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Diritto alla bambinità

Abstract: L’articolo vuole essere un monito per gli adulti evidenziando alcuni errori tra i più comuni che si fanno nel relazionarsi con i bambini 

Ricordare, per ridare voce, per rifare luce: Giuseppe Di Matteo, vittima di mafia. Rapito a quasi 13 anni, sequestrato per 25 mesi, 779 giorni, tenuto in pochi metri quadrati, spostato in sette nascondigli, strangolato da tre killer, sciolto nell’acido a quasi 15 anni. Ha vissuto gli ultimi giorni peggio di Anna Frank, perché non ha potuto né scrivere né esprimersi, peggio dei condannati alle camere a gas, perché non ha potuto sentire la voce e la presenza di nessuno se non dei suoi carcerieri. Poi si parla di diritti fondamentali dei bambini, diritti umani dei detenuti, diritto internazionale di guerra… “Se questo è un uomo”, scriveva Primo Levi, scampato ai lager, se questo è un uomo, c’è da chiedersi ancora, ogni giorno e oltre, fin quando sarà commesso un aberrante crimine atroce, soprattutto a danno dei bambini. Oltre a crimini efferati e alle guerre che causano la morte dei bambini, la società attuale è sempre più free child o no kids, ovvero manifesta la “sindrome antibambini” oppure vìola i bambini o impedisce loro di essere tali.

Il grande pedagogista polacco Janus Korczak scriveva: “Purtroppo non conosciamo i bambini, o meglio: li conosciamo sulla base di pregiudizi”. Si ignorano l’infanzia, la cultura dell’infanzia e la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, nonostante nell’art. 42 della Convenzione si preveda di farla conoscere diffusamente e nell’art. 45 si disponga di promuoverne l’effettiva applicazione. Il primo diritto dei bambini è quello di essere bambini e rimanere bambini quando ne hanno l’età per divenire “buoni” e “veri” adulti.

Il saggista Goffredo Fofi afferma: “La pedagogia non si è forse mai portata così male come oggi. Ripartire dall’essenziale, dalle osservazioni immediate e dalle necessità evidenti come fece Korczak, sarebbe oggi indispensabile a chiunque ami davvero l’infanzia e la rispetti”. “Osservare”, letteralmente “guardare diligentemente, tanto con gli occhi fisici che con quelli della mente”, e “necessità”, etimologicamente “raggiungere, conseguire, adoperarsi per raggiungere un fine”: spesso tra gli aspetti più trascurati nei confronti dei bambini, mentre ci si preoccupa maggiormente di come vestirli e di cosa far mangiare loro e, se mai, pure in modo inidoneo e secondo i gusti unilaterali degli adulti, innanzitutto delle mamme.

Anche Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, sostiene: “Se sappiamo osservare il bambino e dialogare con lui, ci rendiamo conto di come i primi sei anni costituiscano un laboratorio di scoperte e invenzioni. Spia privilegiata di questo intenso lavoro cerebrale è l’acquisizione del linguaggio, in cui la logica cede il passo alla fantasia e alla creatività”. Il primo e principale modo dei genitori e educatori di mettersi al cospetto dei bambini è dunque osservare (come fanno gli ornitologi dai capanni o dalle torrette o come hanno fatto i primi cultori dell’infanzia, Jean Piaget e

Maria Montessori) e dialogare; in tal modo si rende anche possibile l’applicazione degli articoli 12 e 13 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

La prima cosa che si osserva in un bambino è il sorriso. Anzi, sin dalla nascita si cerca di cogliere e si ammira il sorriso del neonato e ci si stupisce come se fosse sempre un evento nuovo. “Non hanno neanche due mesi e già ti sorridono. Forse imitano gli adulti, forse è l’innato bisogno di compiacere, forse è la rivincita della natura sulla seriosità o forse qualcos’altro che ignoriamo. Fatto sta che il sorriso da subito fa parte integrante di una comunicazione vitale (così come le lacrime, d’altra parte, e i bambini riescono a piangere e a ridere insieme, mischiando senza vergogna sensazioni ed espressioni di piacere e di frustrazione). […] lo vediamo tutti noi, come nessun bambino rinunci a sorridere appena ne sia capace; e in quel sorridere, puro e un po’ enigmatico, si intravede una promessa, un segreto, una sfida. Il bambino ti sorride finché lo guardi negli occhi in una relazione diretta e attenta; un sorriso che ti costringe a fermarti, a non allontanartene bruscamente, ma quasi chiedendo permesso e scusa. E ti sorprende sempre” (fra Danilo Salezze, esperto di problematiche sociali). “Egli [il bambino] ha diritto alla spensieratezza, alla risata, al gioco, e anche a un avvenire professionale” (dalla Charte du BICE, Parigi 2007). Dalla serenità dipende il presente che, a sua volta, diviene solida base del futuro. “Sereno” etimologicamente significa “splendente” per cui si riferisce al cielo limpido e, poi, allo stato d’animo tranquillo, pertanto si addice a quanto scritto nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare “atmosfera di felicità, amore e comprensione” (Preambolo), “benessere” e “protezione” (art. 3) (il significato etimologico di “protezione” è “coprire davanti”, quel gesto di copertura che richiama la volta celeste). Ai bambini di oggi manca spesso la possibilità di alzare lo sguardo al cielo e sognare o il loro cielo non è affatto sereno ma tenebroso o con bagliori di bombe.

“La nostra cultura ha bisogno di sognare. La nostra società, stretta nelle grinfie del mostro poliedrico chiamato «denaro», non sa più sognare: ha bisogno di immaginazione escatologica, di alimentare la propria speranza collettiva” (lo studioso gesuita Bert Daelemans). Si ha bisogno di sognare, sospirare, soffiare: come un bambino che soffia sulla torta del suo compleanno per spegnere le candeline esprimendo il suo più grande desiderio con gli occhi chiusi e credendo fermamente a quello che fa in quel momento e in quel gesto. I bambini hanno il diritto di sognare e di crederci e gli adulti, se proprio non possono contribuire, almeno non devono intervenire o interferire per demolire o deturpare.

I bambini sono sempre più privati del loro tempo, del loro ritmo, della loro spensieratezza. Per esempio alcuni genitori li iscrivono anticipatamente alla scuola dell’infanzia o alla scuola primaria non tenendo conto del carico degli orari scolastici e delle attività didattiche proposte da dover sopportare quando lo sviluppo psicofisico del bambino non è ancora adeguato (si pensi alla difficoltà nell’impugnare matite colorate o altri strumenti). Sull’anticipo scolastico l’insegnante

Paola Spotorno consiglia: “È un’opportunità e una facoltà che hanno i genitori, ma che deve essere esercitata nel rispetto dei reali bisogni del bambino e non di una supposta perdita di tempo nell’aspettare ancora un anno. Non c’è mai perdita di tempo se si rispetta la naturale crescita dei bambini, che non sempre coincide con la loro intelligenza o capacità di apprendimento, né tanto meno con lo sviluppo fisico. Bisogna prima di tutto valutare la loro capacità di concentrazione e il loro reale sviluppo emotivo”. “Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, a prescinderne dalle frontiere, sia verbalmente che per iscritto o a mezzo stampa o in forma artistica o mediante qualsiasi altro mezzo scelto dal fanciullo” (art. 13 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Affinché il bambino si esprima e sia libero di esprimersi è necessario che abbia il giusto tempo di acquisire questa capacità e i relativi mezzi.

