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Ai figli

Sintesi: È necessario e doveroso dire no ai figli ma è necessario che gli adulti imparino a dire no (dapprima a se stessi)

Abstract: L’atteggiamento tenuto dai genitori nei confronti dei figli non sempre li aiuta a crescere, l’articolo dà conto degli errori più diffusi e offre loro spunti per acquisire una maggiore consapevolezza di come si è con i propri figli

La famiglia è passata dall’essere normativa all’essere affettiva, ma dando solo e indistintamente affetto diventa anaffettiva e anarchica perché si annulla ogni ruolo, ogni confine, ogni differenza e, poi, i figli si perdono nel labirinto della vita e i genitori rischiano pure di trovarseli contro, come spesso avviene. La saggista e storica Lucetta Scaraffia scrive a tale proposito: “La fine dell’alleanza tra insegnanti e genitori va infatti di pari passo con la totale rinuncia delle famiglie a educare i figli, cioè ad assolvere a quel compito, spesso ingrato e sgradevole, di insegnare ai figli la buona educazione, i buoni comportamenti, l’impegno nello studio”.

Scaraffia chiosa: “I ragazzi che senza alcuna fatica hanno avuto tutto quello che desideravano, ogni oggetto che la pubblicità ha loro suggerito di chiedere, che non hanno mai obbedito a una richiesta che non gli garbava, che non hanno rinunciato a niente per ottenere un bene maggiore, sono destinati a una vita di frustrazioni, e queste possono divenire intollerabili”. Prima della riforma del diritto di famiglia del 1975 esistevano gli istituti di correzione per i figli (art. 319 codice civile previgente). Oggi molti genitori non correggono più i figli ma concedono tutto, anzi anticipano tutto senza nemmeno far esprimere ai figli i loro desideri e bisogni “castrando” la loro libertà di espressione (art. 13 Convenzione).

Lo studioso gesuita Giovanni Cucci riporta: “Nel 2013 […], il comico statunitense Luois C. K. (nome d’arte di Louis Székely) spiegò perché non riteneva opportuno comprare un telefonino per le sue due bambine. Tra le varie motivazioni, indicava la necessità di prendere contatto con la tristezza, ascoltandola, senza cercare di fuggirla con espedienti elettronici. Tale valutazione nacque da un’esperienza personale che lo segnò profondamente: «Ho cominciato a sentire quella tristezza e ho afferrato il cellulare, ma poi mi sono detto: “Sai una cosa? Non farlo. Sii triste e basta. Apri la strada alla tristezza e lascia che ti investa come un camion”. Così ho accostato [l’auto] e ho pianto come un disperato […]. Poi però ho cominciato ad avere una sensazione di contentezza, perché, quando ti abbandoni alla tristezza, il tuo corpo produce come degli anticorpi che si precipitano verso i sentimenti tristi. Eppure, solo perché non vogliamo quella prima sensazione di tristezza, cerchiamo di mandarla via con i nostri telefoni. In questo modo non ci sentiamo mai completamente felici né completamente tristi. Ci sembra soltanto di essere soddisfatti dei nostri prodotti tecnologici. E poi… poi si muore. Ecco, questo è il motivo per cui non intendo comprare un cellulare alle mie figlie». Ai figli non bisogna dare tutti i mezzi ma equipaggiarli delle competenze giuste affinché siano capaci di trovare i mezzi necessari, di volta in volta, per andare avanti. “Il bambino possiede in lui delle importanti risorse. Esse si rivelano se egli può dialogare, essere ascoltato con affetto e rispetto, essere difeso. […] Il bambino ha bisogno di essere protetto, nutrito, curato e istruito. Il suo benessere psicologico è altresì essenziale” (dalla Charte du BICE, Paris 2007).

“Impariamo a dire dei “no”. Cerchiamo di non assecondare ogni richiesta o desiderio nell’immediato. Proviamo a motivare il nostro rifiuto in modo tranquillo, spiegando ai bambini che non sempre possono ottenere tutto subito e che è importante comprendere anche le necessità delle persone a loro vicine” (un’équipe di esperti). È necessario e doveroso dire no ai figli ma è necessario che gli adulti imparino a dire no (dapprima a se stessi) e se e quando vanno spiegati o motivati perché i figli devono abituarsi a ricevere no dagli altri, dalla scuola, dalla vita, quei no che non sempre sono seguiti da spiegazioni o motivazioni. Come i divieti del codice stradale vanno rispettati perché dietro c’è una logica che può sfuggire. Nell’art. 5 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge che bisogna impartire al fanciullo, in modo consono alle sue capacità evolutive, l’orientamento e i consigli necessari all’esercizio dei diritti che gli riconosce la Convenzione, diritti cui corrispondono pure dei doveri, perché questo comporta l’essere cittadini.

Ai figli non si deve dire sempre sì, spianare la strada, difenderli a spada tratta, pianificare gli impegni, accompagnarli da una parte all’altra e altro ancora. Non sono oggetti ma soggetti, non vanno “oggettivizzati” ma “soggettivizzati”, altrimenti significa tarparne le capacità e determinarne l’immaturità. I figli non sono fiori recisi da mettere in un portafiori per porlo dove si vuole e farne quello che si vuole. Non sono piante da appartamento da tenere sul davanzale della finestra per abbellirlo. Né piante da cortile per arricchire il proprio giardino. Sono piuttosto da considerare “rose di Gerico”, soggette a spostarsi, ad aprirsi e chiudersi, pronte ad ogni adattamento e “simbolo di resurrezione, serenità, prosperità e buona sorte” (quello che dovrebbero rappresentare i figli). “Considerato che occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Essere genitori è dare la vita e la propria vita, morire a se stessi per far vivere i figli. I genitori non devono né designare né disegnare la vita dei figli, ma semplicemente consegnarla loro: questa una loro primaria responsabilità perché ne risponderanno per sempre ai figli. Lo psichiatra Paolo Crepet afferma: “Genitori ricchi possono valere due generazioni, genitori geniali invece possono valere quattro generazioni” (in un webinar del 15 ottobre 2021). I genitori non devono dare ma dotare, non devono fornire ma tornire, non devono trasferire ma trasmettere. L’eredità da lasciare ai figli non deve essere il patrimonio ma l’educazione: non cose e case ma il vero senso delle cose e delle case, non cartevalori ma valori, non azioni e obbligazioni ma relazioni ed emozioni. Non a caso l’obiettivo ultimo dell’educazione come enucleata nell’art. 29 della Convenzione è inculcare nel fanciullo il rispetto per l’ambiente naturale, ovvero per tutto e tutti.

