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L’adolescenza oltre l’apparenza

Abstract: L’articolo descrive la fisiologia dell’adolescenza proponendo riflessioni pedagogiche e indicazioni normative rivolte ai genitori e agli adulti in generale

Il 15 luglio ricorre la Giornata mondiale delle competenze giovanili, istituita dall’ONU nel 2014, “per sottolineare l’importanza di investire nei giovani, garantendo loro opportunità di crescita personale e professionale. L’età adolescenziale è una fase molto importante nello sviluppo umano, caratterizzata da profondi cambiamenti fisici, emotivi e sociali. Questi mutamenti sono spesso accompagnati da un’intensa esplorazione dell’identità personale, poiché gli adolescenti iniziano a formare un senso di sé più definito e a stabilire la propria autonomia. Ma l’adolescenza è anche un periodo fondamentale per lo sviluppo cognitivo. Infatti i giovani iniziano a pensare in modo più astratto e critico, sviluppando capacità di problem solving e ragionamento logico” (cit.). “Adolescente” è etimologicamente “colui che cresce”, mentre “adulto” è “colui che è cresciuto”. È fondamentale che l’adolescente viva, attraversi, interiorizzi la sua fase adolescenziale per non essere più bambino e per diventare adulto e non pseudotale (come lo sono tanti per i quali è stato coniato il termine “adultescenti”).

“L’adolescenza, che va dagli 11 ai 18 anni, è un periodo di significativo cambiamento e crescita, sia per i giovani che per i loro genitori. È una fase di transizione cruciale che richiede comprensione, pazienza e adattabilità […]. Essere genitori non significa essere amici. Ricordatevi che il ruolo di genitore comporta responsabilità e guida. È un equilibrio delicato tra offrire supporto e mantenere una certa autorità. Essere genitori di un adolescente non è semplice, ma è un viaggio ricco di apprendimento e crescita reciproca. È anche un’opportunità per rafforzare il legame familiare e comprendere meglio i propri figli mentre si avventurano verso l’età adulta. Il viaggio dell’adolescenza è tanto una sfida per i ragazzi quanto per i genitori” (un team di esperti). L’adolescenza non è una patologia ma suscita pathos, perché è quel periodo in cui il ragazzo si trova di fronte al proprio progetto di vita, in cui deve partorirsi da solo. È il periodo in cui i genitori devono stare più vicini (anche senza essere visti) al figlio con l’assistenza morale e rispettarne le capacità, le inclinazioni naturali e le aspirazioni (art. 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.) dopo essersi occupati prevalentemente di mantenerlo, istruirlo e educarlo; e questo passaggio o diverso atteggiamento da parte dei genitori risulta difficile.

Tra i tanti interventi degli “esperti”, la saggista Ritanna Armeni centra la situazione attuale: “[...] I nostri adolescenti fanno parte di una generazione che per prima ha vissuto la “solitudine” dei social, che ha conosciuto il mondo attraverso lo schermo dello smartphone, che ha consumato un distacco più profondo rispetto ad altre generazioni con la cultura degli adulti, specialmente dei genitori”. Oggi c’è un crescente disagio adolescenziale e giovanile (ma non si parli di emergenza) perché 

mancano sempre più gli adulti consapevoli e responsabili, come ribadisce lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini. Forse questa è la vera emergenza.

Infatti, Matteo Lancini richiama continuamente la responsabilità dei genitori, soprattutto di quegli atteggiamenti, anche inconsapevoli, che emergono poi nella fase adolescenziale dei figli, che è comunque una fase fisiologica della vita e che fa “esplodere” patologie solo in alcuni casi: “I genitori che accompagnano e prelevano i figli da scuola non li abituano all’autonomia, alla vita. Dilaga la pornograficazione che consiste nel fotografare e pubblicare ogni momento. I genitori non abituano i figli alla solitudine, però, poi, li vorrebbero soli in cameretta a studiare durante l’adolescenza. Si dà il cellulare ai figli sin dalla tenera età, anche per sapere cosa fanno e dove stanno per cui li si tiene sotto sequestro. Esaltano, difendono i loro figli a discapito degli altri, per cui non consentono la mentalizzazione [processo mentale attraverso cui si percepiscono e comprendono i propri comportamenti e quelli altrui]. Oggi esiste la fragilità adulta” (in un webinar).

Alla voce di Matteo Lancini fa eco quella del pedagogista Daniele Novara: “Molti genitori vivono con ansia i silenzi, gli allontanamenti e le chiusure emotive dei figli adolescenti, temendoli come segnali di fallimento, quando in realtà sono passaggi fisiologici e inevitabili della crescita. L’adolescente maturo non esiste. Cerca sé stesso, e per riuscirci ha bisogno di uno spazio libero dall’invadenza adulta. I figli non chiedono ai genitori di essere perfetti. Non chiedono di risolvere ogni problema, ma di restare un punto di riferimento saldo e accessibile. Non chiedono di guidarli sempre per mano, ma di lasciar loro la possibilità di seguire la propria strada. Questa è la vera sfida educativa: restare presenti, ma con la giusta distanza” (in un articolo del 30 aprile 2025). È vero che l’adolescenza sta diventando sempre più implosiva e imperscrutabile, ma bisogna riconoscere che questo è più un problema per i genitori la cui genitorialità entra in adolescenza.

Il pedagogista Novara analizza: “Quando i figli e le figlie abbandonano la condizione infantile, il cambiamento è profondo. Hanno il desiderio di allontanarsi dal nido materno, che per i primi anni li ha accuditi e protetti, di andarsene dal controllo genitoriale per trovare la propria libertà e conquistarsi uno spazio tutto loro. La vita si affaccia a una nuova fase, nella quale essi sono decisi ad affrontare con le proprie forze le sfide che si presentano, provando a superare quei limiti che fino a ieri parevano insuperabili. Una ricerca di libertà per staccarsi dalle protezioni e dal controllo”. Genitori e educatori devono tener conto delle differenti età e caratteristiche, anche in base alle indicazioni fornite dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, come per esempio “dare alle opinioni del fanciullo il giusto peso in relazione alla sua età ed al suo grado di maturità” (art. 12 par. 1).

A tale proposito lo psicologo e psicoterapeuta Gianluca Marchesini precisa: “Gli adolescenti hanno tante cose da dire ma bisogna saper fare le domande e mettersi in ascolto” (in un webinar del 12 maggio 2025). Per gli adolescenti bisogna tenere conto, perciò, di quanto scritto nell’art. 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: sono capaci di formarsi una loro opinione e bisogna assicurare il diritto di esprimerla liberamente e in qualsiasi materia, dando alle opinioni dei ragazzi il giusto peso in relazione alla loro età e al loro grado di maturità.

Durante l’adolescenza i figli hanno ancora più bisogno di ascolto (art. 12 Convenzione), di libertà di espressione (art. 13 Convenzione) e di libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 14 Convenzione), ovvero di acquisire autonomia personale piena e consapevole per diventarne, poi, anche responsabili.