“Esprimere” significa letteralmente “fare uscire premendo” e dentro di sé si hanno emozioni, stati d’animo, sentimenti che i bambini stanno imparando a provare e a incanalare, ma si tende a dare più importanza alle emozioni che ai sentimenti. Il filosofo gesuita Gaetano Piccolo chiarisce: “Le emozioni non interessano, per se stesse, nel discernimento, perché evidenziano la nostra passività rispetto alla realtà. Nel provare sentimenti, invece, siamo coinvolti come soggetti attivi, che di fatto stanno già operando mediante interpretazioni. Il sentimento, in altre parole, è la chiave di accesso per scoprire cosa stiamo pensando, come ci stiamo ponendo di fronte alla realtà. Per riprendere Spinoza, sono i sentimenti che permettono alla persona di conoscersi. […] Il conflitto, certo, rimane, ma si palesa come conflitto fra sentimenti, cioè tra interpretazioni della realtà. […] Se dunque nel sentimento sperimento chi posso essere, scegliere tra sentimenti in conflitto vuol dire scegliere chi voglio essere, decidere di me. Ecco perché non ci può essere riconoscimento della propria identità senza passare attraverso la consapevolezza dei propri sentimenti”. I bambini hanno il diritto di essere educati ai sentimenti e nei sentimenti, hanno il diritto di vivere i loro sentimenti: è quanto si ricava anche dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare dal Preambolo e dall’art. 8 in cui si parla espressamente di “identità” e “relazioni familiari”.

Lo scrittore Marco Missiroli annota: “C’è qualcosa che conta più della bellezza, della sensualità, del potere. È la purezza. Nessun uomo, e nessuna donna, riuscirebbe a desistere davanti alla possibilità di far proprio un candore”. Descrizione che rispecchia l’infanzia. I bambini sono letterari, non letterati: dicono quello che pensano e non pensano (= pesano) quello dicono. Altro che immaturi i bambini: essi manifestano già consapevolezza dei sentimenti, chiarezza nel linguaggio, comunicazione diretta, esprimono e mantengono segreti. I bambini si esprimono sempre, ma dall’altra parte non sempre trovano adulti pronti, preparati e premurosi. L’educazione sentimentale deve, pertanto, incanalare e salvaguardare questo patrimonio.

Purtroppo, l’ambiente circostante i bambini è sempre più “adultiforme”, sempre più bambini sono figli unici, nipoti unici, neonati unici in una società che si rivela sempre più adultocentrica e senescente. Ogni bambino è di per sé unico, ma bisogna fare in modo che non diventi “tiranno con la sindrome dell’imperatore”.

I genitori e gli altri adulti di riferimento dicono continuamente sì ai figli o ai bambini in generale, anche perché fisicamente comporta meno fatica ed energia chinare il capo, come quando ci si addormenta (segnale e metafora dell’addormentamento delle coscienze e delle responsabilità). Qualsiasi regola è accettata e rispettata se, anziché essere imposta, è condivisa, spiegata e incanalata verso un comune obiettivo: esperienza che si può e si deve fare con i bambini, cittadini del presente e del futuro. “Occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Ai bambini bisogna non solo trasmettere le regole ma dire anche la verità in certe situazioni, ovvero i bambini hanno bisogno di autenticità (il cui etimo è “autore”, come per la parola “autorità”). Lo psicoterapeuta Alberto Pellai sottolinea: “La verità, anche la più difficile, per i bambini è sopportabile. Quando è stata detta, permette di dare voce a tutte le emozioni che essa scatena. Si può piangere per la tristezza, urlare per la rabbia, addolorarsi per la fatica. Ma almeno le cose possono essere dette. Così non rimangono intrappolate nella paura o nella bugia di chi sa qualcosa che c’è ma che non può essere comunicato. La verità fa bene. Anche quando fa male. A questo dovremmo pensare quando in gioco c’è il dolore e la malattia. E quando in questo gioco doloroso, purtroppo, sono coinvolti i bambini”. Nel summenzionato art. 13 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, si stabilisce che il fanciullo ha diritto di ricevere informazioni e idee di ogni genere affinché possa avere la libertà di espressione. Il “vero” è ciò che è conforme alla realtà ed è importante che il bambino sappia il vero in qualsiasi campo, a maggior ragione personale, in modo tale che sviluppi ed eserciti la sua libertà di scelta (art. 14 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’infanzia).

Ai bambini bisogna sì esporre la verità ma soprattutto saperla comunicare. La scrittrice Donatella Di Pietrantonio fa dire alla bambina per due volte abbandonata, prima dalla famiglia di nascita e poi da quella cui era stata affidata: “– Io voglio vivere a casa mia, con voi. Se ho sbagliato qualcosa dimmelo, e non lo farò più. Non lasciarmi qui. – Mi dispiace, ma non ti possiamo più tenere, te l’abbiamo già spiegato. Adesso per favore smettila con i capricci ed esci, – ha concluso fissando il niente davanti a sé. Sotto la barba di alcuni giorni i muscoli della mascella gli pulsavano come certe volte che stava per arrabbiarsi” (in “L’arminuta”). Nelle separazioni delle coppie e nelle forme abbandoniche dei figli si innesca un meccanismo perverso: da una parte l’autocolpevolizzazione dei

bambini e, dall’altra, adulti sempre più egocentrati sui loro problemi, sulla conflittualità con l’altro/a e sulla ricostruzione della loro vita.

Si ricordi che la “personalità del fanciullo è sacra” (art. 1 Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro, Roma 1967) e che “ogni bambino ci dice a suo modo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama così alla nostra responsabilità” (dalla Charte du BICE, Parigi 2007).

I bambini hanno chiaro tutto, gli adulti forse no: i bambini hanno diritto alla bambinità, alla loro bambinità, dal primo momento, in ogni momento.

Salvaguardare la natura bambina

Sintesi: I bambini, prima ancora di essere il futuro, sono il presente

Abstract: L’articolo propone considerazioni sulla realtà autentica dei bambini invitando gli adulti a cambiare il loro sguardo, a volte distratto o proprio assente

Dinanzi a un bambino nei primi mesi di vita si sorride, si ammira e ci si sorprende per qualsiasi cosa faccia. Perché, poi, si perde quest’atteggiamento di meraviglia e di gratitudine nei confronti della vita?

Secondo la filosofa Isabella Guanzini non tanto la bellezza salverà il mondo quanto la tenerezza, “la rivoluzione del potere gentile” salverà questa “società della stanchezza”. “Tenerezza” viene dal latino tenerum, che significa “di poca durezza, che acconsente al tatto”, dunque “sensibile”: tenerezza come quella che hanno e suscitano, per natura, i bambini. Qualcuno parla di diritto alla tenerezza, in particolare di diritto del bambino alla tenerezza. “Ogni bambino ci dice a modo suo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama altresì alla nostra responsabilità. La sua nascita rappresenta un’esperienza nuova per l’umanità che gli deve ciò che ha di meglio” (dalla Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance, Paris 2007).

