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Le peculiarità della nuova paternità

Abstract: L’articolo indaga lo specifico dell’essere padri evidenziandone il ruolo insostituibile nella crescita dei figli

I genitori non nascono tali con la nascita dei figli ma lo divengono man mano soprattutto facendosi educatori dei figli. In questo cammino non devono trascinare zavorre del loro passato personale e familiare o loro convinzioni ma farsi condurre da quel figlio che hanno avanti e che sin dall’inizio si aggrappa con la sua manina al dito di chi glielo porge. “Nell’assolvimento del loro compito essi [i genitori] debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo” (art. 18 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), sin dal concepire mentalmente un figlio e anche nella scelta di quelle che sembrano piccole cose. Le pedagogiste Elisabetta Rossini e Elena Urso puntualizzano: “[…] la storia personale di mamme e papà, ovvero come loro stessi si sono rapportati a ciuccio o pollice e come sono stati gestiti in tal senso dai loro genitori può avere una influenza anche notevole nel rapportarsi poi ai propri figli rispetto a questo argomento. Sarebbe quindi utile ed importante che i genitori, laddove si sentissero in difficoltà nel gestire questo aspetto della crescita del proprio bambino, potessero fare una riflessione anche rispetto alla propria storia e cultura familiare per valutare quanto il passato incida nel presente e lo influenzi”. Prima di concepire un figlio i futuri genitori (anche nelle coppie omogenitoriali) dovrebbero indagare sulla loro storia familiare e interrogarsi su quale ruolo paterno e ruolo materno vorranno “rivestire” all’interno della coppia genitoriale e nel rapporto con il figlio. E questo riguarda soprattutto il padre, figura da sempre più controversa.

“Uno degli effetti drammatici, forse il più drammatico, di questo sgretolamento dell’autorità, si presenta nella scomparsa dell’idea del padre. La figura paterna è messa in ombra nella società di oggi. Tutto ciò che può anche indirettamente suggerire l’immagine paterna viene contestato. E questa contestazione si salda con degenerazioni come la cancel culture, che pretende di eliminare quelle figure che hanno nella nostra memoria collettiva un carattere «paterno», e hanno contribuito alla costruzione della nostra storia. Queste figure vengono rozzamente ritenute colpevoli delle ingiustizie che sono venute dopo di loro, seminando macchie d’ingiustizia nelle pagine successive alla loro opera. Persino le statue di Cristoforo Colombo vengono abbattute perché dal prodigio della sua scoperta è nato un mondo nel quale, poi, ha trovato albergo anche la schiavitù” (il giornalista Paolo Pivetti). Non si può rinnegare, offuscare o contrastare aprioristicamente la figura paterna solo per la cultura passata o per quei padri che hanno sbagliato. Avversare o annullare il padre è cancellare, negare la storia, le origini, l’esistenza delle differenze. Le differenze sono necessarie, vitali, arricchenti, si nasce dalle differenze e si costruisce la propria identità dalle e con le differenze. Anche nel passato maschilista ci sono stati padri che hanno arginato figure materne ingombranti e sostenuto i figli, in particolare le figlie femmine, come il padre della scultrice francese Camille Claudel, appoggiata dal padre e invidiata e ostacolata dalla madre che addirittura la fece internare.

Nelle vite di altri personaggi famosi, invece, si possono rilevare gli effetti negativi della mancanza del padre o della presenza di un padre inidoneo. Come Charlie Parker (1920-1955), detto “Bird”, “uccello”, (su cui Clint Eastwood ha girato un film drammatico): grande musicista jazz, discutibile uomo, dalla vita affascinante e travagliata, fatta di eccessi ed ossessioni, cadute e riprese, amicizie e isolamenti. Con un pessimo padre alcolizzato ed una madre vicina che gli comprò un sassofono usato a 45 dollari in un tempo di ristrettezza economica. Tutto ciò gli segnò la vita finita precocemente e tragicamente a soli 34 anni e mezzo a casa di una mecenate. Quanto fanno e danno i genitori o, viceversa, quanto non fanno e non danno i genitori. Sono destinati a sbagliare ma se lo fanno in buona fede sono errori, se lo fanno in mala fede senza accettare quello che sono loro o i loro figli, senza guardarsi intorno e senza tener conto di niente e nessuno (per esempio senza prestare ascolto a nonni, insegnanti o altre figure di riferimento) sono orrori irreparabili e imperdonabili.

L’economista Luigino Bruni commenta la parabola di Gesù del figliol prodigo (o, meglio, del padre misericordioso): “Quel padre genera il figlio più giovane alla vita adulta e quindi alla libertà. Il figliol, nella parabola, fa un uso sbagliato dei beni ereditati. Anche questo fa parte del rischio della paternità. Non c’è paternità senza la possibilità che i figli si perdano inseguendo la loro vita e la loro libertà. Perché se non diamo loro la possibilità di diventare peggiori di noi, non saranno mai nemmeno migliori di noi, perché mancherebbe quella libertà vera, essenziale per diventare persone autentiche e belle”. La parabola evangelica è una “lezione”, nel senso proprio di “lettura”, della paternità. La paternità non deve essere una (brutta) copia della maternità, altrimenti si renderebbe orfani i figli di un padre vivente o sarebbe una paternità comunque assente. Il padre deve affiancare la madre ma, al tempo stesso, tagliare il cordone ombelicale e dare al figlio la spinta, la forza di sperimentare la sua libertà, la sua adultità.