Daniele Novara aggiunge: “Con i figli e le figlie adolescenti è meglio che le madri passino la palla al “paterno”, ossia a quella modalità educativa che crea argini e sponde, spinge alla libertà e suscita coraggio. Oltre che al «gruppo adolescente»”. Durante l’adolescenza del figlio occorrono un secondo (e definitivo) taglio al cordone ombelicale e un arretramento del codice materno. Non si perde così il figlio lasciandolo andare, ma ci si ritrova davanti al figlio che vuole conquistarsi questa sua dimensione, con cui ci si deve confrontare e che non è più (solo) da coccolare e controllare. Ad ogni figlio bisogna garantire “crescita” e “sviluppo” (distinzione che si ricava dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Novara analizza: “Ma come gestire l’adolescente che cerca questo allontanamento? La mamma, in particolare, rappresenta l’infanzia e questo nido da cui figli e figlie intendono schiodarsi e allontanarsi. La pretesa di mantenere lo stesso ruolo di quando i figli erano bambini costituisce un’inutile zavorra. Molte madri continuano imperterrite a comportarsi e ad agire come se i loro figli fossero ancora piccoli, ma non funziona. Un approccio puramente materno, se non addirittura di maternage [quello che caratterizza i primi anni di vita di un bambino], oltre che inutile, spesso è pericoloso e dannoso”. Le mamme devono prendere esempio dagli animali: per esempio le mamme rondini, quando i piccoli raggiungono circa i primi 20 giorni di vita, li assecondano nello spiccare il loro primo volo e per la prima settimana li accompagnano a far ritorno al nido fin quando si involano definitivamente e raggiungono la loro indipendenza alimentare.

Ancora Novara: “Gli adolescenti non necessitano di accudimento. Troppi ragazzi e ragazze di 12-13 anni sono ancora nel lettone, troppi ancora alla ricerca di una conferma materna senza riuscire a staccarsi, a prendere la propria strada”. Gli adolescenti hanno bisogno di “paternità”, di “autorità”, ovvero del definitivo taglio del cordone ombelicale: non hanno bisogno di accudimento ma di ascolto nel silenzio, accrescimento della loro identità, aspirazioni proprie, allontanarsi dalle proprie mura e avvicinarsi ad altri. Non a caso nell’art. 27 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si parla di “sviluppo sociale” e dai 14 anni scatta l’imputabilità penale.

Secondo il pedagogista: “Da sempre l’uscita dall’infanzia coincide con la scoperta del gruppo adolescente. Una forza viva che mamme e papà possono e devono sostenere stabilendo regole di vigilanza educativa, ma senza mai bloccare la libertà che non è capriccio, ma bisogno profondo di mettersi alla prova, spingere al massimo le proprie risorse, provarci per affrontare le sfide della vita con coraggio”. Essere genitori è un atto di coraggio, quel coraggio che i genitori sono chiamati a trasfondere e trasmettere ancor di più nell’età adolescenziale dei figli, come nella storia di Cappuccetto Rosso.

“I ragazzi e le ragazze hanno un bisogno estremo di ritrovarsi in un gruppo di coetanei adolescenti – afferma Daniele Novara –. Perché i loro sono anni magici ma difficili, ed è più facile scoprire il mondo assieme ad altri che a loro volta lo stanno scoprendo”. Anche la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia è un “crescendo” di situazioni, per cui dopo aver disciplinato il diritto all’ascolto del fanciullo in relazione alla sua età e al suo grado di maturità nell’art. 12, successivamente stabilisce il diritto alla libertà di espressione, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione e alla libertà di associazione e alla libertà di riunione pacifica (artt. 13, 14, 15) che sono proprio le esperienze che si vivono in maniera più esplicita in età adolescenziale e con i coetanei.

Edoardo e Chiara Vian, esperti di famiglie in difficoltà, riportano la loro prospettiva di genitori: “[...] c’è un tempo in cui perdiamo i nostri figli, in cui non sappiamo dove sono (spesso anche solo metaforicamente) e navighiamo nell’angoscia genitoriale, ma se continuiamo a occuparci di loro, se non demordiamo nel cercarli e nel cercare di riallacciare con loro una relazione, ci sarà il terzo giorno, il giorno in cui loro risorgeranno a una nuova identità adulta, consapevoli della loro missione. E allora potremo tornare a gioire di una nuova relazione più adulta con loro”. I genitori devono essere consapevoli che i figli non sono i “loro” e, pur vedendoli sempre “piccoli”, devono imparare a crescere con loro, superando le crisi adolescenziali della genitorialità per ritrovarsi tutti più adulti, nuovi adulti.

“Genitori in cerca di risposte, insegnanti alle prese con classi complesse, educatori e psicologi che cercano chiavi di lettura e buone pratiche. Intanto, media e cronaca spesso rincorrono stereotipi, raccontando solo devianza e “baby gang”, quasi a voler scaricare sugli adolescenti le fatiche di un mondo adulto in affanno. Noi crediamo, invece, che serva uno sguardo diverso: più inclusivo, più curioso, più costruttivo” (cit.). Nei confronti degli adolescenti bisogna avere innanzitutto uno sguardo, uno sguardo che non sia indagatore o accusatore ma curioso di conoscerli. Quello sguardo che tutti, facendo comunità e aprendosi come comunità, devono avere per impartire l’orientamento e i consigli necessari all’esercizio dei diritti riconosciuti dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (art. 5) che, a maggior ragione, durante l’adolescenza il ragazzo prova a sperimentare autonomamente.

Il sociologo Franco Garelli definisce gli adolescenti di oggi increduli, non credenti, non coinvolti, e parla di “perdita delle antenne per intercettare, perdita delle narrazioni collettive”. I ragazzi vanno, perciò, accompagnati, coinvolti, fatti entrare in un circolo di comunicazione (e non telecomunicazione come si fa ora che si sta sempre al cellulare pur stando seduti vicini).

La parola “ragazzi” contiene “arazzi”, perché l’educazione in particolare in età adolescenziale comporta pazienza e passione come l’arte tessile e perché i ragazzi vanno considerati opere d’arte da ammirare da lontano e che anche altri devono guardare. 

 

Fulvio Scaparro, non solo pioniere della mediazione familiare

Abstract: Fulvio Scaparro, uno dei più grandi studiosi di psicologia dell’età evolutiva e di altre scienze umane, da sempre al servizio della persona, di ogni persona

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro è noto per l’essere stato il pioniere della mediazione familiare in Italia ma, in realtà, è stato antesignano della nuova cultura dell’infanzia e dell’adolescenza e dei diritti dei bambini molto prima della proclamazione della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, sensibilità maturata anche per l’aver vissuto da piccolo le brutture della seconda guerra mondiale e le difficoltà e le speranze del dopoguerra.

A proposito di guerra Fulvio Scaparro scrive: “I bambini sono divenuti gli obiettivi principali dei conflitti mondiali. Ma qualsiasi bambino non amato e curato diventa come un relitto abbandonato in mare, di cui ciascuno può impadronirsi. Mentre i piccoli dovrebbero a ogni costo essere sempre protetti”. Parole che riecheggiano quelle dell’art. 38 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “Gli Stati parti si impegnano a rispettare ed a garantire il rispetto delle norme di diritto internazionale umanitario applicabili nei casi di conflitto armato e la cui tutela si estenda ai fanciulli”.