La vera misura dello sviluppo di un paese è l’efficacia con cui provvede ai propri bambini: alla loro salute e incolumità, alla loro sicurezza materiale, alla loro istruzione e socializzazione, al loro senso di essere amati, stimati e integrati nelle famiglie e nelle società in cui sono nati” (da un report dell’UNICEF del 2007). I bambini hanno diritto alla vita, né di più né di meno: la vita contiene tutto quello di cui hanno bisogno.

Un noto proverbio africano dice: “Quando gli elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata”. “Gli Stati parti si impegnano a rispettare ed a garantire il rispetto delle norme di diritto internazionale umanitario applicabili nei casi di conflitto armato e la cui tutela si estenda ai fanciulli. Gli Stati parti devono adottare ogni possibile misura per garantire che nessuna persona in età inferiore ai 15 anni prenda direttamente parte alle ostilità” (art. 38 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Anche se parlare di diritto internazionale umanitario in materia di diritti dei bambini è un controsenso. Sarebbe meglio che non ci fosse alcun conflitto, in particolare quelli familiari, i più deleteri per i bambini, ancor di più dei conflitti armati, i quali fanno notizia e attirano l’attenzione dell’opinione pubblica, anche se in maniera superficiale, mentre quelli familiari si consumano, il più delle volte, nel silenzio e nella solitudine.

“I bambini di Napoli non erano innocenti, ma colpevoli tutti di nascita e di luogo. Ho conosciuto in Bosnia una ferocia simile, i cecchini miravano ai bambini per segno di bravura su bersagli difficili. Eppure li ho visti giocare sulle macerie dei bombardamenti: giocare alla guerra, giocare alla fame, giocare alla morte” (da “Infanzia” di Erri De Luca). I bambini di oggi non rischiano solo le bombe, ma anche le scelte sempre più egoistiche dei genitori che sono deleterie quanto le bombe. I veri super-eroi sono i bambini che continuano ad avere fiducia nella vita e a lottare per lei (come quando danno i calci nella pancia della mamma).

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro richiama: “Se non vogliamo accettare passivamente che i bambini perdano la vita per mano dei violenti ma non siamo capaci di scendere a fianco delle famiglie e delle comunità colpite, le nostre convinzioni non valgono nulla, e la violenza avrà ottenuto il risultato voluto: terrorizzarci e isolarci gli uni dagli altri”. Non si facciano “scomparire” (in ogni senso) i bambini e la loro infanzia: i bambini, prima ancora di essere il futuro, sono il presente, la base della vita. E non si parli dei bambini con sigle o etichette (come, per esempio, si fa scuola dove si parla di DSA, BES, DVA, …) perché anche questo deturpa la loro infanzia, l’unicità dell’infanzia come l’unicità della vita.

Pablo Neruda scriveva: “Potranno tagliare tutti i fiori ma non fermeranno mai la primavera”. Potranno ferire o far perire molti bambini ma non cancelleranno l’infanzia, “primavera, prato e primizia della vita”. I bambini sono fiori, frutti e, al tempo stesso, impollinatori della vita.

Un bambino: “Io metto la mia mano sulla tua: quando tu muovi la tua mano si muove anche la mia e così io ti do una mano”! La migliore spiegazione di quello che dovrebbe essere il mantenimento in famiglia. Le spiegazioni dei bambini sono le migliori perché dettate solo dalle emozioni. L’infanzia non finisce quando diventa bagaglio cui attingere per rivestirsi ogni giorno di nuove e belle cose, perché l’infanzia è spontaneità e autenticità.

Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, spiega: “Molto spesso l’empatia e la socialità, qualità innate nei bambini, scompaiono con l’avanzare dell’età, sconfitte dall’indifferenza o dal pregiudizio. Dovremmo impegnarci tutti affinché i bambini, «morali per natura», non diventino «amorali per cultura»”. I figli vanno educati, né adulati né adulterati. I figli devono essere totalizzanti (come accudimento nei primi anni di vita e come responsabilità per tutta la vita) ma non divenire totalitari.

Il sociologo Franco Cassano affermava: “Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada”. Per assaporare della vita la bellezza e la dolcezza ci vuole lentezza. L’infanzia è la lentezza della vita e se ne abbia più rispetto!

“Se fai una cosa per me ma la fai senza di me, la fai contro di me” (Gandhi): è quello che fanno alcuni adulti che impediscono ai bambini di essere tali in base all’età e di crescere. Come in un film in cui un bambino di “48 mesi” (per non dire che ha già quattro anni) è ancora allattato al seno materno. La madre, per giustificarsi, dice: “A lui piace così tanto e io non sono capace di dire di no”. La realtà sta superando la fantasia filmica.

Bisogna mostrare ai bambini la realtà portandola al loro livello (e non il contrario) ma senza edulcorarla troppo, altrimenti si rischia di farli diventare “futuri diabetici”. Si parla tanto di resilienza ma i primi a non essere resilienti sono gli adulti. Si dice sempre che i bambini sono cambiati, sono rovinati dagli adulti (quindi si potrebbe parlare di “inquinamento dell’infanzia”) e così via. Ebbene non sono cambiati: basta dare loro tempo e anche materiale povero e sono uguali in ogni latitudine e in ogni longitudine. Ci sono bambini viziati e bambini picchiati; bambini idolatrati e bambini ignorati; bambini ingozzati e bambini affamati... E tutto questo è solo opera degli adulti.

In realtà i bambini hanno in sé talenti, attitudini, potenzialità, risorse (come ribadito in vari atti normativi e non, dall’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia alla Charte du BICE del 2007), che però sono deturpate, offuscate dagli adulti e poi si sostiene da ogni parte che, nelle nuove generazioni, devono essere stimolate e sviluppate le life skills tanto che nel giugno 2020 l’Unione Europea ha pubblicato un documento per dare un indirizzo all’educazione, il LifeComp Framework definendo le competenze “che possono aiutare le persone a diventare più resilienti e a gestire le sfide e i cambiamenti nella loro vita personale e professionale in un mondo in continua evoluzione”. Già Maria Montessori, che considerava il bambino “embrione spirituale” e “costruttore dell’umanità”, nei primi decenni del secolo scorso affermava: “Un’educazione capace di salvare l’umanità richiede non poco: essa include lo sviluppo spirituale dell’uomo, la sua valorizzazione, e la preparazione del giovane a comprendere i suoi tempi. Il segreto sta qui: nella possibilità per l’uomo di divenire il dominatore dell’ambiente meccanico da cui oggi è oppresso. Il produttore deve dominare la produzione” (in “Educazione e pace”).

Anche lo scrittore russo Boris Pasternak, nella prima metà del ‘900, sosteneva: “Perdere la fanciullezza è perdere tutto. È dubitare. È vedere le cose attraverso la nebbia fuorviante dei pregiudizi e dello scetticismo”. Perdere la fanciullezza è perdere l’ebbrezza, la purezza, la carezza. È perdere il sé e pendere nel né: è perdere il meglio e perdersi nel meno.

“Fantasia”, secondo alcuni etimologi deriva dal greco “phanos”, “luce”: quella luce dell’anima e nell’anima che hanno i bambini e coloro che si fanno pervadere dallo stesso alone di vita. Il pedagogista Raniero Regni definisce i bambini “una sorta di epifania” (in un webinar del 16-10-2024).