La madre ha la funzione vitale di far venire al mondo il figlio, il padre quella esistenziale di far aprire al mondo il figlio. Il padre, con la sua creatività delle soluzioni (nel gioco, nella fatica educativa, nell’accudimento) e con uno stile differente da quello materno, aiuta a spalancare gli orizzonti nella vita dei figli. È una figura fondamentale che non va né avversata né appiattita né assorbita nella sfera materna come accade, invece, nell’odierno maternage dilagante.

A proposito di maternage, è viva la questione che il figlio di tre anni (o comunque di pochi anni d’età) non debba essere collocato in via prevalente presso la madre sulla base dell’astratto criterio della maternal preference, dando per scontato che il padre non possa occuparsene tanto quanto lei. Allorché si tratti di decidere sull’affidamento, il collocamento e la frequentazione dei figli, il giudice è chiamato a decidere alla luce dell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, che è quello di conservare un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, sicché le statuizioni devono rispondere a una valutazione in concreto finalizzata al perseguimento di tale finalità, non potendo essere adottati provvedimenti che limitino grandemente la frequentazione tra uno dei genitori e il figlio in applicazione di valutazioni astratte non misurate con la specifica realtà familiare (Cassazione civile, ordinanza 1486 del 21/1/2025). In passato il criterio seguito prevalentemente per la scelta del genitore cui affidare il figlio in caso di separazione dei coniugi era la “maternal preference”, ovvero si preferiva la madre per un retaggio culturale diffuso. Attualmente, grazie alle riforme normative e in particolare alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, si tiene meno conto della scelta del genitore migliore e di più della scelta migliore per il figlio.

Infatti, l’art. 7 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia stabilisce: “Il fanciullo dovrà essere registrato immediatamente dopo la nascita ed a partire da essa avrà diritto ad un nome, ad acquisire una nazionalità e, nella misura del possibile, a conoscere i propri genitori ed essere da essi accudito”. La formulazione di quest’articolo è davvero rilevante perché, tra l’altro, ha riconosciuto la pari dignità, responsabilità e funzione sociale, psicologica e educativa della paternità e della maternità visto che, per esempio, l’accudimento era ritenuto prerogativa della madre.

Dagli anni 2000 la normativa promuove e agevola l’accudimento da parte del padre. A cominciare dalla L. legge 8 marzo 2000, n. 53 “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”, seguita da leggi regionali, tra cui in Campania la Legge Regionale 11 novembre 2024, n. 18 “Disposizioni in materia di promozione e valorizzazione della famiglia e della genitorialità in ambito regionale”, gli “Orientamenti nazionali per i servizi educativi per l’infanzia” del 2022 (“Dal punto di vista del servizio educativo: padri, madri, genitori, famiglie”), il Piano Nazionale per la famiglia 2025-2027 (approvato il 9 dicembre 2024). In questi anni, man mano si è dato al padre il tempo e lo spazio per praticare la sua paternità, accanto alla madre (e non al posto o al di sopra della madre o come la madre), coinvolgendolo nella funzione educativa e investendolo di “suoi” compiti.

Nella coppia dei genitori, in particolare il padre deve fare da pioniere nell’esercizio della genitorialità (nella dimensione della paternità), muovendo il primo passo nei confronti del figlio, davanti al figlio e verso gli altri. Non ci sono manuali o altro di precostituito né di innato: si costruisce, costituisce, consolida, consuma o conferma nelle relazioni.

Il pedagogista Daniele Novara spiega: “È importante che i genitori di oggi raccolgano questa preziosa eredità: non si tratta di abbandonare il rigore educativo, si tratta di abbandonare quel rigore dispotico che rendeva i padri ostili e diffidenti verso i loro stessi figli”. I figli non hanno bisogno di “bacchettate” ma di “dritte”; sono fiumi in piena che vanno arginati non con barriere ma con canali di drenaggio. Il rigore educativo si esprime nel condurre, nel convincere e nel correggere e non nel costringere o comprimere la personalità. Rigore è diverso da rigidità. I bambini hanno bisogno di rigore, di disciplina, per crescere altrimenti disperdono la loro energia come fili elettrici scoperti.

“Papà, voglio mancarti!” (da un film): parole che hanno un senso e che invitano al senso, quello cui non si dà più importanza. Ai figli non deve mancare un genitore ma i genitori, per natura, possono soffrire per i figli. I figli hanno bisogno di essere sentiti, percepiti, capiti, proprio come durante la gravidanza, e maggiormente dal padre.

“La Festa del Papà - che ricorre ogni anno il 19 marzo - rappresenta un momento fondamentale per riconoscere il ruolo cruciale che le figure paterne giocano nella vita di figli e figlie. Valorizzare la paternità aiuta a promuovere modelli positivi e responsabilità condivisa nell’educazione e nella crescita dei bambini. Inoltre, contribuisce a sfatare stereotipi di genere, sottolineando che cura, sostegno emotivo e guida sono qualità universali, non confinate a ruoli prestabiliti” (cit.). Papà comincia con la sillaba pa- come pane, pace, patto, parsimonia... quello che dovrebbe essere la paternità per se stessi e per i figli.

“Lanterna” fa rima con “materna” e “paterna”: perché tanto la figura materna quanto quella paterna devono essere lanterna nella e della vita.

Educare alla bellezza

Donald Winnicott, pediatra e psicoanalista, già a metà Novecento, sosteneva che “il bambino non esiste” e spiegava che non esiste “il bambino” in astratto ma sempre in relazione con altri esseri umani e con un ambiente. Questa realtà è tuttora ignorata dai principali soggetti educativi, genitori e insegnanti, che invece considerano un bambino astratto, teorico, quello che loro presuppongono.