Altrove Scaparro commenta: “Ci sono vari tipi di orfani: c’è chi non ha mai conosciuto i suoi genitori, chi li ha perduti per guerre o malattie, chi li ha ma non li apprezza, chi li ha e non sono apprezzabili”. In passato gli orfanotrofi rendevano tristemente visibili gli orfani al resto della comunità, oggi ci sono tanti orfani invisibili (che passano inosservati, non sono accolti né accompagnati in alcun senso) di genitori ancora vivi o resi orfani dai genitori stessi (per esempio nei casi di femminicidio). Le parole di Scaparro sulle forme di orfanità denunciano l’attuale eclissi genitoriale a fronte della quale l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, in occasione del 30° anniversario della Convenzione di New York, ha formulato il “diritto dei bambini a non essere lasciati soli”: “Tutti i bambini hanno diritto a non essere lasciati in solitudine. Ogni bambino ha bisogno di vivere la presenza effettiva dei genitori: deve poter condividere con loro le sue esperienze di vita, di studio, di gioco e le scoperte quotidiane. Tutti i bambini hanno diritto a essere felici e trovare negli adulti ogni forma di aiuto per allontanare la tristezza, la sfiducia e la rabbia”.

Bisogna vigilare sul fatto che i bambini subiscono aggressioni di ogni sorta non solo in ambienti violenti o dove vi sono conflitti armati ma anche negli ambienti apparentemente protetti o protettivi, deputati alla loro crescita e salvaguardia, come mette in guardia lo psicologo: “I piccoli, venendo al mondo, ‘concedono’ a noi e all’ambiente un’apertura di credito totale, si affidano totalmente - non potrebbero fare altrimenti - e dunque si trovano in condizioni di massimo rischio”.

“[…] Come possono confermare tutti coloro che da anni lavorano nel campo dei gravi conflitti familiari, sono tanti i bambini e le bambine che ogni giorno pagano sulla loro pelle le conseguenze della guerra senza esclusione di colpi tra i loro genitori. La loro infelicità è profonda, foriera di conseguenze sul piano personale ma anche su quello dell’intera comunità che ha un evidente interesse alla pace e alla serenità delle famiglie. Quello che colpisce è che tutti coloro che a vario titolo si occupano di queste situazioni affermano, per lo più in buona fede, di agire nell’interesse dei bambini”. Ci si rattrista (se ci si rattrista!) davanti alle scene di guerre che mietono vittime tra i bambini e si ignorano o si nascondono le quotidiane “stragi degli innocenti” nelle famiglie lacerate o in altri scontri tra adulti.

Il Nostro aggiunge: “Se non siamo stati aiutati e protetti o se siamo stati ingannati durante il periodo nel quale ci affidavamo agli adulti, c’è il rischio di non credere più a nulla, di fingere di credere per opportunismo oppure di rifugiarsi in una granitica fede per nascondere le nostre insicurezze sotto la corazza del pregiudizio, dell’integralismo e del fanatismo, tutti mali, questi ultimi, tra i più diffusi e perniciosi del nostro tempo”. Fino all’età di sette anni circa i bambini sviluppano il cosiddetto pensiero magico, che li rende aperti a tutto e a tutti e, così, i bambini si affidano agli adulti e affidano loro segreti, sogni, racconti. Gli adulti devono coltivare queste doti innate dei bambini e non tradirli. Questo rapporto di affidamento-fiducia è fondamentale per il pieno ed armonioso sviluppo della personalità del fanciullo, in particolare del suo sviluppo spirituale (art. 27 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Circa il modo di intervenire degli adulti nei confronti dei bambini, l’esperto precisa: “I bambini hanno bisogno di essere corretti per modificare alcuni comportamenti inadeguati. Per fare ciò servono regole, poche e chiare, più che punizioni”. I figli sono come i fiumi che vanno incanalati o manutenuti, altrimenti esondano causando danni e rischiando di perdere il loro alveo e di prosciugarsi. Anche la libertà di espressione, massima esplicazione della loro personalità, è disciplinata da “talune restrizioni” (art. 13 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

“Infanzia” comincia come “infinito”, “fanciullezza” comincia come “fantasia”: perché dovrebbero essere così. “È vero che i bambini vogliono sicurezza, amano i rituali, non tollerano la perdita di persone care, di oggetti, animali, atmosfere, odori, sapori che identificano il loro ambiente. Eppure, sono bislacchi – li definisce lo psicologo – per natura e si divertono come matti a mescolare le carte, a scompigliare ogni forma d’ordine per poi ritrovare, ricomporre, il quadro delle loro certezze”. “Bislacchi” (differente da “bizzarri”), un’espressione poco consueta che meglio indica la vera natura dei bambini a chi li osserva e tutela per come sono; oggi, invece, sono sempre più “bistrattati” o considerati strani o disturbati e portati da specialisti di ogni sorta.

Fulvio Scaparro ha sempre formulato, per professione e passione, consigli e indicazioni rivolte ai genitori tanto che è stato tra i primi a profilare il concetto di “genitorialità” (concetto che ha avuto un primo impulso dal testo dell’art. 30 comma 2 della Costituzione), che è una sfera più ampia in confronto a quella giuridica della potestà genitoriale, prima, e della responsabilità genitoriale, ora.

Proprio a sostegno della genitorialità nelle situazioni conflittuali, ha fondato nel 1987 con la collega Irene Bernardini l’Associazione GeA Genitori Ancora.

Tra i tanti moniti lanciati da Scaparro ai genitori: “Al bambino va riconosciuto il diritto all’immaturità (totale all’inizio dell’esistenza) ma anche quello all’accettazione di tempi personali di maturazione che non procede mai senza arresti e regressioni, soprattutto - ma non solo - quando il bambino e la sua famiglia attraversano periodi di gravi crisi, come capita, ad esempio, per malattie che richiedono l’ospedalizzazione o per la guerra tra i genitori”. I genitori devono fare molta attenzione al linguaggio usato (“Ormai sei grande!”), al trattamento tra un figlio e l’altro (“Sei sempre tu che lo stuzzichi!”), a non litigare davanti ai figli (“Ti sto crescendo i tuoi figli!”), a non vestirli in maniera adulta e a non abituarli poi nemmeno al minimo di autonomia (mangiare da soli e non imboccati, a tavola e non sul divano): queste contraddizioni educative (come tante altre) potrebbero, nel peggiore dei casi, manifestarsi in forme distruttive e/o autodistruttive in adolescenza. Tutto quello che si fa per i bambini nati pretermine (si veda, tra l’altro, la Carta dei diritti del bambino nato prematuro, 2010) dovrebbe mettere in guardia i genitori quando non tengono conto dei tempi e dei ritmi dei figli sottoponendoli a loro scelte prese dal punto di vista adulto, per esempio anticipo scolastico, pomeriggi sempre impegnati in ogni attività sportiva, far dormire poco i bambini e poi farli alzare presto al mattino e portarli in tutta fretta a scuola. Come per i bambini nati pretermine ci sono rischi per la salute e gli stessi possono avere qualche problema crescendo, così per i bambini di cui non si rispettano crescita e sviluppo.