Il più grande segreto della persona felice: vivere e sorridere alla vita, comunque, ovunque e con chiunque. Il vero segreto della persona felice è la vita stessa: come i bambini, come con i bambini. Il sorriso di un bambino ricorda che si può sorridere ancora, si deve sorridere sempre, ovunque e comunque.

L’infanzia: l’infinito delle possibilità della vita, un traguardo che non appartiene al passato, ma cui non si finisce mai di arrivare. Come il verbo amare che non si dovrebbe coniugare al passato, soprattutto per il bene dei bambini. Superare il finito dell’età adulta per tornare all’infinito dell’infanzia!

I bambini, più che dire la verità, sentono la verità. I bambini sanno semplicemente essere e di essere: ciò che conta di più nella vita, la vita stessa! 

Bisogno di paternità

Abstract: L’articolo mette in luce la necessità di padri che siano tali

“A partire dagli anni Ottanta-Novanta, una sorta di salto cosmico ha portato dal padre-padrone al papà peluche o mammo: una figura molle, un po’ inconsistente, il cui scopo è giocare con i figli, farli divertire mettendosi alla pari. Tra questi due opposti, non si sa francamente quale scegliere. Senz’altro il padre-padrone era una figura terribile, ma il padre amico non consente al maschio l’elaborazione di una virilità che sappia costruirsi sul coraggio, sulla capacità di rispettare se stessi rispettando gli altri, ossia su una forza che non diventa violenza e sopraffazione”. È quanto afferma e ripete il pedagogista Daniele Novara, in linea con altri esperti. A causa purtroppo di una certa cultura o sub-cultura, la figura paterna è stata ed è quella più avversata ed etichettata. Occorre invece una nuova cultura del padre: educare il padre, educare al padre, educarsi al padre.

Daniele Novara aggiunge: “Aspetto che nasca una nuova figura paterna che aiuti i figli e le figlie in un’operazione fondamentale per la vita: saper gestire i conflitti, saper litigare bene. Per guidarli a capire le ragioni altrui, a vivere con empatia le contrarietà, sapendo cogliere nella differenza e nel punto di vista diverso una nuova occasione. Ovviamente abbiamo anche bisogno di madri che educhino senza soffocare, considerando le autonomie dei bambini, accettando la loro crescita senza atteggiamenti iperprotettivi e morbosità. Insomma, ci vogliono padri e madri che sappiano restituire ai figli il gusto del buon litigio, quella capacità che preserva dalla violenza”. Urgono le differenze di stili genitoriali, di codici genitoriali per educare alle differenze. I genitori hanno la responsabilità dello sviluppo (che è il contrario di inviluppo) dei figli (art. 27 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Sono in aumento aggressività e violenza a tutte le età e Novara spiega: “Si tratta principalmente di un problema educativo, anche se non solo. Tanta parte sta lì, nei meandri della formazione dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze. Ed è anzitutto un problema di padre”. Indipendentemente dalla configurazione familiare (da quella ricomposta a quella omogenitoriale) nell’educazione occorre usare codici differenti (non di-versi) per educare alle e le differenze, come si legge pure tra le righe dell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Per questo è fondamentale e improcrastinabile educare il padre e educare al padre.

Alla voce di Daniele Novara si aggiunge quella dello psicologo e psicoterapeuta Osvaldo Poli: “La cultura educativa che non comprende più il modo di amare maschile cresce figli più deboli, più difficili da gestire in famiglia e nelle istituzioni ma soprattutto incapaci di reggere la vita con le sue inevitabili difficoltà” (in “Cuore di papà. Il modo maschile di educare”). Oscurare la figura paterna e la differenza paterna è sottrarre una parte della vita ai figli venendo meno ai compiti educativi e alle responsabilità che si ha nei loro confronti. Indicativo l’art. 29 della Convenzione Internazionale 

sui Diritti dell’Infanzia, in particolare la lettera d: “[…] preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione […]”.

La psicologa Antonella Roppo afferma: “Un padre assente, che non funge da base sicura, o peggio che mette in discussione ogni attività del bambino, genera in lui ansia e insicurezza. Questi tratti emergono molto spesso e permangono in modo disfunzionale anche da adulti. Dietro quelli che chiamiamo sintomi (ansie, attacchi di panico, depressioni, sentore di non farcela), spesso si nasconde un vissuto infantile dove la mancanza costante di una figura genitoriale fondamentale, come quella del padre, ha determinato una carenza importante per la vita dell’adulto, facendo emergere problematiche caratteriali e difficoltà. Anche sul versante dell’autostima vi sono delle conseguenze, proprio perché la personalità di un bambino non è ancora pienamente sviluppata. Infatti, una personalità in costante crescita, che si senta poco accettata da una figura centrale e determinante come quella del padre, potrà avere delle conseguenze importanti sul piano dell’evoluzione caratteriale”. Un padre, anche se fisicamente presente, può essere assente con le sue manchevolezze, con la sua mancata assistenza, con la sua incompetenza genitoriale, con la sua emulazione della figura materna. A parte situazioni particolari come famiglie monogenitoriali, omogenitoriali o altro, i bambini hanno diritto a un padre e a una madre; il padre deve dedicarsi alla paternità e gli si deve chiedere e consentire che faccia il padre.

Secondo lo psichiatra Alessandro Meluzzi: “Non si dovrebbe cessare di essere genitore neppure quando il rapporto di coppia si è esaurito. Ma questo non solo per il bene dei figli ma per il bene di tutti. Invece purtroppo accade che il padre separato diventi per varie ragioni l’oggetto negativo da espellere ad ogni costo dalla scena, e questo anche al costo della sua stessa vita. Tutto ciò ovviamente giunge a condizioni estreme solo in qualche raro caso, per fortuna, ma il travaglio e la sofferenza è ahimè di moltissimi. Sta a tutti noi, ma soprattutto a chi fa le leggi e le regole, farsene carico”. “Gli Stati parti debbano rispettare il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di mantenere relazioni personali e contatti diretti in modo regolare con entrambi i genitori, salvo quando ciò sia contrario all’interesse superiore del fanciullo” (art. 9 par. 3 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Senza ragione, nessuno deve allontanare o separare un bambino da uno dei genitori, meno che mai l’altro genitore perché procurerebbe al bambino un’orfanità più lacerante di quella causata dalla morte di un genitore.

Alessandro Meluzzi soggiunge: “Non avere la possibilità di incontrare come si vorrebbe i propri figli è tra tutte le pene che un uomo può sopportare sicuramente fra le più crudeli. Oggi all’interno di una legislazione che privilegia sempre comunque innanzitutto le ragioni della donna, i padri possono trovarsi, al momento della separazione, davvero tragicamente spiazzati. Non è un caso che la Caritas di Trento abbia istituito per i padri neo-separati comunità di accoglienza simili a quelle che si riservano per gli immigrati o per i disabili. E la miseria non è soltanto economica. È legata 

alla disperazione di essere la parte più vulnerabile e soprattutto non tutelata”. In passato parecchie donne facevano battaglie per il riconoscimento della paternità a tutela dei figli, oggi talvolta portano avanti battaglie contro i padri dei figli a danno di questi ultimi (tanto che da più parti si accampa la PAS, sindrome d’alienazione genitoriale). Su questo devono riflettere non solo le donne responsabili di simili atti, ma anche gli operatori coinvolti (dal legislatore all’assistente sociale), le famiglie d’origine e tutti coloro che hanno a cuore la solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione.