L’uomo, a furia di mirare al possesso o consumo di cose, ne è posseduto. E la mentalità consumistica prodotta dagli adulti consuma pure la bellezza dell’infanzia rendendo bambini e ragazzi prede del marketing e instillando atteggiamenti a rischio che possono portare durante la crescita a ludopatia, obesità o altri disturbi.

Lo storico dell’arte Gustav Schörghofer scrive: “L’arte moderna ha rinunciato a raffigurare cose che sono al di là della nostra percezione immediata: non ci presenta mondi fantastici, ma ci prepara a riconoscere la realtà e a percepire in essa l’illuminazione di uno splendore nascosto. Addestra i nostri occhi a riconoscere la bellezza di ciò che non è visibile, ci mostra che c’è una grande magia da scoprire in ciò che è scartato dagli altri. In questo senso, affrontarla e sforzarsi di farlo è un esercizio che corrisponde all’atteggiamento dei bambini, che sono sempre in grado di vedere qualcosa di speciale in tutte le cose”. I bambini sono espressione di arte, hanno bisogno di arte, fanno arte. I genitori devono dare loro meno costosi dispositivi tecnologici di cui fruire passivamente e più materiale da toccare, manipolare, trasformare.

“L’arte in genere, in tutte le sue manifestazioni, si rivolge, infatti, alla complessità della dimensione umana (corpo, affettività, mente) e consente, con maggior forza ed immediatezza, l’espressione di sentimenti, emozioni e vissuti, favorendo autentiche forme di contatto e relazione con se stessi e con gli altri. La musica, la danza, il teatro e l’arte si offrono, in particolare, come spazio per poter esprimere tale dimensione emozionale, come contenitori in grado di accogliere e dare senso alle emozioni, di dare spazio al processo creativo, inteso come area di pensabilità, dove possono prendere forma, in quanto note, in quanto gesti, in quanto colore, aspetti che hanno a che fare con il non detto, con il non ancora pensato” (cit.). L’arte è stata anche una forma di evoluzione della specie umana, dalla preistoria all’antropocene, per cui bisogna “dare” arte ai bambini e educarli all’arte per lo sviluppo della loro personalità, della loro manualità e delle loro abilità, altresì per educarli alla bellezza, che non è solo un dato estetico. “7. Diritto ad essere educati alla bellezza. Bellezza delle parole, bellezza delle immagini, bellezza delle relazioni, bellezza della natura. Città grigie e inquinate, canzoni e film pieni di situazioni e parole ostili e volgari; musei, cinema e teatri con costi elevatissimi per genitori che ci vogliono accompagnare i figli: come possono i bambini imparare ad amare il bello quando non è loro reso accessibile e disponibile?” (dal “Decalogo per proteggere i nostri bambini” elaborato dallo psicoterapeuta Alberto Pellai nel 2018).

“Se la bellezza non è un mero optional, un lusso superfluo, ma una caratteristica essenziale dell’essere, occuparsene non è una mera esercitazione accademica o di circostanza, ma questione di vita o di morte: essa è indispensabile per una vita degna di questo nome” (lo studioso gesuita Giovanni Cucci). I bambini sono la bellezza della vita, hanno bisogno di bellezza, hanno diritto alla bellezza (in passato si parlava di educazione estetica e etica). Indici normativi si trovano nell’art. 9 della Costituzione e in più punti della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

I bambini sono fiori che non vanno colti ma coltivati affinché diano polline alle api di passaggio che continueranno a impollinare e a farne miele, fiori da non recidere ma da lasciare in giardino affinché tutti ne possano godere e vi si possano posare farfalle e altri insetti impollinatori.

I bambini colgono la luce della primavera, i bambini sono la luce dell’imperitura primavera, la dolcezza della vita.

Il pedagogista Daniele Novara richiama: “Lasciamo ai bambini la bellezza del pensiero magico. Diventeranno adulti più equilibrati, solidi e creativi. Diamo spazio ai sogni”. Il diritto ai sogni trova il suo fondamento nel diritto all’ascolto (art. 12 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), nella libertà di espressione (art. 13 Convenzione) e nella libertà di pensiero (art. 14 Convenzione).

Oggi si parla frequentemente di “parità di genere, uguaglianza di genere, quote di genere...”, che, però, si rivelano formule vuote. Bisogna rispettare la bellezza del genere, perché è la vita stessa. I bambini vanno educati al rispetto reciproco, alla biunivocità di diritti e doveri, perciò all’essere rispettati e al rispettare, “in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi…” (dall’art. 29 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Stare con i bambini è l’elisir dell’eterna giovinezza e gioia di vivere. “Ogni bambino ci dice nella sua maniera la bellezza e le ferite della vita e ci richiama anche alla nostra responsabilità. La sua nascita rappresenta un’esperienza nuova per l’umanità che gli deve ciò che essa ha di meglio” (dalla Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance “Pour chaque enfant, un avenir”, Parigi giugno 2007).

I bambini educati alla meraviglia e alla bellezza del mondo salveranno il mondo o quello che ne rimarrà. Gli adulti, però, continuano ad essere incoerenti: producono e provocano bruttezze e brutture e, poi, parlano di educazione allo sviluppo sostenibile.