I genitori non devono “amministrare” la vita dei figli ma cercare di “ammaestrare” i figli alla vita, alla loro vita: “Il bambino ha diritto a vivere appieno la propria infanzia e a scoprire col tempo i suoi talenti senza dover compiacere le aspirazioni di adulti a realizzare attraverso i figli quanto non hanno potuto ottenere in prima persona” (Scaparro).

“Restando in ambito scolastico – soggiunge Scaparro –, un brutto voto, una bocciatura, un provvedimento disciplinare sono umilianti solo quando si accompagnano a un giudizio che non si limita al semplice fatto sanzionato ma implicano un giudizio spietatamente e totalmente negativo sulle prospettive non solo scolastiche del reale o presunto responsabile. Sempre, nell’educazione, un rimprovero o una punizione dovrebbero essere seguite, non appena è possibile, da un dialogo tra chi punisce e chi è punito per evitare di entrare di nuovo in rotta di collisione o di superare i limiti del fatto con generalizzazioni indebite e, appunto, umilianti”. Secondo alcuni etimologi “rimproverare” è un rafforzativo del latino “improperare”, “scagliarsi contro con parole”, secondo altri deriva da “reprobare”, “riprovare”. Qualunque sia l’origine, il verbo “rimproverare” comincia con “ri-”, che indica il ripetersi di qualcosa o un tornare indietro: il biasimo non sempre è fertile o volto al miglioramento, ma il rimprovero, pur derivando da quel concetto, lo specifica, e diventa la correzione. Si rimprovera qualcuno perché ri-conosca il proprio errore, perché si ravveda e non lo ripeta: è questo il senso del rimprovero nell’educazione, quel rimprovero che si può e si deve fare. Correggere i bambini e i ragazzi rientra in quell’impartire l’orientamento e i consigli necessari all’esercizio dei diritti che riconosce la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (art. 5).

Molto interessante e profonda la riflessione sul senso religioso, su cui non si è soliti soffermarsi: “[…] quando i bimbi incontrano i primi grandi dolori, ma anche quando provano gioia o restano stupefatti di fronte allo spettacolo della natura, ci accorgiamo di quanto l’essere umano sia ‘naturalmente religioso’ non nel senso di una fede in una divinità superiore ma in quello ricavato da una probabile etimologia del termine ‘religione’ che lo vuole derivato dal latino religare. Questa fondamentale unità del tutto, questo legame tra gli eventi e le loro cause, naturali e soprannaturali, visibili e invisibili, è caratteristico della visione del mondo infantile. Anche gli adulti sperimentano questa la loro originaria sensibilità religiosa quando ricordano, rievocano, immaginano, fantasticano, sognano, gettano impensabili ponti tra presente, passato e futuro annullando i limiti di spazio e di tempo che vincolano l’esistenza dell’essere umano. Anche se non sempre ce ne rendiamo conto, molto spesso noi cerchiamo legami tra eventi, esperienze, emozioni e sentimenti come se credessimo alla fondamentale unità del nostro mondo” (Scaparro). I genitori e gli altri adulti di riferimento devono recuperare il senso spirituale della vita e della persona e ridare una dimensione religiosa anche all’educazione che non c’entra né con l’indottrinamento né con alcuna professione religiosa, ma significa anche orientare, suscitare domande (sul senso della vita), cercare risposte (in se stessi), leggere dentro i fatti, come si ricava da varie asserzioni della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Questa dimensione spirituale si realizza soprattutto nell’ascolto vero (e non quello giudiziale in base all’art. 336 bis cod. civ.), di cui all’art. 12 della Convenzione.

“Tutti i bambini vanno rispettati nelle loro diversità, anche in quelle che attengono alle tradizioni religiose delle comunità in cui sono nati e sono stati allevati. Su questo punto, quali che siano le nostre opinioni, dovremmo sentirci vincolati dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia diventata legge nel nostro Paese nel 1991, che ci obbliga a rispettare il diritto dei bambini e dei ragazzi non solo alla libertà di religione ma anche a quella di coscienza e di pensiero (art. 14)” (Scaparro). Tra i diritti più calpestati dei bambini vi è la libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 14 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) ma non solo perché non vi è il rispetto delle diversità bensì perché manca proprio l’educazione del pensiero, della coscienza e alla religione. Basti pensare che alcuni bambini, anche in tenera età, non hanno più sogni particolari ma da grandi vogliono solo avere tanti soldi, diventare ricchi per poter fare di tutto.

Contro l’isolamento tecnologico: “L’artista, lo scienziato, l’innovatore in ogni campo o semplicemente il curioso della vita, osserva con attenzione ciò che accade dentro e fuori di lui o di lei e vede in anticipo, fantastica, immagina, sogna, scopre e progetta ciò che sfugge a chi vive isolandosi da sé, dagli altri e dal mondo” (Scaparro). Fantasia, immaginazione, sogni, progetti (come quelli fatti con le cosiddette “costruzioni” o mattoncini) sono sempre state caratteristiche dell’infanzia ma, purtroppo, sono soffocate o spente dall’eccessivo ricorso alla tecnologia.

Fulvio Scaparro volge il suo sguardo, da nonno, non solo a bambini e ragazzi ma a tutti i giovani (prima ancora dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile): “Considerando, a torto, i giovani come i trasgressori per eccellenza, finiamo con il considerarli gli unici destinatari di ogni discorso su diritti, doveri e responsabilità. Visti gli esempi pubblici e privati di tanti adulti, sarebbe bene che i primi destinatari di questa riflessione fossimo proprio noi, gli adulti”. I giovani non devono essere oggetto di divieti, sermoni e sanzioni ma essere soggetti di costruzione e condivisione dei problemi, progetti e prospettive di vita con esempi ed esperienze di coerenza, coraggio, passione, speranza come quando si mandavano i propri figli a imparare un mestiere presso qualcuno, dalla sarta al muratore. Bisogna dare loro futuro, che è il futuro di tutti.

I giovani hanno bisogno di “promozione” (e non solo di prevenzione, protezione o, peggio, iperprotezione) e, a questo riguardo, Scaparro condivide il pensiero di un grande statista: “Il coraggio è la prima delle qualità umane, perché garantisce tutte le altre. Se manchiamo di coraggio nel sostenere le nostre convinzioni, queste perdono del tutto il loro valore”. Il coraggio e la coerenza fanno la differenza in mezzo a tanta indifferenza e indecenza (per non chiamarle diversamente) che sembrano oggi dilagare in tanta parte del mondo adulto (o pseudo-tale).

 

Alcune fonti

Rubrica “Il senno di prima. Appunti di Fulvio Scaparro”

Libro “Il senno di prima. Reimparare la vita dai bambini, una risorsa impensabile” (Salani Editore, 2022)

La comunità scolastica nel postdigitale

Povertà educativa è un’espressione coniata dagli esperti e si riferisce non tanto a una povertà materiale (che è anche in atto) quanto ad una mancanza di opportunità di crescita. La povertà educativa è in aumento tra le nuove generazioni altresì per la diminuzione dell’educazione orizzontale (educazione tra fratelli, cugini o pari) e dell’educazione verticale (educazione da parte di nonni, zii, vicini di casa o altri adulti di riferimento). In passato i bambini e i ragazzi potevano crescere anche in strada con giochi semplici e improvvisati e con un cordone di sicurezza da parte di tutta la comunità.