“È il tuo ex-padre: loro sono i peggiori!” (da un film tv, a proposito di un padre tornato dopo 5 anni dall’abbandono). Ogni assenza è un abbandono della persona, un abbandono della vita, un aborto, un’agenesia. I genitori, in particolare i padri, hanno grosse responsabilità perché, quello che non viene dato ai figli nel momento giusto, si manifesta poi in modo amplificato e incontrollabile.

Un esempio fra tantissimi, Adolf Hitler: bambino maltrattato dal padre alcolizzato e violento, che aveva sposato la madre dopo essere rimasto vedovo due volte e che subiva pure lo stigma, si dice, di figlio “illegittimo” (e altro ancora). Questo deve far riflettere sull’importanza del tessuto familiare, sulle tristi conseguenze di tutti gli errori che gli adulti possono compiere nei confronti dei bambini e, al tempo stesso, limitare le giustificazioni dei misfatti di coloro che hanno subito maltrattamenti perché si disconoscerebbero le illimitate risorse umane di resilienza, di rinnovamento, di rinascita.

Madri, padri, ladri: perché capita che madri e padri siano ladri di amore o di vita in base al loro di amare o non amare (dalla sindrome di Medea alla patologia delle cure) e in base alle loro scelte.

“I padri sono una parodia” (cit.). Come lo spermatozoo trova la strada per concepire la nuova vita così i padri ri-trovino la strada per rivelare la “parresìa” (il diritto-dovere di dire la verità) della vita e non essere più il duplicato delle madri o l’amico giocherellone dei figli o non esserci proprio.

Da gennaio 2023 in Italia ha preso avvio un progetto europeo sulla paternità. “4-E Parent è un progetto europeo che intende promuovere l’impegno dei padri da subito nella cura di figlie e figli secondo un’idea di mascolinità accudente. Ha una declinazione nazionale per meglio contribuire a modificare atteggiamenti, abitudini, stereotipi e organizzazione sociale, prevenire la violenza di genere e accrescere il benessere di tutta la famiglia” (cit.). Che un padre impari a esercitare, sperimentare, vivere una “mascolinità accudente” è importante per se stessi, per la famiglia, per la comunità, quell’accudire espressamente richiamato per entrambi i genitori nell’art. 7 par. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Lo psichiatra infantile Maurizio Andolfi asserisce: “Spesso i padri vengono fuori da ferite, spesso da una loro infanzia senza paternità” (in un webinar del 19-03-2021). Il ruolo paterno è stato sempre difficile e oggi è reso ancora difficile da banali generalizzazioni e accuse sociali. Come non esiste il figlio ideale ma quel figlio reale così non esiste il padre ideale ma quel padre reale di, con e per quel figlio. Non si può essere figli se non si conosce e ri-conosce il padre. Le due dimensioni sono 

intimamente e inevitabilmente legate. Il verbo “perdonare” contiene “padre” perché un padre dovrebbe educare a perdonare e in ogni padre c’è qualcosa (o tanto) da perdonare.

“Prima si diceva che il padre è utile e la madre è necessaria, invece anche il padre è utile e necessario” (cit.). Bisogna far “conoscere” e/o “riconoscere” il “padre” (come “altro”), anche in caso di donazione del seme. Figli e padri: chi soffre per essere riconosciuto da un padre che non conosce, chi soffre per essere conosciuto da un padre che pur conosce.

Papa Francesco nella lettera apostolica “Patris Corde”: “Padri non si nasce, lo si diventa, non solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui”. Padre non (solo) chi è chiamato tale ma chi è amato e ha amato come padre.

Padre: fare un passo avanti rispetto al figlio che, comunque, fa il suo percorso autonomamente fino a lasciarsi dietro il padre, come esempio e ricordo.

Paternità: dare le gambe al figlio affinché faccia il suo cammino e percorra la sua vita, comunque sua, com’è sin dallo spermatozoo che si fa strada per andare a concepire l’ovulo fertile e pronto per la nuova vita.

Genitori e figli, figli e genitori

Abstract: L’articolo illustra la relazione quotidiana genitori-figli evidenziando, tra l’altro, l’importanza di dire no ai figli

Solo 15 paesi nel mondo (tra cui, per fortuna, l’Italia), hanno almeno tre politiche nazionali di base che aiutano a garantire ai genitori il tempo e le risorse di cui hanno bisogno per supportare un sano sviluppo del cervello dei propri bambini: garantire due anni di istruzione prescolare gratuiti, il congedo per allattamento pagato per i primi sei mesi di vita del bambino, 6 mesi di maternità e un mese di paternità retribuiti contribuiscono a gettare le basi per uno sviluppo ottimale della prima infanzia. Mentre altri 32 paesi, in cui vive un bambino su otto di tutti i bambini del mondo con meno di 5 anni, non hanno nessuna di queste politiche. È quanto afferma il rapporto “Early Moments Matter for Every Child” (“I primi momenti sono decisivi per ogni bambino”) dell’Unicef (settembre 2017). “I primi momenti sono decisivi per ogni bambino” deve essere anche un monito e un orientamento per i genitori, che ne devono tenere conto nel loro progetto di vita di persona, di coppia, di famiglia e, soprattutto, per il figlio (e non del figlio).

Quanto sia fondamentale l’inizio della vita di un bambino, anche per la costruzione della relazione tra genitori e figli, è sottolineato dallo psicoterapeuta Alberto Pellai: “[…] il bambino ha il diritto di sapere la verità sull’inizio della sua vita. E gli adulti, che di questa verità sono i depositari, devono sentire il dovere di comunicargliela. Prima è, meglio è, perché questo gli permetterà di poter integrare nella propria identità in formazione anche questo dato, relativo alle sue origini. […] Comincerebbe a pensare di non sapere più chi è veramente lui e ad avere dubbi sulla fiducia che da sempre ha riposto nei suoi genitori. E poi, chissà quante domande lo tormenterebbero: perché nessuno ha avuto il coraggio di parlarmi di questo? Che mistero terribile potrebbe nascondersi dietro la verità mai comunicatami? Insomma, la conoscenza della verità è una condizione che tutela l’identità e l’integrità psichica del soggetto e che gli permette di pensare a sé stesso in modo sano”. Il fanciullo ha diritto “a conoscere i propri genitori ed essere da essi accudito” (art. 7 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

“Le generazioni adulte dei genitori dovrebbero domandarsi se sono capaci di aiutare i figli a spiccare il volo. Troppo spesso esagerano in precauzioni e assicurazioni preventive per evitare rischi che invece non possono non essere affrontati” (cit.). I genitori non devono tanto dare e dire cose (che restano finite e definite) quanto fornire strumenti per affrontare le non predefinite e infinite possibilità della vita (con l’esempio, l’impegno, la condivisione, le regole e altre esperienze emozionali e relazionali sempre più trascurate e da altro o altri surrogate). Devono “istruire”, costruire la struttura della personalità dei figli (o contribuire a tale costruzione). I genitori devono prendere per mano i figli, tracciare la strada, indicare la direzione e vigilare per aiutare se e quando 

necessario, come si fa nell’atto del parto. È questo il significato e il senso dei doveri genitoriali come formulati nell’art. 147 cod. civ..