“Chi ha avuto un’esperienza personale di espressione nell’amore poi riesce a donarla anche agli altri: tutto dipende dalle relazioni vissute nell’infanzia. Tutti i neonati sono predisposti e se fanno questa esperienza poi saranno adulti capaci di amare. Ogni bambino è migliore di come nasce: dentro di lui c’è qualcosa, una sua identità e qualità che prescinde dai genitori e dalle situazioni nelle quali è venuto al mondo. Tutti i bimbi sono bellissimi e sono sempre più forti della sovrastruttura che gli vogliamo imporre: loro la attraversano e la sovvertono, insegnandoci

inconsciamente a ritrovare qualche traccia della straordinaria dimensione della nostra fanciullezza. Ma bisogna essere veramente forti per recuperare la nostra bellezza originaria e non perderla nella quotidianità. Generalmente abbiamo paura di ciò che ci mette in discussione e il bambino è colui che lo fa meglio: approfittiamone e non abbandoniamo mai i nostri sogni! Quello che resta è immaginare il futuro, pensandolo più giusto per le persone che amiamo” (Andrea Satta, pediatra, musicista e scrittore). Anche se non è formalmente sancito, ognuno ha diritto al futuro e, soprattutto, ogni bambino ha diritto al suo futuro. 

Lo sguardo in famiglia

Sintesi: Perché è lo sguardo, in fondo, a fare la differenza, sempre

Abstract: L’articolo illustra gli effetti costruttivi dello sguardo, base del rispetto e punto di partenza dell’educazione e della reciprocità in ogni relazione

Educazione: bisognerebbe ricominciare dalla famiglia dove, in passato, “bastava solo lo sguardo”, mentre oggi manca, sempre più spesso, proprio lo sguardo dei genitori verso i figli.

Già lo scrittore Oscar Wilde affermava: “Pochi genitori oggi fanno attenzione a ciò che i figli dicono loro. Il bello, antico rispetto che si aveva un tempo verso i giovani sta morendo”. Molti figli si perdono, smarriscono la loro strada perché non hanno ricevuto adeguata attenzione quando ne avevano bisogno, quando la chiedevano anche semplicemente con uno sguardo. E, poi, ci si ritrova con comportamenti devianti o antisociali sempre più diffusi.

Olivia E. Nuñez Orellana, studiosa messicana, riferisce: “È evidente e non smette di essere allarmante il fatto che la condizione dei minori, che sono le persone più vulnerabili della società, obbliga non solo a una riflessione personale ma anche comunitaria e di ordine prioritario all’interno della società. Non solo perché lo sguardo che rivolgiamo ai bambini oggi è sicuramente il miglior investimento possibile per costruire un futuro prospero e civilizzato. D’altra parte, continuando ad ignorare le situazioni che affliggono i minori, condanneremo la società tutta a perpetrare ingiustizia e sofferenze e, eventualmente, il proprio annientamento” (nella relazione per il 2020 “La condizione dei minori” del Family International Monitor). Ci si dà da fare per i bambini, se ne fa un gran parlare, si dà loro di tutto, ma spesso, sempre più spesso, si fa mancare lo sguardo, quello che è alla base dell’attenzione, della considerazione, del rispetto, atteggiamenti previsti anche nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Il sociologo Francesco Belletti sottolinea: “Ma sicuramente ai nostri ragazzi servono speranza, fiducia e spazi di responsabilità e protagonismo: e soprattutto servono legami di senso, adulti e contesti in cui e da cui sentirsi accolti, ascoltati e non giudicati: in una parola, «guardàti»” (in un articolo pubblicato il 23 agosto 2024). Bambini e ragazzi hanno bisogno dello sguardo degli adulti. Basti pensare a uno dei gesti più frequenti da parte dei piccoli: quello di tirare uno degli adulti presenti e dire loro “guardami, vieni a vedere, guarda che ho fatto…”. E, purtroppo, il più delle volte questa richiesta è disattesa e si volge loro non uno sguardo ma solo la testa in maniera distratta e inespressiva. “Sguardo” è il senso di rispetto e orientamento di cui si parla sempre a proposito di bambini e che si deve a bambini e ragazzi (si veda la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, tra cui l’art. 5) ma non lo si fa e, poi, li si perde di vista man mano che crescono e si smarriscono.

Lo psicoterapeuta familiare Maurizio Andolfi spiega: “Quando ci si preoccupa per un figlio, per un bambino, il bambino aiuta la famiglia a motivarsi, a riunirsi di nuovo attorno allo stesso problema.

[…] L’ansia di un bambino, che si manifesta in vari modi, non è indicatore di un malessere infantile ma un indicatore del malessere familiare, come quando si misura la febbre che è solo il sintomo di una malattia. Bisogna andare a cercare la radice, dare valore al malessere del bambino come elemento di guida […] nel triangolo primario” (in un webinar del 19-03-2021). “Guidare”, anche etimologicamente, richiama “guardare” e “guadare”, evocando così il concetto di “rispettare” e quello di “orientare” (menzionati nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), che riguardano entrambi lo sguardo, perché i genitori, in virtù del loro essere genitori, non devono perdere lo sguardo verso il loro bambino e verso l’orizzonte e non centrarlo su loro stessi come singoli o come coppia o su altro, come preoccupazioni per il lavoro, la casa, le brutte notizie, le mutevoli relazioni sentimentali.

Prendersi cura di un figlio non è solo accompagnarlo, dargli cose materiali, ma dedicargli lo sguardo, seguire il suo sguardo per coglierne interessi e direzione, altrimenti ci si ritrova con il figlio cresciuto di cui si conosce poco o nulla perché lo si è perso di vista. Ciò non significa che i genitori devono essere sempre presenti fisicamente ma accorti alla e nella relazione con i figli.