Tra le buone pratiche genitoriali vi è il dialogo stando seduti intorno allo stesso tavolo, dove anziché chiedere ai figli “Com’è andata oggi a scuola?” o “Cosa ti sta succedendo?”sarebbe meglio chiedere “Come ti sei sentito oggi a scuola?” o “Cosa stai provando?” (diritto all’ascolto, art. 12 della Convenzione). Si tutela così anche il diritto alla salute dei figli. La formatrice Silvia Iaccarino spiega: “Molti genitori, per esempio, spesso al momento della cena fanno un gioco per cui a turno ognuno racconta una cosa piacevole ed una spiacevole della giornata, partendo proprio da se stessi. Così, parlando prima di sé, da un lato si dà il buon esempio e dall’altro si suscita l’attenzione e l’interesse del bambino, il quale a sua volta inizierà ad aprire i suoi cassetti della memoria ed a raccontare di sé. A questo punto sarà importante che gli adulti accolgano i suoi racconti ascoltando attivamente e dando valore e considerazione alla sua narrazione. In questo modo, tra l’altro, oltre a favorire la comunicazione reciproca, il bambino “guadagnerà” in autostima, sentendosi appunto ascoltato e considerato, elementi che concorrono a produrre un aumentato senso del proprio valore”.

I genitori sono tali rispetto ai figli per cui il loro compito è generare la vita e non generalizzare (come quando parlano banalmente di amore o chiamano tutti indistintamente “amore”), gemmare e non geminare (ovvero non è semplicemente riprodursi). I genitori devono tener conto delle differenze tra loro e i figli, delle differenze tra figli dello stesso nucleo familiare e ancor di più tra quelli nati in famiglie diverse. Non basta decantare l’amore, ma non dovrebbero mai scindere la consapevolezza dalla responsabilità.

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro sottolinea: “La salvaguardia della rete di relazioni del bambino o, comunque, della continuità con il mondo dei suoi affetti non è qualcosa in più rispetto alla cura: è già buon accoglimento, rientra appieno nel diritto alla salute che è fisica, psichica e relazionale”. Non esistono il diritto ad avere un figlio né altri diritti verso i bambini ma il contrario, il diritto di ogni bambino ad avere i genitori, relazioni con i nonni, con altre figure di riferimento e che siano sane relazioni ed è questa la sempre nuova cultura dell’infanzia introdotta e promossa dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Quando si dice di voler bene ai figli o che si tiene ai diritti dei bambini si tenga conto autenticamente di ciò e che non sono vane affermazioni ma è dare voce e vita ai bambini.

Scaparro aggiunge: “[...] diventare viandanti fertili del mondo, cercatori e produttori di senso” (nel libro “Il senno di prima”). Una locuzione che si addice ai genitori che non sono depositari di alcun segreto della vita e non hanno alcuna bacchetta magica per prevenire o risolvere i problemi ma trasmettono la vita e insieme ai figli seguono e danno senso alla vita.

“La nostalgia che ho serbato nel cuore in tutti questi anni è un senso ipertrofizzato dell’infanzia perduta” (lo scrittore russo Vladimir V. Nabokov). Perdere l’infanzia è perdere il meglio della vita, far perdere l’infanzia ai figli è il peggio che si possa fare nella vita, come succede nella violenza domestica, nelle separazioni conflittuali, nella genitorializzazione dei figli e tante altre situazioni.

I figli non devono portare la felicità ai genitori né i genitori devono portare a tutti i costi la felicità ai figli. Bisogna, invece, circondarsi e circondarli di un’atmosfera di felicità, amore e comprensione (come si legge nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Genitori: non solo dare alla luce i figli ma dare luce ai figli.

Il diritto dei bambini alla casa

Abstract: L’articolo mette in luce la fitta trama dei valori relazionali propri dell’ambiente domestico che si configura come vero diritto per i bambini

La casa non è un immobile ma Calore, Ascolto, Sostegno, Amore (e altro ancora). Quello per cui si lavora, si lotta, si vive. La casa ha bisogno di fondamenta e di pilastri. “Casa” è il significato etimologico di “famiglia”, perché secondo i più deriva dall’osco “faama”, l’insieme dei famuli, i servitori di casa. Casa e famiglia dovrebbero tornare a identificarsi in quell’unità familiare di cui all’art. 29 comma 2 della Costituzione. Altresì nel greco antico il termine “òikos” significava casa, famiglia e comunità, struttura fondante della società.

La consulente familiare Emma Ciccarelli spiega: “L’abitare è infatti relazione. Una relazione che ci interpella fin dall’inizio della vita: lasciamo un ambiente caldo e sicuro che abbiamo abitato per nove mesi, il corpo della madre, per cominciare ad abitare il mondo. Come esseri umani abbiamo conosciuto fin dal primo battito l’esperienza di uno spazio tutto nostro e gesti di accoglienza e cura. Sappiamo tutti quanto ha contato per ciascuno di noi l’essere stati accolti in una casa e in una famiglia: le ferite di chi non ha vissuto positivamente questa esperienza sono lì per ricordarcelo. Sono importanti, in famiglia, i gesti della cura quotidiana che serviranno poi ai figli, in termini di sicurezza e autonomia, a varcare la soglia di casa capaci di abitare altre realtà” (in un intervento di maggio 2024). I bambini hanno diritto ad abitare, che è più del semplice diritto alla casa. Il verbo “abitare” deriva dal latino “habere”, “avere, tenere”, per cui è qualcosa che si porta dentro, su di sé, come gli abiti e le abitudini, come tutto quello che si vive, si respira, si consolida quotidianamente nella casa di famiglia. La casa diviene cassa di risonanza di quello che vi si vive o non vi si vive. Così soprattutto per i bambini e in particolare la casa dei nonni o di altre figure adulte significative dove i bambini si sentono a casa e in cui ritrovano quei riti di cui hanno bisogno. Casa per i bambini è abitazione: habitat, “habit” (in inglese), abitudini, abiti, abiti mentali. Aspetti spesso trascurati dai genitori nelle loro scelte.