L’art. 315 bis comma 1 codice civile, rubricato “Diritti e doveri del figlio”, recita: “Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”. I figli vanno accompagnati verso la loro vita che li cambierà comunque, anche perché crescere è, per natura, cambiare. Mantenere significa (o dovrebbe significare) tenere per mano, educare è condurre, istruire è costruire e assistere è aiutare (soprattutto fermarsi e mettersi in ascolto, come si fa con le persone inferme): i genitori non devono voler cambiare un figlio come lo immaginano o lo avrebbero immaginato né modellarlo o conformarlo a schemi socioculturali. Una delle citazioni più celebri dello psichiatra svizzero Carl Gustav Jung ripete: “Se c’è qualcosa che vorremmo cambiare in un bambino, dovremmo prima esaminarla e vedere se non è qualcosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi”.

Se da una parte che i genitori non devono cambiare il figlio, dall’altra i genitori non devono cambiare per il figlio, al cospetto del figlio. Infatti, la giornalista Renata Maderna osserva: “Capita di osservare mamme e papà che si affannano a giustificare i propri no al bambino che dà in escandescenze per ottenere l’ennesimo regalo oppure che si rifiuta di stare seduto a tavola o, peggio, tira calci per esternare la sua rabbia. Siamo tutti forse indirettamente vittime di una lunga stagione trascorsa a volersi differenziare dalle generazioni dei genitori che senza problemi dicevano: «Si fa così perché lo dico io… è per il tuo bene». È ovvio che sarebbe assurdo tornare indietro a un autoritarismo che fa danni, e spesso nasconde l’insicurezza di chi lo esercita, ma forse dovremmo più serenamente porre ai nostri figli regole e limiti spiegandone il senso, ma con parole, toni e tempi adatti alla loro età. Poi, di fronte a capricci e scene di vario genere, val la pena di mantenere la fermezza e soprattutto di non cadere nel meccanismo “più scene fa, più cediamo”. Il rischio è di diventare ostaggio dei loro umori che, come capita talvolta, possono determinare il clima di tutto il nucleo familiare. E persino dei rapporti d’affetto più vicini. I lunghi discorsi forse danno l’illusione di essere adulti illuminati che non si fanno prendere dal nervosismo, ma val la pena ogni tanto di fare la fatica di risultare antipatici. Perché non siamo stati mandati per essergli simpatici”. Nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge che “occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società” e, per questo, è necessario e doveroso da parte dei genitori dirgli anche no, perché nella vita esiste anche il no, si ricevono i no e c’è chi dice no. Il fiume ha bisogno di sponde, altrimenti esonda allagando e danneggiando le campagne circostanti e rischiando di perdere il suo corso naturale che lo porta alla meta che è l’enormità del mare.

La giornalista Maderna soggiunge: “[…] «essere una femmina» oggi, grande o piccola, madre o figlia, non è sempre così semplice e lineare in un tempo che sembra voler sbriciolare tutte le certezze, anche le più naturali, e vede sempre più spesso formarsi i “partiti” di donne: quelle che lavorano fuori casa contro le casalinghe, quelle che hanno i figli contro le single, quelle che hanno studiato e quelle che hanno rinunciato. Ma tocca alle adulte, le mamme, e anche le nonne, raccontare una specificità che non può essere tagliata a fette”. Nei confronti delle figlie femmine i doveri dei genitori, di cui agli artt. 147 e 315 bis cod. civ., si devono esplicare anche nel far emergere ed esprimere la specificità femminile (e non specialità che è di tutti e di ciascuno) e nell’educare e educarsi tutti in famiglia a quella specificità.

A proposito dei “veri” bisogni dei figli e della costruzione della quotidianità genitori-figli, il pedagogista Daniele Novara spiega: “[…] la colazione in tutte le diete sarebbe il pasto principale. Peccato che, se vogliamo lo diventi davvero, dieci minuti non bastano. I bambini hanno bisogno di un tempo più dilatato, di sentire l’importanza del momento, se possibile condiviso da tutta la famiglia. Preparare il tavolo della colazione prima di andare a letto può risultare utile, così come ritualizzare con tazze e posate specifiche scelte dai bambini stessi”. I bambini hanno bisogno di riti, di riempire il tempo e personalizzare lo spazio, di avere punti di riferimento nell’arco della giornata e nel loro immaginario, a cominciare dalla prima colazione, per la loro crescita e per il loro benessere. Di questo devono tener conto sempre i genitori sia in costanza di matrimonio sia oltre il matrimonio. “I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore” (art. 316 comma 1 cod. civ.).

Al di sopra di tutto, “I genitori ritornino a essere educatori, non «complici» o «compagni» dei figli, imparando a proteggerli da questa visione commerciale, che ruba i loro sogni e li priva del futuro” (la sessuologa belga Thérèse Hargot in “Una gioventù sessualmente liberata (o quasi)”, 2017). I genitori devono riappropriarsi della soggettività e della “funzione sociale” loro attribuita, in maniera inequivocabile, dall’art. 30 comma 1 della Costituzione.

Operato dei genitori: attività o funzione che concorra e concorre al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.). 

Luci e ombre della scuola dell’infanzia

“La scuola, per esempio, è un’istituzione al servizio degli alunni. Lo diceva anche don Lorenzo Milani [...], il quale affermava che per essere moderna una scuola deve avere la porta aperta sul mondo. Quindi, il principio secondo cui nessuno deve restare indietro e rimanere escluso è la condicio sine qua non perché una scuola sia davvero accogliente” (il giornalista Claudio Imprudente). La scuola che corrisponde a quest’immagine è la scuola dell’infanzia in cui l’accoglienza è un aspetto sostanziale che, invece, dovrebbe essere presente in ogni scuola perché la scuola è un ambiente di vita quotidiana in cui ogni bambino o ragazzo ci entra e ci rimane non solo come alunno ma come persona in fase di crescita (si legga, tra l’altro, l’art. 2 Cost.).

Lo psicologo Ezio Aceti ha proclamato: “La scuola dell’infanzia è la scuola più importante del mondo. È scuola, non università” (in una lectio magistralis a Matera il 9 ottobre 2023). In Italia la scuola dell’infanzia è l’unica a essere denominata con un complemento di specificazione e non con un aggettivo, come avveniva prima quando era chiamata “scuola materna”. Questo dovrebbe far riflettere genitori, operatori scolastici e adulti tutti.

