano sulla tua: quando tu muovi la tua mano si muove anche la mia e così io ti do una mano”! La migliore spiegazione di quello che dovrebbe essere il mantenimento in famiglia. Le spiegazioni dei bambini sono le migliori perché dettate solo dalle emozioni. L’infanzia non finisce quando diventa bagaglio cui attingere per rivestirsi ogni giorno di nuove e belle cose, perché l’infanzia è spontaneità e autenticità.

Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, spiega: “Molto spesso l’empatia e la socialità, qualità innate nei bambini, scompaiono con l’avanzare dell’età, sconfitte dall’indifferenza o dal pregiudizio. Dovremmo impegnarci tutti affinché i bambini, «morali per natura», non diventino «amorali per cultura»”. I figli vanno educati, né adulati né adulterati. I figli devono essere totalizzanti (come accudimento nei primi anni di vita e come responsabilità per tutta la vita) ma non divenire totalitari.

Il sociologo Franco Cassano affermava: “Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada”. Per assaporare della vita la bellezza e la dolcezza ci vuole lentezza. L’infanzia è la lentezza della vita e se ne abbia più rispetto!

“Se fai una cosa per me ma la fai senza di me, la fai contro di me” (Gandhi): è quello che fanno alcuni adulti che impediscono ai bambini di essere tali in base all’età e di crescere. Come in un film in cui un bambino di “48 mesi” (per non dire che ha già quattro anni) è ancora allattato al seno materno. La madre, per giustificarsi, dice: “A lui piace così tanto e io non sono capace di dire di no”. La realtà sta superando la fantasia filmica.

Bisogna mostrare ai bambini la realtà portandola al loro livello (e non il contrario) ma senza edulcorarla troppo, altrimenti si rischia di farli diventare “futuri diabetici”. Si parla tanto di resilienza ma i primi a non essere resilienti sono gli adulti. Si dice sempre che i bambini sono cambiati, sono rovinati dagli adulti (quindi si potrebbe parlare di “inquinamento dell’infanzia”) e così via. Ebbene non sono cambiati: basta dare loro tempo e anche materiale povero e sono uguali in ogni latitudine e in ogni longitudine. Ci sono bambini viziati e bambini picchiati; bambini idolatrati e bambini ignorati; bambini ingozzati e bambini affamati... E tutto questo è solo opera degli adulti.

In realtà i bambini hanno in sé talenti, attitudini, potenzialità, risorse (come ribadito in vari atti normativi e non, dall’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia alla Charte du BICE del 2007), che però sono deturpate, offuscate dagli adulti e poi si sostiene da ogni parte che, nelle nuove generazioni, devono essere stimolate e sviluppate le life skills tanto che nel giugno 2020 l’Unione Europea ha pubblicato un documento per dare un indirizzo all’educazione, il LifeComp Framework definendo le competenze “che possono aiutare le persone a diventare più resilienti e a gestire le sfide e i cambiamenti nella loro vita personale e professionale in un mondo in continua evoluzione”. Già Maria Montessori, che considerava il bambino “embrione spirituale” e “costruttore dell’umanità”, nei primi decenni del secolo scorso affermava: “Un’educazione capace di salvare l’umanità richiede non poco: essa include lo sviluppo spirituale dell’uomo, la sua valorizzazione, e la preparazione del giovane a comprendere i suoi tempi. Il segreto sta qui: nella possibilità per l’uomo di divenire il dominatore dell’ambiente meccanico da cui oggi è oppresso. Il produttore deve dominare la produzione” (in “Educazione e pace”).

Anche lo scrittore russo Boris Pasternak, nella prima metà del ‘900, sosteneva: “Perdere la fanciullezza è perdere tutto. È dubitare. È vedere le cose attraverso la nebbia fuorviante dei pregiudizi e dello scetticismo”. Perdere la fanciullezza è perdere l’ebbrezza, la purezza, la carezza. È perdere il sé e pendere nel né: è perdere il meglio e perdersi nel meno.

“Fantasia”, secondo alcuni etimologi deriva dal greco “phanos”, “luce”: quella luce dell’anima e nell’anima che hanno i bambini e coloro che si fanno pervadere dallo stesso alone di vita. Il pedagogista Raniero Regni definisce i bambini “una sorta di epifania” (in un webinar del 16-10-2024).

Il più grande segreto della persona felice: vivere e sorridere alla vita, comunque, ovunque e con chiunque. Il vero segreto della persona felice è la vita stessa: come i bambini, come con i bambini. Il sorriso di un bambino ricorda che si può sorridere ancora, si deve sorridere sempre, ovunque e comunque.

L’infanzia: l’infinito delle possibilità della vita, un traguardo che non appartiene al passato, ma cui non si finisce mai di arrivare. Come il verbo amare che non si dovrebbe coniugare al passato, soprattutto per il bene dei bambini. Superare il finito dell’età adulta per tornare all’infinito dell’infanzia!

I bambini, più che dire la verità, sentono la verità. I bambini sanno semplicemente essere e di essere: ciò che conta di più nella vita, la vita stessa!