Il pedagogista Daniele Novara precisa: “Una pedagogia fatta di contrapposizioni, dove al bambino tirannico si oppone l’adulto dispotico, non porta da nessuna parte. L’educazione è tutta un’altra storia”. L’educazione in famiglia è e deve rimanere una relazione asimmetrica ma non significa che deve essere un braccio di ferro tra figlio tiranno e/o genitore dispotico. L’educazione deve e può basarsi sul reciproco rispetto (come si ricava pure dall’art. 29 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) perché è innanzitutto avere uno sguardo l’uno per l’altro e non può che essere reciproco. “Perché è lo sguardo, in fondo, a fare la differenza, sempre” (cit.).

Secondo la psicologa Clara Mucci “[…] lo sviluppo di bambine e bambini è impattato dallo stato d’animo e da ogni comportamento delle figure genitoriali: il tono della voce, lo sguardo, l’atteggiamento di cura e l’attenzione condizionano l’affettività e l’accettazione di sé in età adulta. Spesso proprio da queste carenze emotive e affettive nella primissima fase della vita derivano percezioni alterate del proprio corpo: nei casi più gravi di abuso fisico o sessuale si verificano comportamenti di autolesionismo (tra cui tagli sul corpo e atteggiamenti distruttivi come dipendenze da alcol e sostanze, oppure disturbi alimentari), altre volte i traumi infantili possono sfociare in atteggiamenti aggressivi e violenti” (dai risultati di una ricerca condotta dall’Università di Bergamo sugli effetti dei traumi infantili sul cervello e pubblicata su Molecular Psychiatry ad aprile 2024). Ogni piccolo gesto può comportare grandi e gravi conseguenze. I genitori devono tenere ben presente che, in alcuni casi, la violazione degli obblighi matrimoniali o familiari può comportare il diritto a un risarcimento per “danno da illecito endofamiliare”, ricondotto alla responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. e al danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ..

Coppia: dapprima tra i due è un fatto chimico e fisico, poi man mano diventa un fatto “botanico”, perché bisogna coltivare, concimare, potare, innestare, pazientare... L’amore di coppia: può durare se ci si mette con impegno e cogliendo ogni segno, con spirito di sacrificio e reciproco sguardo. L’amore non è solo un fatto personale ma interpersonale perché riguarda il benessere di tutti e in particolare quello dei figli, come si evince dalla Carta di Ottawa per la promozione della salute e dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

“Si vede quando hai visto tuo padre e tua madre usarsi dolcezza, o non lo hai visto ma hai capito che era un loro pudore, roba loro, c’era un segreto tra di loro che coglievi nel loro sguardo, avevano una tensione bella, si desideravano, si volevano bene. Oppure quando non coglievi proprio niente, percepivi totale estraneità, assenza di contatto, distanza” (don Fabio Rosini). I bambini hanno bisogno di crescere nell’amore e di essere educati all’amore e non di essere circondati da amoreggiamenti, smancerie o scene intime e di essere chiamati a ogni piè sospinto e come qualsiasi altra persona “amore” o “tesoro”.

I figli non sono fili da tenere legati ma fili da intessere e ricamare nel meraviglioso arazzo della vita. “[…] inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori, della sua identità” (lettera c dell’art. 29 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia): nella relazione genitori-figli è importante lo sguardo, perché lo sguardo dei genitori deve essere generatore dell’identità dei figli, come figli e come persone.

Bambini e ragazzi hanno bisogno dello sguardo, dell’attenzione, di qualcuno che colga un loro particolare e che li accolga come sono, di vigilanza, di educazione dello sguardo, del cosiddetto sguardo pedagogico, ovvero di cura amorevole: questo è il senso profondo di casa cui far ritorno e riunirsi con i cari, e non delle cose che si comprano e si danno continuamente in casa. Questo è il contenuto del dovere di assistenza morale nei confronti dei figli (artt. 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.) e di quello che la psicologa Maria Beatrice Toro ha chiamato “diritto alla presenza consapevole” nell’elenco dei cinque nuovi diritti per l’infanzia (2016): “Ogni bambino ha diritto all’attenzione consapevole dei genitori”.

Come precisa lo psicologo Simone Olianti: “[...] lo sguardo può fare di noi esseri aperti alla vita oppure individui interamente ripiegati su noi stessi. Dipende da come guardiamo, dallo sguardo, appunto, che posiamo sull’altro, dalla cura che mettiamo in ogni parola, in ogni gesto, in ogni relazione. È il nostro sguardo che fa vivere l’altro o che lo nasconde; è lo sguardo dell’altro che ci chiama a rispondere della nostra umanità e che ci vivifica”.

La saggista Lucetta Scaraffia richiama: “E meno bambini ci sono in giro meno se ne sente la mancanza. Perché senza bambini non c’è nessuno a ricordarci, con la loro stessa grazia e dolcezza indifesa, quanto i bimbi sono belli, quanto incantano chi li guarda. Senza di loro non c’è nessuno a riscoprire la saggezza che si nasconde dietro le loro prime parole, articolate con incantevole fatica, o la gioia delle loro continue scoperte”. Meno male che ci sono i bambini che hanno uno sguardo diverso sulla realtà e che porgono una mano agli adulti per condurli nel loro mondo, che è il bello e il nuovo della vita, fin quando non è deturpato da qualche adulto.

L’arte dello sguardo: quel quid che rende autentici i rapporti, soprattutto quelli fondamentali, in famiglia e, poi, a scuola. 