La formatrice Maurizia Butturini afferma: “Educatori e insegnanti del nido e della scuola dell’infanzia, con un pensiero pedagogico, predispongono situazioni ed esperienze per rispondere ai bisogni di ciascun bambino e bambina, per conoscerlo nella propria unicità e per poi progettare in sintonia con potenzialità e interessi di tutti”. Lavorare con i bambini dagli 0 ai 6 anni d’età richiede pazienza, passione, professionalità, programmazione e progettazione. Non è un lavoro basato sull’improvvisazione o spontaneismo, ma deve tener conto della spontaneità e delle altre caratteristiche di quell’età. È una professione, però, che ha una scarsa considerazione sociale e scarso ascolto dalle autorità competenti nei vari settori (a cominciare dall’edilizia scolastica).

“La scuola dell’infanzia rappresenta il momento di massimo sbilanciamento tra il “cervello emotivo” pienamente funzionante e il “cervello razionale” deputato all’autoregolazione e ancora in via di sviluppo. Questi anni sono caratterizzati da continue turbolenze emotive che, se adeguatamente gestite dall’adulto, possono andare a formare la base per lo sviluppo di una personalità serena, autoconsapevole e flessibile. Se queste turbolenze emozionali non vengono gestite possono irrigidirsi, mutando in stili emotivi e relazionali segnati dall’impulsività, dalla labilità e da possibili condotte aggressive” (un team di esperti). La scuola dell’infanzia non è la Cenerentola delle scuole, pur essendo considerata tale altresì in sedi istituzionali. Non è né l’asilo né la scuola materna di una volta. È scuola alla base delle altre ma con la peculiarità di essere l’unica con la specificazione “dell’infanzia”, per cui deve essere appartenente e pertinente all’infanzia e non agli adulti (con la loro mentalità o le loro dietrologie) cui si richiede, invece, “qualificazione” (art. 3 par. 2 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). 

Anche secondo Pietro Di Martino, matematico ed esperto di didattica della matematica “[…] il percorso formativo su competenze significative, da coltivare in seguito nello specifico ambito della matematica, può beneficiare molto del lavoro svolto nella scuola dell’infanzia, in particolare sulla competenza del problem solving. La scuola dell’infanzia, infatti, rappresenta l’ambiente ideale nel quale far esplorare e scoprire il mondo alle bambine e ai bambini, facendo emergere le loro curiosità, cercando e discutendo insieme le possibili risposte in un contesto non valutativo”. Coltivare, competenze di base, curiosità, cercare, con-testo: tra gli elementi costitutivi della scuola dell’infanzia (e non asilo). Altro che “scuola del girotondo”!

“Nella scuola dell’infanzia bisogna adottare la pedagogia delle tre A: attenzione, affettività, arte” (l’autrice per l’infanzia Paola Fontana). Anche la famiglia, culla dell’infanzia, dovrebbe adottare la pedagogia delle tre A da cui, poi, sviluppare tutto l’alfabeto della vita.

Ebbene “[…] occuparsi di educazione dell’infanzia significa anche occuparsi delle famiglie, contesti primari di appartenenza dei bambini e delle bambine, per accompagnarli nei cambiamenti che caratterizzano la crescita e l’educazione dei figli e che impongono progressivi ripensamenti anche su se stessi e sui propri progetti esistenziali” (cit.). Tra i vari soggetti educativi la scuola dell’infanzia riveste un ruolo determinante non solo per i bambini ma anche per i genitori, in particolare per i genitori dei primogeniti o degli unigeniti (per i quali rappresenta il primo approccio con l’istituzione scolastica), perché si rivela spesso, una “scuola dei genitori”, come auspicata da vari esperti (in primis il pedagogista Daniele Novara) e come si ricava dalle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (2012), dove si legge: “L’ingresso dei bambini nella scuola dell’infanzia è una grande occasione per prendere più chiaramente coscienza delle responsabilità genitoriali” (nel paragrafo “Le famiglie”). Per esempio i genitori dovrebbero comprendere che costringere i propri figli all’anticipo scolastico, sin dalla scuola dell’infanzia (anche quando agli occhi dei genitori sembrano spigliati), potrebbe significare sottrarre loro il giusto tempo di crescita e altro ancora. Altro che anticipare opportunità! Spesso sembra davvero una corsa che non porta da nessuna parte.

Inoltre, i genitori all’ingresso nella scuola dell’infanzia non dovrebbero chiedere di progetti di lingua inglese o altri progetti extracurriculari ma preoccuparsi piuttosto che i figli imparino a e possano esprimersi (art. 13 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e comunicare tenendo conto anche dei crescenti disturbi del linguaggio o altri disturbi e difficoltà. Conoscere e parlare la lingua madre è fondamentale per la costruzione della propria identità per, poi, rispettare ogni altra cultura.

Bambini: chi li vizia, chi li sevizia. E può avvenire anche con un intervento educativo (o pseudo-tale) o con qualsiasi cosa quando si dice di volere loro bene o di farlo nel loro bene. Avviene 

sempre più spesso perché si sta perdendo (o si è perso) lo spirito di osservazione e conservazione dell’infanzia. Sembra che si stia realizzando la “profezia” della fiaba “Il pifferaio magico”.

Non si consente più ai bambini di essere bambini, che consiste anche nella gioia di scoprire le cose gradualmente e pure inconsapevolmente: nella scuola dell’infanzia si comincia precocemente con metodi di letto-scrittura, a seguire educazione sessuale e gender, progetti scolastici di ogni sorta, attività extracurricolari, quasi tutto con una visione adultocentrica. I bambini sono quel che sono, nel bene e nel male, fin quando si consente loro di essere così, nel bene e nel male. Se si smettesse di essere bambini si smetterebbe di crescere, di avere la gioia, l’entusiasmo, la curiosità dei bambini: dovrebbe essere questo il senso e il contenuto della tutela dei diritti dei bambini e non difenderli o difendersi “a spada tratta” in una continua “guerra” tra adulti: genitori e insegnanti, padre e madre, genitori e psicologi o assistenti sociali o altri esperti.

La pedagogista Rosalba Merola richiama: “Prevenire è meglio che curare. I problemi di apprendimento e di comportamento rappresentano un’importante sfida per gli insegnanti della scuola primaria, che devono affrontarli con attenzione e cura. Tuttavia, gli insegnanti della scuola dell’infanzia rivestono un ruolo altrettanto fondamentale, in quanto coinvolti nel processo di crescita e di apprendimento dei giovani allievi, e diventano agenti di prevenzione in quanto inseriti nell’intreccio di relazioni significative degli stessi. Al fine di preparare al meglio i bambini per il passaggio alla scuola primaria, è importante porre attenzione ai requisiti che permettono un apprendimento sereno e proficuo”. La scuola dell’infanzia è una scuola a tutti gli effetti ma non bisogna dimenticare il complemento di specificazione “dell’infanzia” che la distingue. Prepara al passaggio alla scuola della primaria ma non è l’anticamera della scuola primaria, ha una sua identità e specificità.

La scuola dovrebbe condurre non a separare i saperi ma a sceverare il sapere, come previsto per la scuola dell’infanzia nella quale si sperimentano i cosiddetti “campi di esperienza” come primo approccio al sapere, alla cultura e come prima produzione della stessa. “I bambini hanno diritto ad avere un sistema integrato tra scuola e istituzioni artistiche e culturali, perché solo un’osmosi continua può offrire una cultura viva” (art. 10 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura, Bologna 2011). “Osmosi continua” e “cultura viva” di cui non si è tenuto conto nella DAD e nei LEAD in tempi di emergenza sanitaria.