“Per vivere abbiamo bisogno di pochissime cose: un po’ di pane, un po’ di affetto e un luogo dove sentirci a casa. La casa è dove qualcuno ti attende; dove se uno ti guarda, ti guarda davvero; dove se qualcuno ti tocca, ti tocca davvero; dove qualcuno ti bacia e ti senti bello; dove si impara a vedere gli altri con amore, come li vede Dio. […] Il miracolo si addice alla casa; e, viceversa, la casa è grembo di miracoli, quotidiani ma non minori, con il suo calore accogliente, le mura che abbracciano, la fiducia reciproca. La casa è il santuario dell’atto umano del credere, esperienza prima della fede-fiducia che prepara ogni fede religiosa. Nella casa la fiducia e l’amore celebrano la loro festa. Per questo ogni persona ne è illuminata, ogni tristezza ammansita” (il teologo Ermes Ronchi). La casa ha una dimensione immateriale, spirituale, rituale e di questo devono essere consapevoli i genitori nello stabilire la residenza abituale del minore (art. 316 comma 1 cod. civ.) e

nelle vicende di separazione e divorzio (art. 337 sexies cod. civ.). La casa è luogo di cura, di salute, come in più punti ribadito nella Carta di Ottawa per la Promozione della Salute (1986): “Le condizioni e le risorse fondamentali per la salute sono la pace, l’abitazione, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l’equità. Il miglioramento dei livelli di salute deve essere saldamente basato su questi prerequisiti fondamentali”; “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri, essendo capaci di prendere decisioni e di avere il controllo sulle diverse circostanze della vita”. Condizioni non sempre garantite nella vita dei bambini, a cominciare dall’Italia, come emerge da vari atti tra cui il Rapporto CRC 2023 “I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia”. In casa, purtroppo, alcuni bambini e ragazzi sono vittime di violenza domestica o assistita, vivono isolati nella propria camera, sviluppano dipendenze o disturbi della personalità, non ricevono adeguate cure, vivono in condizioni malsane, non hanno propri spazi o esistono altre situazioni deprivate. Situazioni descritte nelle fiabe classiche in cui era quasi sempre presente una casa con tutta la sua simbologia, dalla casa della nonna di Cappuccetto Rosso alla casa dell’Orco in Pollicino.

A proposito di vita domestica il pedagogista Daniele Novara richiama: “Si vuole fare il contrario di quello che ci è stato fatto, a prescindere dalla giustezza della causa. Succede così che il bagno di casa diventi una specie di campo nudisti dove, a qualsiasi età, si entra e si esce con naturalezza. Succede che siano i figli a segnalare il disagio di queste condivisioni corporee, evidenziando un bisogno di privacy che già i genitori avrebbero dovuto riconoscere come legittimo”. Il fondamento primo del diritto dei bambini all’abitazione è l’art. 16 par. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’infanzia, ove si parla di “sua vita privata”, per cui è necessario che il bambino sin dalla tenera età percepisca e viva questa sfera privata. Così come “casa” è dove il fanciullo “deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), dove “conoscere i propri genitori ed essere da essi accudito” (art. 7 par. 1 Convenzione). Quanto ribadito nell’art. 1 L. 184/1983 “Diritto del minore ad una famiglia”: “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia”. E successivamente nell’art. 315 bis comma 2 cod. civ.: “Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti”. Quella “base sicura” di cui ha parlato per primo lo studioso John Bowlby: “La caratteristica più importante dell’essere genitori è fornire una base sicura da cui un bambino o un adolescente possa partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato”. Relazioni, protezione, sicurezza, che si costituiscono nella casa di famiglia da cui crescendo non si vede l’ora di andar via ma cui si fa

ritorno, soprattutto in caso di problemi, come alcuni figli adulti fanno in caso di separazione dal loro coniuge.

In linea con precedenti decisioni, la Prima Sezione Civile della Cassazione con l’ordinanza n. 16691 del 17 giugno 2024 ha precisato che l’assegnazione della casa familiare si estende anche ai mobili ed arredi, essendo indissolubilmente legata alla collocazione dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti. Secondo la Suprema Corte, infatti, i figli hanno diritto di conservare “l’habitat domestico” nel quale sono nati o cresciuti, composto delle mura e degli arredi. È quanto rimarcato nella Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori, in particolare nell’art. 6: “I figli hanno il diritto che le scelte più importanti su residenza, educazione, istruzione e salute continuino ad essere prese da entrambi i genitori di comune accordo, nel rispetto della continuità delle loro abitudini. I figli hanno il diritto che eventuali cambiamenti tengano conto delle loro esigenze affettive e relazionali”.

L’economista Luigino Bruni presenta un’altra prospettiva di “casa”: “Se non si impara a casa, e nei primi anni di vita, il valore della gratuità, cioè il valore infinito del lavoro ben fatto, da adulti saremo mossi solo dal denaro e non saremo buoni lavoratori. Ed è davvero un programma di vita troppo triste, perché mancherà la dimensione più importante del vivere: la libertà, inclusa la libertà dagli incentivi, per poter fare quelle scelte che sono giuste e buone”. Tutto comincia a casa, dall’educazione finanziaria a quella civica, la scuola interviene e può intervenire solo in parte. Ecco il senso di educazione o rieducazione dei figli insito nella permanenza in casa a carico del minorenne, tra i “provvedimenti in materia di libertà personale”, ai sensi dell’art. 21 del D.P.R. 22 settembre 1988 n. 488 “Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”.

In passato la casa era luogo di relazioni intergenerazionali e parentali, dimensione sempre più rara, cui in alcune città si cerca di rimediare con i cosiddetti condomini sociali o solidali. “«A Casa di Zia Jessy» [a Torino dal 2008] è un condominio solidale in cui vivono anziani, donne sole con figli e giovani in uscita da percorsi di riabilitazione sociale. Si tratta di un’esperienza di housing sociale centrata sull’inter-generazionalità, ovvero sulla combinazione e lo scambio di servizi fra persone di diverse fasce d’età. Grazie alla cooperazione fra generazioni, esperienze di questo tipo mirano ad attivare processi di reciprocità, condivisione e scambio. Tutto questo si basa su un’idea di welfare generativo: chi è coinvolto non è un semplice fruitore di servizi ma è un soggetto attivo le cui capacità e competenze devono essere valorizzate affinché possano generare servizi a partire dallo scambio intergenerazionale di conoscenze, competenze e piccoli lavori” (da un’intervista del 23 aprile 2018 a cura della ricercatrice Chiara Agostini). Un esempio concreto di applicazione dell’art. 2 della Costituzione.