Oggi, purtroppo, esiste proprio il vuoto educativo, ovvero latita l’educazione, anche perché l’educazione comporta fatica, fiducia, forza d’animo, confronto e conforto, e gli educatori si ritrovano sempre più soli in questo compito quotidiano ed esistenziale. Fino al secolo scorso l’educazione era “impartita” in modo naturale (anche con errori grossolani) e generale (dai genitori ai passanti in strada) senza dover fare appelli alla “comunità educante” perché già lo era. I genitori e gli adulti in generale tendono a delegare o relegare l’educazione.

A tale proposito, tra le varie espressioni usate (o abusate) attualmente compare “service learning” [lett. apprendimento del servizio] che “è un approccio educativo innovativo che combina apprendimento e impegno civico, offrendo agli studenti l’opportunità di acquisire conoscenze attraverso esperienze concrete al servizio della comunità. Un metodo che favorisce lo sviluppo di competenze trasversali, rafforza il senso di responsabilità sociale e prepara i giovani ad affrontare le sfide del mondo reale con spirito critico e collaborativo” (cit.). Il primo apprendimento esperienziale, solidale (art. 2 Cost.), attivo (di cui si parla da sempre, prima ancora dell’introduzione delle espressioni in lingua inglese) lo si ha (lo si dovrebbe avere) a casa, in famiglia quando i genitori insieme si fanno aiutare dai figli nel rassettare i letti, nell’apparecchiare la tavola, nel lavare i piatti o altro, come si faceva una volta. Oggi, invece, si delega tutto alla scuola.

Il pedagogista Daniele Novara scrive: “La comunità nasce dalla scuola. Il luogo giusto dove costruire la piena cittadinanza ed evitare di alimentare vissuti di estraneità, impotenza e rancore”. Alla scuola non si devono delegare forme di educazione in base alle emergenze o alle mode, dall’educazione civica a quella gender, ma riconoscerle il ruolo educativo e collaborare con essa.

Daniele Novara afferma: “La scuola è una comunità sociale, non virtuale, e chi la frequenta ha bisogno di una continua sincronizzazione neurocerebrale e neurosensoriale per poter mettere in moto quelle componenti che danno vita a un apprendimento condiviso”. La scuola non è un edificio, un’istituzione come le altre, ma una comunità, un luogo, un ambiente di vita, una delle fondamentali formazioni sociali di cui all’art. 2 della Costituzione.

“Rispettare i principi basilari della comunità scolastica significa – secondo Novara – mantenere una delle funzioni primarie della scuola: l’apprendimento al saper vivere, al saper tirar fuori le proprie risorse, al saper stare insieme con gli altri”. La scuola non deve trasmettere il sapere, ma i saperi dell’umanità e i sapori della vita.

Novara aggiunge: “Invece di aumentare le certificazioni, sarebbe il caso di sostenere mamme e papà nelle loro funzioni educative, dando indicazioni adeguate, chiarendo dubbi e favorendo il gioco di squadra, evitando così di trasformare l’ambiente scolastico da comunità di apprendimento a luogo di terapia. Occorre sostenere gli insegnanti e le scuole che sanno lavorare sul versante educativo piuttosto che su quello diagnostico”. Lavorare e collaborare sul versante educativo: la prima forma di prevenzione e soluzione di problemi, anziché ricorrere alla medicalizzazione di ogni manifestazione dei bambini.

“[…] l’amicizia e la fratellanza sono valori fondamentali che arricchiscono la nostra vita sociale e culturale, promuovendo l’armonia e la cooperazione. La prima caratterizzata da legami profondi e duraturi, è spesso vista come una seconda famiglia. Ci offre sostegno emotivo e nella condivisione di esperienze, permette di navigare tra le sfide della vita. La fratellanza, d’altra parte, si estende per includere una comunità più ampia. Perché trascende le barriere geografiche, culturali e linguistiche, promuovendo la comprensione reciproca, il rispetto e la tolleranza” (cit.). Un diritto dei bambini che non sempre è considerato è il diritto all’amicizia, come purtroppo è emerso nel periodo della pandemia. Vari gli indici normativi nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia a supporto del diritto all’amicizia, tra cui “avere una vita individuale nella società” (Preambolo), “vita privata” (art. 16), “attività ricreative” (art. 31).

La formatrice Flavia Franco sostiene: “Legato al tema imprescindibile delle emozioni, che condiziona tutto l’apprendimento, è indispensabile la creazione di “ponti” tra docenti e genitori. Nella mia esperienza una comunicazione aperta e continua permette di individuare tempestivamente eventuali difficoltà o necessità specifiche degli studenti. In questo modo, la scuola diventa un luogo in cui la comunità educativa lavora insieme per il benessere di tutte le bambine e tutti i bambini. Creare un ambiente inclusivo non solo migliora l’esperienza di apprendimento degli studenti, ma contribuisce anche a costruire una società più aperta, più rispettosa, più giusta”. La scuola non è e non deve essere il riflesso della società (dicendo, per esempio, che “la società ormai vuole così, ci vuole così, va così”) ma la base della società (che non è un ente astratto o altro), contribuire a cambiarla, a condurla verso nuovi e migliori obiettivi. Conta molto il rapporto scuola-famiglia senza pregiudizi o recriminazioni da ambo le parti. La previsione costituzionale “La scuola è aperta a tutti” (art. 34 comma 1 Cost.) è stata lungimirante: la didattica inclusiva non è così innovativa ma è semplicemente fare scuola in maniera vera e concreta.

La didattica è sicuramente inclusiva quando si educa all’immaginazione, si educa l’immaginazione (così si costruisce il futuro inclusivo). “Educare all’immaginazione sollecitando e sviluppando la facoltà immaginativa propria del bambino aiuta lo strutturarsi di un’intelligenza creativa, lucida, fiduciosa, produttrice di nuovo, che rischia l’errore ma lo affronta con coraggio e si dispone a imparare da esso. E, soprattutto, che onora quel proprium dell’umano che, secondo lo storico e scrittore israeliano Harari, è la capacità di trasmettere informazioni su cose che non esistono, di parlare, intrattenersi lungamente su cose che gli uomini non hanno mai né visto né toccato (miti, leggende, divinità) e di farlo collettivamente, cioè creando comunità” (lo scrittore Luciano Manicardi). È necessario e doveroso, perciò, educare all’immaginazione i bambini, educare l’immaginazione dei bambini perché è dare loro fiducia, futurabilità, felicità (che è fertilità, fecondità). È “promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo, dei suoi talenti, delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutto l’arco delle sue potenzialità” (art. 29 lettera a Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Immaginare: immergersi, immedesimarsi nell’immenso implicito.

Anche l’economista Luigino Bruni mette in guardia: “L’aspetto più deleterio di questa ideologia-religione del business è il suo presentarsi come innocua, e quindi accettata senza colpo ferire da insegnanti e famiglie. C’è bisogno di una nuova attenzione da parte di tutti su che cosa sta accadendo nel mondo della scuola”. La scuola deve sottrarsi e sottrarre alla logica del mercato e del consumismo, alla mentalità manageriale o aziendale. Deve tornare a essere istituzione, comunità, formazione sociale, deve riappropriarsi delle sue funzioni costituzionali.