Relazione educativa, educazione relazionale

Nell’art. 11 del Pilastro europeo dei diritti sociali (2017) si legge: “a. I bambini hanno diritto all’educazione e cura della prima infanzia a costi sostenibili e di buona qualità. b. I minori hanno il diritto di essere protetti dalla povertà. I bambini provenienti da contesti svantaggiati hanno diritto a misure specifiche tese a promuovere le pari opportunità”. Previsioni spesso disattese in Italia: si parla di “educazione alla cittadinanza europea”, di “bambini cittadini del mondo”, ma non sempre si ha un’adeguata cura della prima infanzia e della buona qualità dei servizi per questa fascia d’età, non si tiene conto delle crescenti forme di povertà, da quella educativa a quella socio-relazionale. I bambini sono sempre più soli, senza una rete parentale, tiranneggiati o tiranneggianti, o inseriti in un sistema scolastico spesso proiettato verso mete lontane e non attento alle esigenze concrete del singolo bambino.

La psicologa Anna Bertoni scrive: “La natura più profonda della persona è relazionale. Noi nasciamo da una relazione. La nostra qualità umana più specifica è la capacità di stare in relazione. Capiamo chi siamo e ci definiamo grazie alle relazioni che intrecciamo (il figlio rispetto ai genitori, la madre e il padre rispetto al figlio, l’amico rispetto all’amico...). Perciò è come se in questo momento vivessimo una sorta di analfabetismo relazionale”. Si ignora (e si calpesta) che la salute personale e della comunità “dipende” dalle sane relazioni con se stessi e con gli altri, come si ricava da più fonti, tra cui la Carta di Ottawa per la Promozione della Salute (1986). Tra i principali beni immateriali bisognerebbe annoverare i beni relazionali e investire di più e meglio nella famiglia e nell’educazione: così si fa prevenzione.

La formatrice Silvia Iaccarino spiega: “[…] nella relazione educativa tra genitore/educatore/insegnante e bambini, il tema della co-regolazione è centrale poiché lo sviluppo socio-emotivo segue una linea evolutiva che va da etero-regolazione ad auto-regolazione. Ovvero, è grazie alla guida sensibile e responsiva di un adulto mediamente sintonizzato con i vissuti del bambino/a che, quest’ultimo/a, nel tempo, svilupperà capacità, competenze e abilità nell’autoregolazione di emozioni e comportamenti. Sostanzialmente la co-regolazione, come processo eteroregolativo, crea le basi per un’equilibrata crescita socio-emotiva dei bambini e delle bambine”. Il segreto e la difficoltà nel relazionarsi educativamente con i bambini è entrare in sintonia con loro; bisogna padroneggiare le proprie “life skills” per far costruire, poi, ai bambini le loro competenze di vita, come l’autoregolazione. Si proclama di dare ascolto ai bambini ma spesso non si attivano nemmeno gli organi di senso nei loro confronti perché gli adulti sono distratti e attratti da altro.

Silvia Iaccarino continua: “Negli ultimi decenni, grazie a ricerche nel campo della psicologia, delle neuroscienze e delle scienze dell’educazione, questi concetti sono stati progressivamente superati.

L’idea che la disciplina debba passare attraverso la coercizione è stata sostituita dalla convinzione che l’educazione debba nutrire l’empatia, il rispetto e l’ascolto attivo. Le bacchettate sulle mani, stare nell’angolo con il cappello da somaro in testa, le minacce verbali e fisiche che i nostri nonni e genitori ricevevano erano punizioni violente fisicamente e degradanti, che sono sparite dalla nostra quotidianità. Ma la pedagogia nera è scomparsa del tutto? Anche se viviamo in una società che condanna apertamente la violenza fisica sui bambini, essa persiste in forme più sottili. Frasi come “fai il bravo o non ti voglio più bene” o atteggiamenti che minimizzano i sentimenti del bambino, come il classico “non è niente, smettila di piangere”, sono esempi odierni e attuali di questa eredità. Questi comportamenti sono meno evidenti, ma continuano a negare al bambino il diritto di esprimere le proprie emozioni e possono avere effetti duraturi sulla sua autostima e sulla capacità di relazionarsi con gli altri. Conoscere la pedagogia nera significa riconoscerne l’impatto sulla crescita dei bambini e sulla società. Superarla non vuol dire rinunciare a regole e confini, ma costruire un’educazione basata sull’ascolto, sull’empatia e sulla valorizzazione delle emozioni. È un percorso che richiede consapevolezza e formazione, ma che può portare a una relazione educativa più sana e arricchente”. In passato si applicava la cosiddetta “pedagogia nera”, oggi spesso, soprattutto nell’educazione familiare, non si applica alcuna pedagogia o si applica una “pedagogia grigia”, perché dilaga l’ineducazione che tira su “bambini tiranni” o, viceversa, ci sono genitori inadeguati centrati ancora sui loro irrisolti, come i genitori narcisisti. Rigore educativo non è mancanza di amore ma è dare e darsi regole nella relazione educativa, perché anche l’amore smodato può far male.

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro analizza una triste realtà: “Se, come spesso accade, siamo costretti ad andare incontro al mondo per essere accettati, la nostra avventura inizia nel più miserevole dei modi, sotto il segno dell’accattonaggio degli affetti, quella questua per un po’ di attenzione, del ‘sarò come tu mi vuoi’ pur di ottenere la benevolenza degli adulti”. “Accattonaggio degli affetti”: piuttosto frequente nelle famiglie di oggi da parte dei bambini per ricevere un oggetto desiderato (in una dinamica di consumismo relazionale), per sedare le discussioni tra i genitori, quando un genitore con più irrisolti cerca di modellare il figlio del proprio sesso, nei casi di patologia delle cure e così via.