Il sociologo Francesco Belletti osserva: “Ogni casa (e ogni città, in fondo) si costruisce con un limite, con un perimetro che delimita il dentro e il fuori. In analogia, c’è un dentro e un fuori anche della famiglia, qualunque sia il suo modello. Sarebbe illusorio immaginare una casa (o una famiglia) senza confini. Tuttavia questi confini possono essere aperti o chiusi, permeabili o impermeabili, possono avere varchi, porte e finestre più o meno aperti. Le persone – e tutte le società, il mondo intero – sono oggi sfidate a rivedere i propri confini, per far sì che questi possano e sappiano essere sia un limes (confine) definito, non incerto né ambiguo, sia un limen (porta), una soglia che si può attraversare, attraverso cui ci si incontra, da cui si può uscire verso gli altri e in cui gli altri possono entrare” (in un articolo del 5 dicembre 2024). La casa così descritta è metafora anche della persona (e pure dell’educazione): apertura o chiusura, libertà e limiti, rispetto di sé e dell’altro. In passato esistevano i rapporti di vicinato, c’era la chiave inserita nella serratura della porta per essere aperta dall’esterno, si dava da mangiare anche ai figli degli altri facendoli sentire a casa. Oggi, invece, per problemi di sicurezza pubblica, per individualismo e altro, le famiglie tendono a incistarsi e a considerare i loro figli migliori degli altri, addossano le responsabilità agli altri, sono sempre più fragili e lacerate. Urge che la famiglia ritrovi il suo significato etimologico e esistenziale secondo i principi costituzionali, innanzitutto quello di solidarietà. Non si deve indurre i bambini e i ragazzi all’isolamento sociale incutendo timore verso l’alterità e l’alienità.

La scrittrice Mariapia Bonanate sottolinea: “La casa che abitiamo, ma anche quella che sogniamo. La casa come spazio fisico, ma anche luogo dei nostri pensieri più segreti, dei ricordi, delle stagioni della vita. La casa degli altri con le loro storie che filtrano attraverso le persiane chiuse, le voci che arrivano, i rumori, gli odori che i muri traspirano. La casa come microcosmo di un’umanità nei cui destini individuali e collettivi s’incrociano dimensioni interiori e comportamenti universali”.

Famiglia: mettere su casa, essere casa, essere a casa.

Lo stato coniugale

Sintesi: I due coniugi devono compiere un “lavoro di coppia” per far funzionare il matrimonio

Abstract: Il contributo riesamina i diritti e doveri relativi allo stato coniugale, spesso trascurati nella quotidianità e causa di crisi nella coppia

La rondine e il rondone sono simili, da lontano o agli occhi degli inesperti sembrano uguali, possono pure incrociarsi in volo o su qualche ramo ma restano differenti o, meglio, diversi (per esempio la rondine è guardinga, il rondone è capace di dormire anche in volo). Così alcune coppie, possono pur durare anni ma non significa che siano fatti l’uno per l’altra sulla base di affinità dell’essere e comunione di vita. Anzi, significa che uno dei due reprime la propria natura e ne soffre intimamente con sofferenza anche di qualcun altro che gli vuole bene veramente. L’amore: dapprima il piacere di trovarsi e scoprirsi, poi la forza di ritrovarsi e riscoprirsi. Coppia duratura: impegno nella quotidianità e nonostante l’imprevedibilità degli eventi, per godere della bellezza del risultato, come nel lavoro edile. Gli articoli 143, 144 e 147 cod. civ., letti durante il rito del matrimonio, sono i pilastri su cui costruire la coppia coniugale prima e quella genitoriale poi.

Tra le più interessanti innovazioni normative introdotte dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 vi sono le locuzioni “Dal matrimonio deriva” del 2° comma dell’art. 143 e l’incipit del 3° comma “Entrambi i coniugi sono tenuti”. “Entrambi” (che è differente da “ambedue”) significa letteralmente “fra tutti e due” e, quindi, indica una relazione; “tenere” (da cui deriva “tenace”) avrebbe la stessa radice di “stendere”, da cui nasce l’idea di “avvicinare la mano, trarre a sé”: quel tenere che genera l’obbligo di mantenere e “manutere” la relazione.

Edoardo e Chiara Vian, esperti di famiglie in difficoltà, spiegano: “Le coppie che vivono bene insieme, infatti, non sono uguali (che noia!), ma sono composte da persone che sono state capaci di leggere le dissomiglianze dell’altro come un appello alla propria missione a crescere nell’amore. L’altro non è una risposta al mio bisogno di appagamento, ma una domanda a me stesso, una chiamata a uscire dal mio egocentrismo infantile per divenire un essere umano adulto, capace di donare. Ciò non significa sopportare passivamente il limite dell’altro. Anzi. Amare a volte vuol dire pungolare, spronare, accompagnare l’altro a uscire dal suo guscio protettivo (il pulcino deve rompere il guscio per vivere)”. Vita coniugale non è accomodarsi, adattarsi all’altro, ma avvicinarsi e armonizzarsi all’altro (come si fa nel rapporto sessuale). Non è scendere a compromessi ma elevarsi a obiettivi comuni. Non è sopportare l’altro, ma supportare, sostenere, sollevare l’altro, anche in eventuali cadute, malattie, fallimenti. Non è mitizzare o minimizzare l’altro, ma misurarsi con l’altro (ricordando che l’etimo di “mensa” è misurare, per cui è importante anche condividere i pasti).

Edoardo e Chiara Vian affermano: “Se nella relazione di coppia coltiviamo un atteggiamento attento al 50%, sarà un disastro, saremo dei ragionieri che dovranno mettere tutto in partita doppia: se io ho preparato ieri la cena, stasera tocca a te; se domenica scorsa abbiamo fatto quello che volevi tu, questa domenica decido io. Avremo una relazione da contabili, di una tristezza assordante”. Nella coppia si è coniugi, compagni, conviventi, dove conta il con, fare con, insieme, innanzitutto il rispetto reciproco, ricordando la bella e significativa etimologia di “rispetto”, volgere lo sguardo indietro. Per la coppia coniugale e per quella genitoriale non c’è una ricetta magica ma ingredienti essenziali, quali l’equilibrio (che non è compromesso) e rispetto. Equilibrio e rispetto sono quei valori che ispirano l’educazione, come si ricava dall’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, per cui bisogna prima maturarli in sé per poterli provare verso gli altri e trasmetterli alle nuove generazioni.

Edoardo e Chiara Vian aggiungono: “[...] accarezzate, abbracciate, baciate, stringete, coccolate, amate vostra moglie, vostro marito o chi vi sta a fianco, avete solo questa vita per farlo. Abbiamo questa fantastica opportunità, diventare amore attraverso la nostra fisicità, non sprechiamola. Il nostro corpo può amare divinamente”. L’amore di coppia non è solo intesa sessuale, è espressione della propria personalità, della propria libertà, è salute personale e di coppia. Come si legge nella Carta di Ottawa per la Promozione della Salute (1986): “La salute è creata e vissuta dalle persone all'interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri”.