Uno strumento valido in tal senso è la lettura, come propone l’esperto Federico Batini: “Le storie sono un “luogo” di condivisione: con un’esposizione intensiva e condivisa all’ascolto e alla socializzazione di tante storie diverse, la classe si rafforza come comunità, con effetti sulla conoscenza reciproca, sulla fiducia, sull’apertura, ma anche sulle moltiplicazioni delle esperienze e dei punti di vista e sulla decostruzione degli stereotipi”. La lettura condivisa diventa pure forma di educazione civica, è educazione civica.

Anche lo psicologo Ezio Aceti richiama: “L’educazione, oggi, è troppo femminilizzata e poi i figli restano immaturi, diventano manipolatori” (nella lectio magistralis del 9 ottobre 2023 a Matera). L’educazione è un dovere e diritto dei genitori (art. 30 comma 1 Cost.) ma anche della famiglia allargata e della comunità (art. 5 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

L’educatore Franco Lorenzoni conclude: “I bambini non vanno colonizzati ma coltivati”. I bambini non appartengono a nessuno per cui non si dovrebbero usare gli aggettivi possessivi né ce li si dovrebbe contendere tra genitori o tra famiglia e scuola o tra insegnanti. Educare dovrebbe essere un estrarre e non attrarre, un sottrarre e non aggiungere.

La scuola di oggi tenga conto del diritto alla cultura e alla memoria: “Ogni bambino ha diritto a conoscere gli usi, i costumi e le tradizioni dei luoghi di appartenenza. A scuola si dovrebbe studiare la storia del proprio Paese, perché non c’è futuro senza passato. Tutti i bambini hanno diritto a non dimenticare. Ciò significa che nessuno può cancellare o nascondere a una società libera, nel rispetto dei diritti delle bambine, dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi, la verità storica degli sbagli commessi dall’umanità nei confronti dei loro simili. Tutti gli edifici storici, che hanno subito danni a causa del tempo o per calamità naturali, devono essere tutelati e restaurati, affinché la memoria culturale, sociale e artistica venga tramandata alle nuove generazioni” (dal documento dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza nel 30° anniversario della Convenzione Internazione sui Diritti dell’Infanzia). La cultura e la memoria fanno una comunità, fanno comunità.

Prima delle relazioni disfunzionali

Sintesi: La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri

Abstract: L’articolo pone in risalto le difficoltà delle famiglie a trovare propri equilibri, analizzando alcuni comportamenti che rischiano di compromettere questa ineludibile ricerca costante e costruttiva

“Nella società contemporanea prevale un discorso pubblico sulla famiglia che ne evidenzia le vulnerabilità, gli aspetti negativi e gli elementi di vincolo alla libertà individuale. Sono inoltre prevalenti, nei media, le “cattive notizie”, in particolare quelle relative alla famiglia. Lo storytelling di buone pratiche, di relazioni positive,di modelli funzionanti è invece meno frequente. Le stesse famiglie, anche nelle loro forme associate, faticano a generare un racconto pubblico della famiglia come “buona notizia”, e a volte rendono la propria comunicazione funzionale solo ad aspetti rivendicativi/prestazionali. Si perde così l’opportunità di raccontare la famiglia come risorsa strategica per il benessere delle persone e della società. È invece importante riconoscere la bellezza della comunione di amore che si vive in famiglia, nel dono reciproco e gratuito, nella paternità e nella maternità, nei legami familiari, superando le ideologie contrapposte e ritornando al reale. Per questo, la narrazione della bellezza e della gioia dell’amore in famiglia dovrebbe partire dal basso, dalle famiglie stesse, come testimonianza viva, affinché esse possano esprimere la propria identità e i propri interessi”. Questa l’analisi del sociologo Francesco Belletti. La famiglia ha sempre comportato fatica e sono sempre esistite famiglie patologiche, disfunzionali o multiproblematiche, ma non si deve dimenticare che la storia umana è stata scritta e costruita dalle famiglie. Basti pensare alla storia industriale italiana. La famiglia è fonte di vita e una risorsa quotidiana ed è questo che bisogna raccontare, rammentare per rammendare le trame di ogni famiglia. La narrazione è uno strumento pedagogico e psicologico per bambini e adulti e tra bambini e adulti per prevenire e lenire disfunzioni relazionali.

La psicologa Anna Bortoni spiega: “Stare in relazione non significa essere dipendenti dall’altra persona, ma portare il proprio essere, la propria individualità con qualcun altro. Anche nel legame più stretto, il nostro essere, la nostra identità non scompaiono, ma si mettono in dialogo con qualcuno che è profondamente e irriducibilmente diverso da noi”. Oggi parecchie coppie sono disfunzionali perché nascono su premesse sbagliate (per esempio, aspettative sopravvalutate) o senza alcuna base (es. mancata conoscenza dell’altro). Per poter entrare in relazione con un altro bisogna aver prima costruito una sana relazione con se stessi. Due persone legate da affetto devono conservare la propria individualità, come due alberi che si possono intrecciare con rami e radici, ma ognuno continua a crescere da sé e a portare o meno i propri frutti. Bisogna acquisire la consapevolezza (quella di cui tanto si parla, ma manca) del significato e della differenza tra dipendenza, codipendenza, interdipendenza e indipendenza.

A volte una coppia disfunzionale è tale sin dall’inizio, come se un girino si innamorasse di un’anguillina o un millepiedi di un bruco. Prima di amare l’altro bisogna amare se stessi e la vita in generale, prima di annodare la propria vita a quella dell’altro bisogna conoscere e riconoscere i propri nodi irrisolti. L’amore è sviluppo e non inviluppo della propria personalità e della propria vita, per cui non può esistere né si può giustificare un amore violento, possessivo o patologico. “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri, essendo capaci di prendere decisioni e di avere il controllo sulle diverse circostanze della vita, garantendo che la società in cui uno vive sia in grado di creare le condizioni che permettono a tutti i suoi membri di raggiungere la salute” (dalla Carta di Ottawa per la Promozione della Salute, 1986).

Edoardo e Chiara Vian, esperti di famiglie in difficoltà, specificano: “Tutti noi tendiamo a catalogare la realtà e quindi anche le persone: tu sei una brava persona, quell’altro è un poco di buono, tu sei affidabile, a quell’altro invece non affiderei mai nulla. Questo istinto tassonomico è inscritto evoluzionisticamente in noi, e ci ha permesso di distinguere e apprendere più velocemente come agire in realtà. [...] il difetto di questo istinto tassonomico, però, è che funziona molto bene con le realtà statiche e semplici (uno scorpione resta in modo permanente un animale da cui tenersi alla larga), ma può essere di ostacolo con le realtà complesse e dinamiche (un delinquente può diventare un santo, come racconta la vicenda di Jacques Fesch [criminale francese, convertitosi in carcere])”. Alcune relazioni familiari sono disfunzionali perché basate sulla “tassonomia”, per esempio il rapporto dei genitori nei confronti dei primogeniti, il rapporto tra nuore e suocere, tra cognate. Per districare questi nodi relazionali bisognerebbe innanzitutto prendere consapevolezza di questa impasse iniziale per intessere un rapporto basato sulla conoscenza o confidenza e non sugli status. La conoscenza dell’altro è fondamentale tanto che l’errore sulle qualità personali è motivo di impugnazione del matrimonio (art. 122 cod. civ.).