A tale proposito il consulente educativo Marco Maggi sottolinea la necessità di “costruire un piano affettivo con i bambini” (in un webinar del 23 gennaio 2025). Nel concepire un figlio bisogna pure concepirsi come genitori, chiedersi che tipo di genitori si vorrà essere, come porsi, come comunicare e così man mano che cresce il figlio. Anche in ogni relazione educativa gli adulti dovrebbero darsi un piano affettivo anziché pianificare la vita altrui.

Il pedagogista Fabio Olivieri evidenzia: “Oggi anche se ci incontriamo non ci riconosciamo l’un l’altro per quello che siamo, perché c’è un disempowerment relazionale” (in un webinar del 14 ottobre 2024). Tra le competenze per la vita, stabilite dall’OMS già nel 1993, vi sono le competenze relazionali, che comportano pure il “pettinare le relazioni”. Si nasce da una relazione, l’educazione è la relazione primaria umana, si ha diritto alle relazioni, eppure le relazioni sono sempre più “malate” e si è sempre più incompetenti a livello relazionale, a cominciare dai genitori.

Lo psicologo Simone Olianti lancia un messaggio di “psicologia positiva”: “La bellezza - ci ricorda Albert Camus - non fa rivoluzioni. Ma viene il momento in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza. Riscoprire la bellezza significa ripartire dai sentimenti e dalla passione di vivere: la vita non cresce, non matura per ingiunzioni o divieti, ma per seduzioni. E la seduzione, l’attrazione, la passione nascono dalla bellezza. E dalla poesia, che ci serve, sempre di più, disperatamente”. Come deve essere orientata oggi la rivoluzione educativa, la relazione educativa.

Nella relazione insegnamento-apprendimento gli insegnanti, prima di occuparsi di educazione emotiva, devono (o dovrebbero): “1. Sapere, ovvero acquisire una serie di conoscenze scientificamente fondate e aggiornate sulle emozioni che si manifestano in bambini e ragazzi nei primi anni di vita e fino alla fine del ciclo della scuola secondaria; 2. Saper essere, ovvero sviluppare una maggiore consapevolezza del proprio stile relazionale nel rapporto con le emozioni di allievi e studenti, soprattutto in presenza di comportamenti sfidanti, oppositivi o problematici; 3. Saper fare, ovvero apprendere alcuni strumenti operativi per il riconoscimento, la modulazione e la gestione degli stati emotivi di bambini e ragazzi in tutto il loro percorso di crescita a scuola, a casa e in altri contesti di vita quotidiana” (cit.). Non è sufficiente insegnare, voler insegnare, ma è indispensabile saper insegnare, prepararsi a insegnare e non semplicemente preparazione la lezione o il materiale didattico o l’ambiente.

“Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, a prescinderne dalle frontiere, sia verbalmente che per iscritto o in forma artistica o mediante qualsiasi altro mezzo scelto dal fanciullo” (art. 13 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Affinché i bambini possano esprimersi (letteralmente “stringere, far uscire premendo”), è necessario che venga prima fornito loro un bagaglio culturale, emozionale, relazionale e, quindi, di persone che diano loro questo.

Affidamento condiviso: una lettura del ddl 832

Sintesi: Una lettura del disegno di legge, all’esame della commissione Giustizia del Senato, alla luce dell’interesse superiore del fanciullo

Durante la XIX legislatura è stato presentato il ddl 832 “Modifiche al codice civile, al codice di procedura civile e al codice penale in materia di affidamento condiviso”, che vorrebbe applicare il vero affidamento condiviso e la cosiddetta bigenitorialità perfetta in caso di separazione/divorzio. Il suddetto disegno ha da subito suscitato non poche polemiche da più fronti, per la delicata materia (si pensi al lungo e travagliato iter della legge 8 febbraio 2006 n. 54 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”) che era stata oggetto di un precedente disegno aspramente criticato e non approvato.

Per evitare una lettura faziosa o etichettante bisogna leggere il testo alla luce della ratio legis cercando di coglierne la portata innovativa e interpretando (etimologicamente da “inter” e “pretium”) locuzioni e concetti giuridici.

L’inserimento del doppio domicilio del figlio dei separati/divorziandi (art. 1 ddl) non porta a uno sdoppiamento o peggioramento della vita del figlio ma potrebbe favorire l’esercizio del vero “diritto alla casa” del figlio (diritto di cui si trovano tracce nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, innanzitutto nell’art. 16), del vero domicilio nel senso codicistico, quale sede principale degli affari e degli interessi (ovvero della vita quotidiana) e del senso etimologico di domicilio, composto di “domus”, casa, e “colere”, abitare, in altre parole il figlio non sarebbe o non si sentirebbe più solo in visita per il fine settimana o ospite per le vacanze presso l’altro genitore non collocatario.

Degno di attenzione l’art. 2 del ddl: “All’articolo 147 del codice civile, le parole: «Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli» sono sostituite dalle seguenti: «La filiazione impone pariteticamente ai genitori l’obbligo di provvedere alla cura, all’educazione, all’istruzione e all’assistenza morale dei figli»”. Riformulazione dell’art. 147 che si aspettava già dai tempi della riforma del diritto di famiglia e che si rifà al dettato dell’art. 30 della Costituzione in cui si parla del diritto e dovere dei genitori indipendentemente dal matrimonio. In tal modo si darebbe “soggettività” ai figli e il rapporto genitori-figli è già inteso come “affidamento condiviso” proprio come nella sua natura di rapporto di fiducia (“affidamento” dal latino “fides”) e in linea anche con il riconoscimento del principio secondo cui i genitori hanno comuni responsabilità in ordine all’allevamento ed allo sviluppo del bambino (art. 18 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Apprezzabile la sostituzione dell’obbligo di mantenere i figli con quello di provvedere alla cura, che è il fulcro della genitorialità.