Edoardo e Chiara Vian continuano: “Che «lavoro» fa una persona sposata? Quello di amare il proprio coniuge”. L’obbligo reciproco di collaborazione previsto nell’art. 143 cod. civ. significa che i due coniugi devono compiere un “lavoro di coppia” per far funzionare il matrimonio e la famiglia che ne consegue, come in un passo a due di danza dove ognuno fa la sua parte.

Ancora secondo i coniugi Vian: “All’estremo opposto del principio del piacere […] non vi è il principio del dovere (si deve fare così, non si deve fare così), ma il principio del desiderio. Secondo il principio del desiderio, le mie scelte sono orientate a ciò che mi permette di crescere umanamente. In questo senso, quindi, sarò mosso dai valori che mi abitano e che mi fanno da stella polare per orientarmi verso quel desiderio profondo di vita che vive in me. Mentre il seguire tutte le regole aderendo completamente a esse (cioè il principio del dovere), rispetto allo stesso movente di fondo del principio del piacere (che […] porta al non seguirne nessuna assecondando solo la propria pancia): entrambe le modalità, infatti, evitano di entrare in contatto con quella sofferenza che è necessaria per partorire ciascuno di noi alla vita nuova”. Gli obblighi coniugali reciproci ex art. 143 cod. civ. (in particolare quello di fedeltà) si devono rispettare né per dovere né fin quando dura il proprio piacere, ma perché si desidera rispettarli nella consapevolezza dell’alterità della dimensione della coppia.

Gli esperti Vian: “[…] nelle conflittualità familiari la questione centrale non è la punizione, di sé o dell’altro, ma la misericordia; non è quella di coltivare le proprie offese, ma il riconciliarsi con l’altro e ricominciare, con amore, un’altra volta. Amare è rigenerare infinite volte la nostra relazione ferita”. Una forma di esplicazione dell’assistenza morale e materiale (art. 143 comma 2 cod. civ.) è il “perdono coniugale” (ancor di più nel matrimonio concordatario) che è pure un aspetto del progetto di vita familiare (art. 144 cod. civ.) concordato, cioè “con lo stesso cuore”.

Spesso sposarsi equivale a spossarsi. Per esempio non tutte le coppie sono tali, ma sono persone sole che entrano dalla stessa porta e che, varcata la soglia, continuano a essere sole. La costruzione e la durata della coppia si basano anche sulla consapevolezza: affidamento e affinamento reciproci, tra affiatamento e affaticamento. È questo il senso del “co-”, dal latino “cum”, “insieme, con” che forma le parole “consenso”, “coniugi”, “collaborazione”, “coabitazione”, “contribuire”, “concordare”, usate negli artt. 143 e ss. del codice civile.

Il bioeticista Paolo Marino Cattorini aggiunge: “E non è la sola convivenza fisica che fa l’unione «sponsale», cioè gravida di una promessa (spondére in latino significa promettere). L’anima gemella non esiste a priori. Si diventa una sola carne, decidendo giorno per giorno di lasciarsi prendere dalla storia che ci ha affascinato e che pretende di essere raccontata ancora”. La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha posto come quarto obbligo reciproco coniugale quello della coabitazione (che nella normativa previgente era il primo) non perché sia ultimo, ma perché il coabitare deve significare abitare “insieme” all’altro, abitare nell’altro.

La scrittrice Mariapia Veladiano approfondisce: “Il corpo è coinvolto nella nostra fede come nell’amore, nell’amicizia, in ogni sentimento e in ogni movimento della nostra vita affettiva e spirituale. [...] Non può che essere così: si commuove il corpo, prima del nostro spirito”. Così dovrebbe essere la comunione tra coniugi: quella comunione che si rivendica e di cui ci si accorge quando manca, per cui è causa di divorzio (art. 1 L. 898/1970, cosiddetta “legge sul divorzio”).

Essere coniugi, “uniti dallo stesso giogo”, vivere da consorti, “uniti dalla stessa sorte”: “finché morte non vi separi” è possibile se insieme si va avanti in ogni prova possibile.

Coniugio: non tanto aiutarsi quanto collaborare nelle faccende di casa e nelle vicende della vita, condividere emozioni e situazioni, anche se vissute separatamente. Quello che conta in una coppia è quello che procura il male minore e che dura di più di giorno in giorno.

A proposito di solidarietà o assistenza tra coniugi, bisogna ricordare che anche dopo il divorzio l’assegno divorzile ha una funzione solidaristica o assistenziale e che può mutare o cessare solo per giustificati motivi. Tra le tante pronunce in materia, la Cassazione civile ha stabilito, per esempio (sez. I, ordinanza 14 maggio 2024, n. 13192), che l’assegno divorzile può essere revocato all’ex-coniuge che ha ricevuto una cospicua eredità. Il numero crescente di divorzi e i relativi costi (anche personali e non solo economici) deve far maturare la consapevolezza di cosa significhi e comporti il matrimonio.

Amarsi: perdere l’io (nel senso di ego e non di identità), prendere il tu, rendere in noi. Così l’amore di coppia, l’amore genitoriale, l’amore familiare fonte di qualsiasi altro amore! 

Gioco e salute, gioco è salute

Abstract: Lo sviluppo psicofisico dei bambini passa attraverso il gioco

 

Tra i tanti esperti, la pedagogista Sonia Iozzelli ha puntualizzato: “Il bambino non ha solo bisogni o non ha tanti bisogni ma ha soprattutto diritti, diritti inalienabili e diritti ben dritti” (in un webinar del 22-11-2021). Fondamentalmente i diritti dei bambini sono una decina, dal diritto alla vita al diritto al gioco, fonte di vita per i bambini.

Il gioco è fondamentale nella vita del bambino e nella vita in generale, basti pensare anche alle varie espressioni che si usano nel linguaggio quotidiano come “mettersi in gioco” o “giocarsi il tutto per tutto”. Il filosofo Gadamer scriveva: “Il gioco raggiunge il proprio scopo solo se il giocatore si immerge totalmente in esso” (nel saggio “Verità e metodo”). Il soggetto del gioco, dunque, non è il giocatore ma il gioco stesso, che prende vita attraverso i giocatori. Ad esempio giocare a calcio non significa soltanto tirare una palla, ma anche correrle dietro, “essere giocati” dalle situazioni che si verificano in campo. Perché la vita stessa è gioco. È importante conoscere tutte le dinamiche del gioco per consentire al bambino di provare la libertà nel gioco ed esercitare il suo diritto al gioco (art. 31 Convezione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Si ricordi la filastrocca de “Il diritto al gioco” di Bruno Tognolini, che comincia con “Fammi giocare solo per gioco”.