Tra l’altro nella scuola dell’infanzia si gettano i semi della storia. “Ai giovani consiglio di prepararsi sapendo che se non conosci la storia non sai dove vai. Essa serve per capire i discorsi dei politici e farsi un parere, come la storia di un amico serve per capire se ti vuole bene. La storia è un termine di confronto” (la regista Liliana Cavani). La storia non è una materia scolastica, è materia di vita, è patrimonio (art. 9 Cost.). La passione (o meno) dei bambini e ragazzi per la storia dipende 

anche dal modo di raccontare e raccontarsi nella scuola dell’infanzia, che è luogo narrativo per eccellenza in cui si comincia a tessere l’identità narrativa di ogni bambino.

A proposito di “produzione della cultura” il formatore Stefano Centonze spiega: “La creatività richiede tempo, pazienza, sperimentazione, pratica e allenamento continui; per questo deve diventare un’abitudine. Molti suggerimenti ed esempi pratici ci vengono forniti da illustri personaggi del passato, che hanno contribuito a rivoluzionare la scienza e l’arte con la loro sorprendente capacità d’innovare. L’esempio più emblematico ci viene offerto da Leonardo da Vinci, celebre talento universale, vera e propria icona e incarnazione del periodo rinascimentale. I suoi tratti distintivi erano una curiosità insaziabile, la continua voglia di sperimentare, una grande concentrazione e consapevolezza di sé”. Il diritto al gioco (art. 31 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) è il “diritto principe” che caratterizza l’infanzia e che dovrebbe tener presente la scuola, in particolare la scuola dell’infanzia, ricordando il significato etimologico di “scuola”, “stare in ozio, riposarsi, aver tempo, aver tempo di occuparsi di una cosa per divertimento”, che non deve però indurre a rendere la scuola una ludoteca.

Per “aver tempo di occuparsi di una cosa per divertimento” i bambini hanno bisogno non tanto di cose materiali (che, alla fine, sono asettiche, industriali, uguali) o ambienti di apprendimento immersivi quanto di esperienze materiche in cui sporcarsi le mani, procurarsi anche qualche graffio o taglietto, provare brividi o ribrezzo. Tra le migliori esperienze quelle con la carta, che è un materiale molto duttile che si presta a essere utilizzato in diverse attività, da quelle manipolative e sensoriali a quelle legate alla sperimentazione e all’invenzione di nuove forme. Tutto ciò serve per stimolare il loro sviluppo sensoriale e integrale, della memoria e del cosiddetto problem solving. Non se ne tiene conto, però, né in famiglia né a scuola, particolarmente nella scuola dell’infanzia, dove tante volte si usa materiale confezionato, plastificato, omologato, comprato ad hoc.

Per fare esperienza i bambini si servono e devono servirsi innanzitutto del corpo. “Il corpo è un veicolo fondamentale per l’apprendimento, e la consapevolezza corporea rappresenta una chiave per migliorare la concentrazione, il benessere e lo sviluppo delle capacità cognitive nei bambini e ragazzi. L’imitazione dei movimenti naturali degli animali offre un approccio ludico e immediato per connettere mente e corpo, stimolando anche creatività e fantasia” (cit.). Occorre che i bambini imparino a conoscere, riconoscere e rispettare il proprio corpo per imparare a conoscere, riconoscere e rispettare l’altro. L’educazione corporea, del corpo e alla corporeità è importante ai fini non solo della crescita ma dello sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale del fanciullo (art. 27 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). E in tutto questo gioca un ruolo essenziale la scuola dell’infanzia.

La scuola intesa come “stare in ozio, riposarsi, aver tempo” richiama la serenità, il “diritto alla serenità”, che differisce dalla felicità e dal benessere di cui si parla nella Convenzione 

Internazionale sui Diritti dell’Infanzia ma, al tempo stesso, li costituisce; si parla espressamente della serenità dei bambini nelle “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione” del 2012 nella parte relativa alla scuola dell’infanzia: le esperienze traumatiche segnano per sempre i bambini e quanto viene distrutto in loro non esce più dalle macerie.

Oltre alle esperienze, i bambini hanno bisogno (di) e diritto alle regole. Le regole mirano alla regolazione (necessaria come la termoregolazione) e non all’obbedienza, non è dare limitazioni ma indicazioni. Le regole non devono essere ganci, come le bretelle che si usavano per far camminare i bambini ai loro primi passi, ma lanci per farli andare. Regolare non è limitare ma indirizzare, guidare, orientare, come si ricava da più locuzioni della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Quelle regole più volte richiamate nelle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (2012), specificatamente nella parte relativa alla scuola dell’infanzia perché le regole sono alla base del vivere sociale.

Regolazione che, nella scuola dell’infanzia, si dà pure alle emozioni. L’infanzia non è l’età dell’innocenza ma l’età dell’esplosione emozionale, per cui i bambini non hanno bisogno di faccine stereotipate o colori indicati dagli adulti, come per esempio “la fifa blu”, per esprimere le “loro” emozioni e dare loro un nome: “Ormai anche le emozioni sono “iconizzate”, già dalla scuola dell’infanzia, invece i bambini devono e possono esprimerle liberamente” (la formatrice Eva Pigliapoco in un webinar del 26-10-2021). I bambini hanno bisogno di un alfabeto emozionale e di qualcuno che faccia loro da specchio in un meccanismo di co-regolazione. Non a caso nell’art. 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si parla di ascolto e nel successivo art. 13 di diritto alla libertà di espressione.

I bambini devono potersi esprimere liberamente con i colori, con ogni colore. Talvolta nella scuola dell’infanzia, invece, si continua a trasmettere stereotipi: i colori delle emozioni (rosso come la rabbia o l’amore, blu come la fifa, ...), il cielo rappresentato come una striscia celeste solo in alto sul foglio del disegno, le nuvole bianche, le foglie arancioni prevalentemente in autunno, non devono superare i contorni e non devono lasciare spazi bianchi (attività comunque necessarie)... I bambini sono artisti (non necessariamente alla Michelangelo), originali e unici e hanno il diritto di esprimersi e esprimere, usare tutte le tecniche, inventarsene di nuove. I bambini stessi sono colore e danno colore alla vita. L’educazione non deve portare all’emulazione di un modello, come si continua a fare nelle scuole, sin dalla scuola dell’infanzia dove si adottano o propongono metodi precostituiti, kit didattici che emulano pittori già affermati, schede fotocopiate, “lavoretti” per le feste comandate, senza tener conto dei moniti di grandi “maestri” da Mario Lodi a Gianfranco Zavalloni, ma all’esalazione (letteralmente “soffiare, mandare fuori, uscire diffondendosi in alto”) della propria personalità. 

I bambini hanno bisogno di armonia perché essi sono forieri di quell’armonia già insita nella natura (come ha sempre sostenuto Maria Montessori): l’infanzia è la biodanza della vita e la scuola dell’infanzia dovrebbe essere l’habitat di questo periodo unico e basilare per il resto della vita.

La scuola dell’infanzia, perciò, è un vero vivaio che esige tanta cura, equilibrio, specializzazione (e non solo titoli specialistici) e tempo da parte delle figure adulte.