L’introduzione della mediazione familiare obbligatoria non sarebbe così “deleteria” visto che esiste già in altri ordinamenti giuridici e risponde ad altri provvedimenti previgenti, tra cui il Piano nazionale per la famiglia (adottato il 10 agosto 2022) in cui si legge: “Realizzare forme di supporto alle coppie e famiglie, per favorire una migliore comunicazione e gestione dei conflitti, anche in ordine alla problematica minorile”. Accettabile la spiegazione che viene data: “L’impoverimento di tale strumento è stato concordemente biasimato da tutti gli operatori del settore, che hanno reiteratamente segnalato i vantaggi di prevedere quale preliminare adempimento la mera informazione (pre-mediazione) sulle potenzialità di un eventuale percorso di mediazione prima di qualsiasi contatto con la via giudiziale. D’altra parte la previsione di tale fase extragiudiziale è in accordo con la riconosciuta generale esigenza di alleggerire il carico dei tribunali. Per l’incontro iniziale è prevista in ogni caso la gratuità, in modo da rendere il passaggio accessibile a chiunque. Inoltre, per eliminare ogni preoccupazione circa il rischio di incontrare ex partner dei quali non sia stata ancora allegata la violenza (altrimenti la mediazione è esclusa), le parti potranno richiedere di incontrare il mediatore separatamente”. In più, la mediazione familiare non è obbligatoria tout court perché sono previste varie “clausole di salvaguardia”, per esempio: “L’intervento di mediazione familiare può essere interrotto in qualsiasi momento da una o da entrambe le parti” (art. 13 ddl).

“Il nuovo articolo 316-ter del codice civile incrementa la tutela delle madri non coniugate estendendola anche ai casi di morte del nascituro. Nello specifico, dispone che se al momento del parto i genitori non sono coniugati e non convivono, il padre deve condividere con la madre ogni spesa relativa al parto e, nel caso in cui quest’ultima non abbia sufficienti risorse economiche, provvedere al suo mantenimento per un periodo di tre mesi”. Questa (e altre previsioni o novelle) non costituiscono un ritorno al passato e una considerazione della donna solo per il suo ruolo materno ma, piuttosto, un’attuazione dell’art. 31 della Costituzione, una responsabilizzazione del padre e un accoglimento della cosiddetta “sindrome perinatale” che coinvolge anche il padre. Come si è tenuto conto di entrambi i genitori nella Carta dei diritti del bambino nato prematuro (approvata dal Senato della Repubblica il 21 dicembre 2010).

Promuovere il vero affidamento condiviso e una paritetica bigenitorialità in caso di separazione/divorzio non è da intendersi come attribuzione di più poteri al padre, perché non si devono dimenticare le lotte delle madri soprattutto in passato per il riconoscimento della paternità e quelle continue in caso di violazione degli obblighi di assistenza familiare, situazione tutelata oggi dall’art. 570 bis cod. pen. “Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio”.

La bigenitorialità o, ancora meglio, la cogenitorialità dovrebbe essere intesa semplicemente come genitorialità perché iscritta nello statuto stesso della filiazione o figliolanza, come si evince dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, per esempio nell’art. 7 par. 1 diritto del fanciullo ad un nome e a conoscere in propri genitori ed essere da essi accudito, nell’art. 9 “entrambi i genitori, nell’art. 10 “suoi genitori”. Significativo, tra l’altro, quanto sancito nell’art. 8.11 della Carta europea dei diritti del fanciullo (Risoluzione A3-0172/92): “ogni fanciullo ha il diritto di avere dei genitori o, in loro mancanza, di avere a sua disposizione persone o istituzioni che li sostituiscano; il padre e la madre hanno una responsabilità congiunta quanto al suo sviluppo e alla sua istruzione; è loro obbligo prioritario procurare al fanciullo una vita dignitosa”.

Il disegno di legge, come ogni altro testo (legislativo e non), è perfettibile, sempre tenendo presente che, come in tutte le decisioni riguardanti i fanciulli, l’interesse superiore del fanciullo deve costituire oggetto di primaria considerazione (art. 3 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Quell’interesse superiore del fanciullo richiamato espressamente in pochi altri articoli nella Convenzione e proprio nell’art. 18 relativo ai genitori ove, nel par. 1, è scritto: “Nell’assolvimento del loro compito essi debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo”. A proposito di “interesse” (letteralmente “ciò che sta in mezzo”) nell’art. 3 del ddl si prescrive: “All’articolo 316, primo comma, del codice civile è premesso il seguente periodo: «La responsabilità genitoriale è l’insieme dei diritti e dei doveri dei genitori che hanno per finalità l’interesse dei figli »”. Un tentativo apprezzabile di prevenire o arginare quella mentalità adultocentrica (altra critica mossa al ddl) che, talvolta o spesso, emerge nelle scelte delle coppie, di coniugi, di partner o di genitori.

E si ricordi quanto scritto in tutta la Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori (2018), in particolare la rubrica del punto n. 1: “I figli hanno il diritto di continuare ad amare ed essere amati da entrambi i genitori e di mantenere i loro affetti”.