 

Anche il formatore Ruggiero Russo ribadisce: “Il gioco è un diritto. È una delle funzioni centrali nello sviluppo cognitivo, sociale, emotivo, creativo e motorio dei bambini, tutti fattori che, sommati tra loro, costruiscono la personalità e l’individualità dei bambini e dei giovani: le fondamenta per essere adulti. Gioco e Gioia hanno la stessa radice: essere felice è ciò che ognuno ricerca sin dalla nascita. Il gioco è piacevole (Jocus: esser lieto, scherzo), e a star bene. Per tale motivo per noi insegnanti, formatori, genitori è un’importante occasione educativa da non perdere”. I bambini hanno “bis”ogno di giocare e non di giocattoli o giochi, hanno “bis”ogno di spazi liberi per giocare e non di ludoteche o altri spazi strutturati, hanno “bis”ogno di giocare da bambini, per bambini e con bambini e non di attività organizzate e adultizzate.

 

La psicologa Paola Molina precisa: “Nel primo anno di vita, consideriamo «gioco» l’attività autonoma che il bebè esprime soprattutto attraverso la motricità e la manipolazione di oggetti. Un’attività fondamentale per lo sviluppo psicofisico, perché permette di apprendere in una situazione di sicurezza, a condizione che il piccolo possa sperimentare senza vincoli o suggerimenti esterni. Ruolo dell’adulto è sostenere tale attività”. Fondamentale quello che farà nel primo anno di vita perché potrebbe essere compromesso il suo sviluppo successivo, in particolare quello motorio come si sta riscontrando ultimamente.

 

Sono in aumento i problemi delle capacità motorie e la pigrizia nei bambini anche a causa dello stile di vita cui sono indotti o costretti. Bisogna sottoporre cautamente i bambini a schemi e schermi: la vita non è metaverso, ma poesia di verso in verso (innanzitutto nel senso etimologico di “poesia”, inventare, comporre, produrre, e di “verso”, voltare). Bisogna ripartire con il semplice gioco della palla (con tutti i suoi significati simbolici e psicologici), che sta alla base di molte discipline sportive e al centro di tante attività ludiche differenti. Che sia lanciata, calciata, spostata, passata, rotolata, questo attrezzo attira fin da subito i bambini e sollecita la loro voglia di movimento e divertimento. I bambini hanno diritto al movimento, fonte di emozioni e benessere. Si tenga a mente che la parola “emozione” deriva dal verbo latino “movere”, “muovere”. I bambini vanno lasciati giocare da soli e non continuamente in giochi organizzati o con l’animatore o con qualche istruttore.

Il gioco in età dello sviluppo soddisfa il bisogno di piacere di figli, alunni e giovani atleti, ma soprattutto li aiuta a strutturare la personalità e sviluppare competenze, anche attraverso l’esperienza di piccole frustrazioni e la sperimentazione del limite. La relazione con adulti consapevoli di questi aspetti ha un valore preventivo nei confronti di future condotte pericolose per la crescita della persona” (cit.). Il gioco dei e per i bambini non né è un semplice gioco né semplice divertimento né tantomeno un passatempo: è diritto al gioco, libertà di gioco, salute in gioco, regole del gioco, gioco di vita, vita in gioco. È gioia di giorno in giorno sulla giostra della vita. È nella natura stessa dell’infanzia, nello ius naturale dell’infanzia. Gli adulti, genitori e educatori, dovrebbero osservare e preservare di più i bambini che giocano e intervenire e interferire di meno.

 

Il gioco dei bambini è una dimensione speciale (per questo bisogna specificare “dei bambini”) perché, tra i tanti aspetti, nel gioco si costruisce la persona e la personalità di quelli che saranno gli adulti di domani. Genitori e educatori devono, perciò, fare molta attenzione a giochi e giocattoli proposti, ai loro interventi, alla loro presenza o meno e ad altre sfumature non irrilevanti.

 

Il gioco è fondamentale perché suscita, stimola, sviluppa: G come gioia, gestione delle emozioni e delle situazioni; I come intelligenze, intenzionalità, immagini e immaginazione, inibizioni superate, incontro; O come originalità, osservazione, orientamento, organizzazione, opportunità; C come creatività, costruzione, capacità, corpo e corporeità, condivisione, conoscenza, confidenza, consapevolezza, conduzione di un’esperienza; O come obiettivi, ordine mentale, organizzazione, inoltre il bambino sperimenta che la sua onnipotenza ha dei limiti e prova invece l’onnipotenza della fantasia, del pensiero. Non a caso il gioco è un diritto riconosciuto nell’art. 31 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, non a chiusura degli altri diritti ma perché ingloba tutti gli altri.

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro spiega: “Togliete il gioco all’infanzia e avrete tolto l’infanzia al mondo. Ma anche gli adulti dovrebbero tenere a mente che non c’è saggezza senza la sapienza del gioco. […] Bambini e ragazzi hanno bisogno di adulti che provino piacere nel trasmettere la loro sapienza del gioco. Una sapienza che è stata costruita nel tempo attraverso un’infinità di ore trascorse in lieta compagnia tra grandi e piccoli”. Il gioco non è giocattoli o cose ma cultura e storia del gioco, relazioni intragenerazionali e intergenerazionali, situazioni, sviluppo (contrario di inviluppo), salute. Il gioco, perciò, merita rispetto e tutela.

Lo psicologo e psicomotricista Giuseppe Nicolodi rimarca: “Non giochi intelligenti ma modo intelligente di stare vicino al bambino perché il bambino sa già giocare da sé. Ha bisogno dell’adulto che sappia fare l’adulto” (in un webinar del 6 novembre 2020). Si ribadisce che i bambini hanno il bisogno vitale e il diritto essenziale al gioco e non a giocattoli (ancor meno quelli digitali) o a giochi predefiniti (intelligenti, tecnologici, didattici, montessoriani...) dagli adulti. Essere adulti è essere vicini ai bambini ma al tempo stesso delineare i confini oltre i quali non possono andare per il loro “ben-essere”.