Edoardo e Chiara Vian continuano: “«Tagliare», cioè con tutte quelle cose della nostra vita che ci ostacolano nel divenire le persone capaci di amare che siamo chiamati a essere. Per esempio, possiamo tagliare tutto il tempo trascorso al cellulare guardando video stupidi e superficiali che non ci fanno crescere; possiamo tagliare tutte le forme di dipendenza (sostanze, alcol, pornografia, azzardo…); tagliare con altre donne/uomini che si avvicinano a noi o da cui siamo attratti; tagliare con le parole che feriscono e i comportamenti egoistici, con l’idea che sia sempre e solo responsabilità dell’altro se le cose non vanno bene; tagliare con gli atteggiamenti di chiusura che tengono lontana l’altra persona”. Molte coppie si rompono o sono disfunzionali perché sin dall’inizio non si entra nell’ottica “giusta” della coppia: fare coppia con qualcuno non è entrare nella vita dell’altro e farlo entrare nella propria con la dimensione dell’io ma del noi; non è annientarsi ma continuare a conservare la propria individualità che non è individualismo. La sfera della coppia è uno dei cerchi intersecanti con la propria personalità e formanti la propria personalità. Fare coppia è tagliarsi un tempo e uno spazio per la coppia; è fare potatura o innesto sul proprio albero (e, viceversa, sull’albero altrui) che rimane tale con una nuova ramificazione. Non a caso, in alcuni percorsi di terapia di coppia si è sottoposti al disegno dell’albero di coppia.

“La presenza di relazioni qualitativamente rilevanti è indispensabile, oltre che per la felicità individuale, anche per la salute della collettività, perché è legata a quella che il sociologo statunitense Robert Putnam chiama «il capitale sociale», la rete di relazioni e interessi alla base di una società e della sua salute” (lo studioso gesuita Giovanni Cucci). Le relazioni private non sono mai solo private perché determinano la vita e la salute di ciascuno e di tutti (art. 32 Costituzione). È banale, perciò, dire che “l’importante è che siano contenti loro, che si vogliano bene, lo si fa per i figli”, quando nella realtà ci sono delle dinamiche familiari disfunzionali perché qualche malessere (o anche peggio) a più di qualcuno lo si procura (a cominciare da se stessi, snaturandosi o scendendo a continui e vili compromessi). Basti pensare, nei casi estremi, al drammatico fenomeno degli “orfani di femminicidio”.

I bambini soldato non sono solo quelli schierati nei conflitti armati, in particolare in Africa, ma anche i tanti bambini coinvolti nelle dinamiche triangolari disfunzionali. I bambini dovrebbero essere condotti alla e nella vita e non essere alla mercé di vili condottieri di guerre che non appartengono al mondo dei bambini. Tra i vari articoli della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si tenga conto dell’art. 16 dove si sancisce il divieto di interferenze e lesioni nei confronti dei bambini.

L’economista Luigino Bruni richiama: “[...] i figli non devono sentirsi condannati a continuare “l’impero” dei genitori o nonni. Possono farlo, ma non devono. E invece i ricatti impliciti, le aspettative sono spesso dei lacci che bloccano figli e figlie, e impediscono loro di spiccare un volo libero. Il destino dei figli non deve essere determinato da quello dei padri. E, se accade, siamo dentro una forma di incesto, dove i genitori si mangiano il futuro libero dei figli”. Nelle tante (o troppe) famiglie disfunzionali di oggi ci sono tante forme di amore incestuoso da parte dei genitori, adulti egoisti, irrisolti, frustrati, che frena lo sviluppo dei figli e le cui conseguenze si manifestano dopo. Alcuni genitori (in particolare le madri) sono “castranti”, invece dovrebbero relazionarsi con i figli come “astanti”, ovvero “coloro che stanno in piedi, accanto” ricordandosi (e pre-occupandosi) che sono responsabili non solo e non tanto della crescita quanto dello sviluppo dei figli (art. 27 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Un altro elemento determinante è l’educazione alimentare. “La selettività alimentare e le condotte disfunzionali associate sono frequentemente presenti nel bambino con disturbo dello spettro autistico. Queste si manifestano come un continuum di sintomi caratterizzate da rifiuto di uno o più alimenti, avversione per specifici sapori, colori o consistenze di cibo, selezione di specifiche

categorie alimentari fino ad arrivare, nei casi più gravi, al rifiuto totale di accettare cibi per via orale. Ciò ha ripercussioni sia sul piano nutrizionale che sociale e rappresenta una fonte di forte stress e preoccupazione per la famiglia” (cit.). In realtà uno dei problemi diffusi tra i bambini in età della scuola dell’infanzia - e non solo nei bambini con neurodiversità - è la cosiddetta “alimentazione selettiva”. I genitori devono fare molta attenzione a non influenzare i figli con i loro gusti alimentari, con le loro scelte alimentari, all’educazione alimentare nella quotidianità che passa anche attraverso il preparare insieme ai figli una pietanza, apparecchiare la tavola, condividere almeno un pasto principale, non assecondarli nei loro rifiuti, non imboccarli o spezzettare loro il cibo fino all’età della scuola primaria, non farli mangiare davanti a schermi o in qualsiasi posto della casa e in qualsiasi posizione, conoscere la differenza tra alimentazione e nutrizione. I genitori devono essere informati e formati su ogni aspetto della salute dei figli e non solo preoccuparsi della crescita (art. 24 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Genitori - figli: una fitta e inestricabile trama di amore e dolore. Ogni famiglia ha un suo equilibrio e cerca un suo equilibrio ma, quando lo squilibrio è manifesto e deleterio per qualcuno o più di qualcuno, la famiglia è disfunzionale e bisogna riconoscerlo e intervenire adeguatamente.

Sull’interesse superiore del fanciullo

Abstract: L’articolo evidenzia gli errori che si commettono dietro quello che rischia di diventare uno schermo per nascondere decisioni anche dannose per i bambini

Nell’ultima parte dell’art. 2 della Dichiarazione dei diritti del bambino (1959) si leggeva: “Nella adozione delle leggi rivolte a tal fine, la considerazione determinante deve essere il superiore interesse del bambino”. Nell’art. 3 par. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (1989) si legge: “In tutte le decisioni riguardanti i fanciulli che scaturiscano da istituzioni di assistenza sociale private o pubbliche, tribunali, autorità amministrative o organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve costituire oggetto di primaria considerazione”. Da una fonte all’altra è cambiato innanzitutto il campo di azione in cui tener conto dell’interesse superiore del fanciullo. Oggi, quindi, deve tener conto dell’interesse superiore del fanciullo non solo il legislatore ma chiunque si occupi e debba decidere dei bambini, a cominciare dai genitori.

Educare un figlio non significa tirarlo su a propria immagine e somiglianza, secondo i propri gusti (anche culinari), interessi, modelli o altro, ma tirare su la nuova e, perciò, bella persona che ogni figlio è. Bisogna coinvolgere i figli e non involgerli. “Nell’assolvimento del loro compito essi [i genitori] debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo” (art. 18 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). “Interesse”, “ciò che sta in mezzo”: ciò che sta in mezzo tra i genitori, tra i genitori e il figlio, tra il figlio e il mondo circostante.