 

Sui giocattoli il pedagogista Daniele Novara sostiene: “Un monitor non consente di vivere vere esperienze sensoriali. Si possono scegliere i tradizionali giochi di società, la palla, la dama o gli scacchi, i birilli... che, necessitando di più partecipanti, favoriscono la condivisione con fratelli e sorelle o con amici invitati a casa. La scelta è infinita. Assolutamente consigliati i giocattoli che stimolano la creatività, in primis i mattoncini per le costruzioni”. Per i bambini giocare non deve significare giocare liberamente e fare quello che più aggrada, averla sempre vinta, distruggere i giocattoli per vederci dentro, ma sperimentare la libertà, le regole del gioco, le emozioni. Il gioco è vita, vitalità, esercizio di vita, per il bambino è sostanza del diritto innato alla vita (art. 6 Convenzione).

La consulente educativa Silvia Iaccarino riferisce: “Recentemente [gennaio 2019], anche la AAP (American Academy of Pediatrics), massima istituzione a livello mondiale in merito alla salute ed al benessere globale dei bambini, ha espresso in modo netto e chiaro alcune linee guida rispetto alla scelta di giochi e giocattoli per bambini, sconsigliando vivamente quelli tecnologici e gli schermi ed evidenziando l’importanza di oggetti che sostengano la relazione tra pari; tra adulti e bambini; il movimento; la fantasia e l’immaginazione; il gioco di ruolo e di finzione”. I bambini hanno bisogno di toccare, manipolare, smontare, rompere, sperimentare e sperimentarsi.

I bambini devono essere resi soggetti dei loro diritti ogni giorno nella quotidianità e non solo nella giornata internazionale in cui sono coinvolti in attività “adulto-centrate” o “docente-centrate” da fotografare e mostrare nei social o altre sedi. I bambini devono poter giocare liberamente e spontaneamente con meno giochi strutturati o guidati o giochi didattici (la cui denominazione è già opinabile) o altro proposto (o addirittura imposto) e condotto da genitori e insegnanti.

 

Il sano gioco da bambini ha anche una valenza preventiva di disturbi e dipendenze che si manifestano dall’età adolescenziale in poi, tra cui le dipendenze da gioco. Il gioco d’azzardo con conseguente ludopatia, oltre ad avere seri effetti neurologici, è contrario ad alcuni principi fondamentali della Costituzione, perché provoca inibizione dello svolgimento della personalità (art. 2 Cost.), limitazione del pieno sviluppo della persona umana (art. 3 comma 2 Cost.), impedimento della capacità lavorativa e di concorrere al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 comma 2 Cost.), minaccia all’unità familiare (art. 29 comma 2 Cost.), alla tutela della salute (art. 32 Cost.), alla tutela del risparmio (art. 47 Cost.).

La personalità del fanciullo è sacra […]. Perché possa svolgere le sue attività di gioco e di lavoro, il fanciullo ha bisogno di convenienti rapporti umani; nonché di spazi, di tempi, di mezzi, di materiali e strumenti idonei alla sua età ed adatti alle sue condizioni fisiche e psichiche” (dagli artt. 1 e 2 della Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro, Roma 1967). Bambini: realmente e metaforicamente, non da far esibire o performare su un palco per il saggio di fine anno o in foto sui social per mostrare agli altri quanto siano belli, bravi e buoni, ma accompagnarli al parco per osservarli mentre giocano tra pari imparando le regole della vita.

Il diritto dei bambini alla musica

“La musica riveste un ruolo cruciale soprattutto nei contesti educativi, agendo come potente strumento di sviluppo cognitivo, emotivo e sociale. Emotivamente, aiuta a riconoscere e gestire le emozioni, migliorando l’autostima e offrendo un canale per affrontare lo stress. Socialmente, promuove competenze di collaborazione e comunicazione, insegnando il valore del lavoro di squadra e del rispetto reciproco. Infatti la musica agisce come ponte culturale, favorendo l’inclusione e la comprensione interculturale. Infine, stimola la creatività e l’espressione personale, offrendo un’opportunità per esplorare e sviluppare il talento artistico” (cit.). L’importanza della musica è universalmente riconosciuta, ancor di più per lo sviluppo dei bambini. Non a caso nella locuzione “pieno e armonioso sviluppo della personalità del fanciullo” (Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) si usa un termine musicale derivato da “armonia”.

“Negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia la musica svolge un ruolo determinante, ma spesso mancano le competenze specifiche degli insegnanti e il materiale didattico specifico. Una buona programmazione musicale è il primo passo per riuscire a far musica in modo piacevole e produttivo” (cit.). La musica a scuola, sin con bambini piccolissimi, fa: Muovere, Unire, Sorridere, Intraprendere, Conoscere, Attivare. Come rimarcato altresì nella normativa sul cosiddetto “sistema integrato 0-6”.

Gli esperti Emiliano Toso e Tea Baldini sottolineano la polivalenza della musica sin dal concepimento: “La gravidanza è un periodo unico e delicato nella vita di una donna, caratterizzato da notevoli cambiamenti fisici ed emotivi. La musica può essere d’aiuto poiché fornisce un ambiente tranquillo e rilassante, aiutando a ridurre lo stress e l’ansia che possono essere associati a questo momento. Numerosi studi dimostrano che la musica può avere un effetto positivo anche sullo sviluppo fetale. Il battito cardiaco e i ritmi respiratori del feto possono sincronizzarsi con la musica, un processo che può favorire il loro sviluppo. Alcuni studi suggeriscono anche che l’esposizione alla musica prima della nascita può migliorare le capacità di apprendimento e di memoria del bambino. Inoltre, la musica in gravidanza offre un’opportunità unica per rafforzare il legame tra madre e figlio. Quindi, può essere visto non solo come un beneficio per lo sviluppo del bambino, ma anche come uno strumento per migliorare la salute emotiva e mentale della madre”. “Fare musica” per i bambini è importante anche per la costruzione della propria “identità musicale o sonora” e non (o non solo) per imparare a suonare uno strumento.

Le esperte musicali Alessia Cominato e Cristina De Cillia spiegano: “L’identità sonora rappresenta in qualche modo la nostra storia, il nostro bagaglio musicale fatto di tutte quelle musiche, quei suoni, quei rumori, quei movimenti che ci accompagnano fin da quando eravamo nella pancia della nostra mamma. […] L’idea di andare alla ricerca della propria identità sonora rappresenta prima di tutto un tentativo di ascolto della propria persona e di espressione di ciò che risiede in noi. […] Prendersi cura del proprio “sé musicale” significa essere pronti a scoprire ciò che di musicale c’è in noi, prendersi il tempo per comprendere le nostre emozioni in relazione alla musica, ascoltare i nostri ritmi e creare uno spazio musicale su misura per noi”. Educare alla musica e, quindi, sviluppare l’identità sonora di un bambino lo abitua, tra l’altro, ad ascoltare e ascoltarsi e al rispetto. Si favorisce l’esercizio di vari diritti dei bambini di cui nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in primis l’ascolto.

L’ascolto è un’arte, una scuola di vita, in cui ognuno impara ad ascoltare innanzitutto se stesso per, poi, ascoltare l’altro. È quella scuola in cui la famiglia impara a farsi famiglia, l’uno in ascolto dell’altro. Così in famiglia si mettono in atto gli articoli 12 (ascolto), 13 (libertà di espressione) e 14 (libertà di pensiero e coscienza) della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. “L’ascolto - inteso come capacità di uscire da se stessi per accogliere la persona dell’altro nella sua totalità - è un’abilità umana preziosa, sempre più necessaria nella moderna socialità così come nella quotidianità delle nostre aule scolastiche. La capacità di ascolto di sé e dell’altro, che si sviluppa poi nella capacità di attenzione, approfondimento, riflessione, richiede percorsi educativi specifici in cui la musica rappresenta un tassello fondamentale, in quanto fortemente attrattiva, giocosa, divertente, emozionante” (cit.). La voce, il principale mezzo di comunicazione umana, il personale strumento musicale: sin dal grembo i futuri genitori fanno di tutto per far sentire la propria voce al nascituro e stanno in silenzio per percepire ogni movimento o vibrazione che provenga dal feto. Dopo, però, si trascura di dare voce ai bambini e di fare silenzio con e per i bambini. E uno dei loro segnali di disagio per farsi ascoltare è il mutismo selettivo.

“Fare musica con le mamme in dolce attesa, i neonati, i bambini, gli adolescenti e gli adulti, permettere loro di esprimersi attraverso essa, significa formare “persone musicali” capaci di ascoltare, condividere ed emozionarsi. Con la musica la persona vive su di sé la scansione del tempo, il sapersi muovere all’interno di uno spazio condiviso, il rispetto di se stesso, del proprio ruolo e di quello degli altri. In questo senso la musica ci permette di contemplare le mille sfaccettature della persona” (cit.). “Fare musica” con i bambini è dare loro del tempo e darsi tempo con i bambini, dare contenuto al tempo (da quello psicologico a quello cronologico). Bisogna sì rivolgersi a esperti ma, in particolare a scuola, non bisogna fare di ogni proposta pedagogica un progetto didattico.

La musica realizza molti principi costituzionali, dalla democrazia (art. 1 Cost.) alla pace (art. 11) e, soprattutto, lo sviluppo della cultura e la tutela del patrimonio storico e artistico (art. 9). Anche la nuova disposizione dell’art. 9, “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, può essere applicata alla musica giacché esistono paesaggi sonori, la musicalità di tutta la natura e la sonorità di ogni essere e di ogni oggetto.

E si può dire che la musica è un diritto dei bambini, perché favorisce l’atmosfera di felicità, amore e comprensione (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), stimola lo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale del fanciullo (art. 27 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e contribuisce al diritto al riposo, allo svago, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età ed a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica (art. 31 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Fondamenti al diritto alla musica si trovano altresì nel decalogo dei diritti naturali di Gianfranco Zavalloni e nella Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (Bologna 2011).

Nelle “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione” (2012) nel campo di esperienza “Immagini, suoni, colori” relativo alla scuola dell’infanzia si legge: “La musica è un’esperienza universale che si manifesta in modi e generi diversi, tutti di pari dignità, carica di emozioni e ricca di tradizioni culturali. Il bambino, interagendo con il paesaggio sonoro, sviluppa le proprie capacità cognitive e relazionali, impara a percepire, ascoltare, ricercare e discriminare i suoni all’interno di contesti di apprendimento significativi. Esplora le proprie possibilità sonoro-espressive e simbolico-rappresentative, accrescendo la fiducia nelle proprie potenzialità. L’ascolto delle produzioni sonore personali lo apre al piacere di fare musica e alla condivisione di repertori appartenenti a vari generi musicali”.

Nei successivi paragrafi delle Indicazioni nazionali, nella disciplina di musica per la scuola primaria si legge: “La musica, componente fondamentale e universale dell’esperienza umana, offre uno spazio simbolico e relazionale propizio all’attivazione di processi di cooperazione e socializzazione, all’acquisizione di strumenti di conoscenza, alla valorizzazione della creatività e della partecipazione, allo sviluppo del senso di appartenenza a una comunità, nonché all’interazione fra culture diverse”.

Sicuramente la musica garantisce il benessere e la salute dei bambini. “La tecnologia è uno strumento da gestire in modo appropriato senza abusi: sono diversi, infatti, gli effetti che gli psichiatri stanno osservando negli ultimi anni e in particolare tra i giovani causati da un eccessivo e smodato utilizzo del digitale. Uno tra essi è il disturbo del sonno, che ha ripercussioni sulla memoria e sulla capacità di concentrarsi; tra gli effetti estremi c’è l’isolamento sociale” (comunicato Progetto Itaca, gennaio 2024). Anziché mettere in mano ai figli precocemente e inadeguatamente dispositivi digitali, i genitori dovrebbero dare loro strumenti musicali o materiale di recupero o di riciclo o altro da manipolare per stimolare l’uso delle mani e suscitare emozioni.

L’educatore (e anche il genitore) deve agire come l’arrangiatore musicale: organizzare e valorizzare il tema musicale composto da altri. L’educazione è mediazione come si ricava anche dalla Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura.

La vita è un concerto che comporta prove e riprove, accordature del proprio strumento e accordature con gli altri strumenti. Resilienza: armeggiare dentro di sé, arpeggiare con le proprie corde. “Il bambino possiede in lui importanti risorse. Esse si rivelano se egli può dialogare, essere ascoltato con affetto e rispetto, essere difeso. […] questa “resilienza” che permette al bambino di ricostruirsi” (dalla Carta del Bureau International Catholique de l’Enfance, Parigi, giugno 2007).

Fantasia, speranza, esultanza, esuberanza: i bambini hanno gli strumenti per superare e far superare ogni momento brutto e agli adulti tocca semplicemente guardarli e ascoltarli e i bambini stessi sono degli strumenti musicali.

Volgere lo sguardo e tendere l’orecchio come richiede la vita e ogni forma di vita.