Lo psicologo Gustavo Carlo scrive: “È un cammino di crescita da fare insieme. Il genitore non deve apparire come una persona perfetta, che non sbaglia mai; al contrario, ammettere le sue imperfezioni è un punto nevralgico”. La genitorialità non è né un diritto né uno stato ma una relazione, un percorso, una metamorfosi insieme all’altro genitore e insieme al figlio e ai figli. Essere genitore è guidare ed essere guidati, per cui si possono verificare “incidenti” di percorso.

Si assiste sempre più spesso a genitori che stanno addosso ai figli fino ad asfissiarli e genitori distratti e assorbiti dal grigiore della loro vita. I genitori “debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo” tenendo conto di alcune precise indicazioni della Convenzione stessa: accudire, allevare, assicurare, assolvere il loro compito. I genitori dovrebbero essere educati e educarsi in tal senso.

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro denuncia: “[...] in nome dell’«interesse superiore del bambino» [...] sono state scritte leggi e prese decisioni che molto spesso mirano a sanare situazioni o a tutelare interessi degli adulti”. Gli adulti, in particolare i genitori, devono essere onesti innanzitutto con se stessi e non giustificare le loro scelte (per es. separazione, nuova casa, cambio città, nuova famiglia) o liberarsi dalle loro responsabilità dicendo che fanno una determinata cosa per il bene dei bambini, perché vogliono loro “troppo bene”, per il loro futuro o altro ancora.

La formatrice Silvia Iaccarino afferma: “È giusto essere disponibili per i bambini e le bambine, essere per loro delle Guide durante il percorso di sviluppo e crescita, ma non possiamo essere sempre a loro disposizione. C’è una differenza sostanziale tra essere disponibili ed essere a disposizione. Disponibili significa responsivi, sensibili, empatici; vuol dire saper guidare e orientare. Esserci come presenza salda, solida, amorevole - e necessariamente imperfetta - per bambini e bambine. Possiamo supportare, affiancare i bambini e le bambine […]. Nell’essere disponibili non c’è la sostituzione, ma l’accompagnamento”. I genitori devono essere servizievoli ma non servili, sostenere i figli ma non sostituirli, dare ragioni e non ragione ai figli, orientare i figli ma non fare da navigatori, fare sacrifici per i figli ma non sacrificarsi, dare amore ma non dire continuamente (o banalmente) “amore”, fare tutto nell’interesse dei figli ma non tutto quello che interessa ai figli. Tirare su i figli come se fossero unici al mondo (tenendo conto che molti di loro sono già unigeniti) e dimenticando che anche gli altri figli sono considerati così dai genitori è tirare su dei monarchi, delle monadi. La misura dell’amore genitoriale è data dagli articoli 147 e 315 bis cod. civ. e da altre disposizioni normative.

A proposito del procedimento di adottabilità, la psicologa Rosa Rosnati richiama: “Mi sembra di vedere nel tempo una costante oscillazione tra due estremi: da un lato la tendenza a mitizzare il legame di sangue e quindi a procrastinare le decisioni, tentando qualsiasi via per recuperare legami che magari fin dall’inizio appaiono insanabili e all’estremo opposto la propensione a recidere tali legami, a volte senza avere gli elementi sufficienti. Nel passato in particolare c’è stata la tendenza a valorizzare maggiormente l’adozione, a volte recidendo i legami un po’ bruscamente, adesso invece in questa oscillazione il piatto della bilancia pende più sul lato di salvaguardare - a volte ad oltranza - il legame di sangue, nelle prassi e nelle decisioni. Certamente i legami con i genitori devono essere tutelati, ma al tempo stesso occorre tenere presente il bisogno di cura del figlio, il bisogno di un legame con un padre e una madre, che è qualcosa di non procrastinabile. Il mito del legame di sangue a volte impedisce di prendere decisioni che si basino sul bisogno del bambino, che è il bisogno di instaurare legame di attaccamento sicuro con una figura materna e una figura paterna. Questo bisogno non è procrastinabile, perché i bambini crescono: in questo lavoro c’è da tener presente sempre un ragionamento sul tempo del bambino, che non è il tempo dell’adulto” (in un’intervista del 17 luglio 2019 della giornalista Sara De Carli su Vita.it, dopo “i fatti di Bibbiano”). Nell’art. 3 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia non si parla solo di “interesse superiore del fanciullo” (par. 1), ma anche del “suo benessere” (par. 2) e di consistenza e qualificazione del personale e di un adeguato controllo (par. 3), criteri di cui tener conto in ogni settore.

Un altro settore in cui “mediare” è la scuola, come evidenzia la psicologa Anna Oliviero Ferraris: “Non è impossibile trovare un minimo comune denominatore tra famiglie, o almeno, su alcuni aspetti fondamentali, proprio a partire dalla scuola primaria. Nella maggior parte dei casi, infatti, le famiglie vorrebbero che i loro figli trovassero a scuola un ambiente competente e accogliente, in grado di fornire loro tutte le conoscenze e abilità di cui bambini e bambine hanno bisogno per crescere fisicamente, intellettualmente e socialmente; un ambiente che non crei loro ansie e insicurezze, ma che li stimoli, li appassioni e favorisca la formazione di relazioni supportanti. Un bambino, che si trova bene in classe, si affeziona anche alla sua maestra e ai suoi compagni, impara a comunicare, a fare amicizia, a conoscere gli altri e, conoscendo gli altri, a conoscere anche sé stesso”. Genitori e insegnanti devono mettere da parte i loro eventuali conflitti e tutti gli adultismi e tener conto dell’interesse superiore del fanciullo (art. 3 Convenzione) e del principio di comunità (art. 5).

La consulente pedagogica Annalia Galardini aggiunge: “Nei servizi per l’infanzia sottolineare il valore dell’alleanza con le famiglie è divenuto, con il crescere dell’investimento sulla loro identità educativa, un aspetto sempre più importante. La ricerca in campo evolutivo ci conferma che la qualità dell’esperienza educativa e degli apprendimenti, sia a livello prescolare che scolare, cresce quando si realizzano rapporti di collaborazione con le famiglie. Ciò significa che nei servizi per l’infanzia non è possibile mettere al centro il bambino senza includere la sua famiglia, perché l’educazione che produce benefici è quella che guarda ai bambini nel loro mondo di relazioni”. L’alleanza scuola-famiglia dovrebbe ispirarsi all’art. 3 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia “in toto”.

Scuola, famiglia, associazioni sportive, imprese: occorrono competenza, chiarezza, coerenza, coinvolgimento, comunicazione, condivisione, costruzione e così si arriva alla collaborazione nell’interesse sempre e solo del bambino e del ragazzo, quell’interesse che in inglese è opportunamente denominato “best interest of the child”.

“Ogni bambino ha diritto a sentirsi unico, senza mai sentirsi dire che deve essere come tutti gli altri bambini. Ha il diritto di guardare il mondo salendo sulle spalle dei genitori e non dal basso tenuto per mano” (dal Documento dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza nel 30° anniversario della Convenzione di New York).