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Intorno agli adolescenti

Sintesi: L’adolescenza è, fra tutte, l’età umana dell’ermetismo

Abstract: L’articolo si propone di esplorare gli spazi, sia quello esterno sia quello interno, degli adolescenti, offrendo agli adulti una chiave di lettura di questa fase della vita

 

Tra gli scritti più acuti e sempre attuali sugli adolescenti spiccano quelli della filosofa spagnola Maria Zambrano: “L’adolescenza è, fra tutte, l’età umana dell’ermetismo. Da qui la violenza, l’angoscia, la finta mancanza di preoccupazioni che patisce e con cui si presenta. Il mondo è troppo pieno per colui che viene dall’infanzia senza essere ancora entrato in quella certa apertura che dà la gioventù. L’adolescenza patisce della mancanza di spazio, del pieno del mondo che lo circonda e del pieno del suo proprio mondo interiore formato dai suoi sentimenti, dai suoi pensieri, dalla chiusura della parola dentro di lui. Patisce, per un modo nuovo di stare nel tempo che lo distingue sia dal tempo dell’infanzia, sia dal tempo che l’attende: quello della gioventù”. Bisogna accostarsi nei confronti dell’adolescenza come si fa per l’ermetismo in poesia: capacità di interpretazione, silenzio, ascolto, pathos, non omologazione. L’adolescenza è una prova delle competenze genitoriali e adulte in generale, è uno step per la genitorialità.

 

Maria Zambrano aggiunge: “E gli adulti dovrebbero guidare con pazienza e sottigliezza l’animo dell’adolescente verso la scoperta del fatto che, quasi sempre, quando ci si sente defraudati dalla vita è perché la si defrauda da sé: non vi è frode più seria di quella che si fa a se stessi”. Ci si deve avvicinare agli adolescenti non per impartire lezioni di vita ma per proporre letture dello stesso libro della vita, per condividere lo stesso magone che procura l’andare avanti verso l’ignoto.

 

L’adolescenza può essere considerata una forma di lutto, perché durante la metamorfosi (che è la morte del bruco) il ragazzo vive la morte dell’infanzia e la morte dell’immagine perfetta dei genitori. Anche per questo è ancor più necessario che i genitori educhino, man mano, alla morte (cosiddetta Death Education). La psicoterapeuta Maria Luisa Algini spiega: “La differenza fondamentale tra il lutto degli adulti e quello dei bambini è che i primi possono riconoscere il dolore con le categorie di pensiero che possiedono, con le quali danno un nome alle loro emozioni, mentre i bambini non possono farlo senza l’aiuto di un adulto che li accompagni e offra gli strumenti interpretativi di cui essi hanno bisogno. Il dolore infantile, quanto più è intenso, tanto più resta un segreto che i bambini nascondono anzitutto a se stessi. Perché devono poter crescere e attingere risorse come e dove possono. Salvo poi lasciarlo debordare attraverso segnali oscuri e preoccupanti” (in “Le ferite invisibili. Sui bambini e la morte dei genitori”, 2016). “Quando i diritti del bambino o dell’adolescente sono negati da condizioni dell’esistenza inique, quando i suoi punti di riferimento sono compromessi, è possibile aiutarlo a ritrovare la fiducia nella vita e la stima di sé. 

 

Il bambino possiede in lui importanti risorse. Esse si rivelano se egli può dialogare, essere ascoltato con affetto e rispetto, essere difeso” (dalla Charte du BICE, Paris 2007).

 

Un altro problema che esplode durante l’adolescenza è il bullismo di cui si “pre-occupano” in tanti. Denuncia e contrasto del fenomeno del bullismo; fare “squadra” contro paura e omertà; tentativi di reintegrazione del bullo nella società; uso dell’arte per canalizzare l’energia del bullo; concetto dell’amicizia e del perdono; relazioni in classe e nel gruppo di amici; amori adolescenziali. Questi i messaggi del “romanzo sinfonico” (libro cartaceo arricchito da contenuto digitale), “La teoria della Giostra – Storia di un bullo salvato dalla musica” (2021) del musicologo Giacomo Sances (il cui slogan è “La musica commuove, la musica libera, la musica trasforma!”). I ragazzi hanno bisogno di questo, di musica o di altre forme di arte e non di spettacolarizzazione di ogni cosa.

 

Dalla seconda Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia (condotta, tra il 2018 e il 2020, da Terre des Hommes e CISMAI, per conto del Garante nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza), risulta che la forma di maltrattamento principale è rappresentata dalla patologia delle cure (incuria, discuria e ipercura) seguita dalla violenza assistita. La famiglia, purtroppo, può essere la prima fucina di violenza, spesso invisibile e inconsapevole, perché i genitori calpestano i sogni dei figli, ignorano i loro veri bisogni, ne anticipano i desideri, si sostituiscono in tutto, pensano solo a cose materiali, non chiedono il parere in caso di trasloco o altre decisioni. “Si registra una grande difficoltà nel riconoscere l’esistenza della violenza ai danni dell’infanzia, difficoltà che si riflette a tutti i livelli: nella società nel suo complesso, nelle città e nei paesi, nelle scuole e nelle singole famiglie. La reazione collettiva e individuale, legata a fattori culturali, educativi e relazionali, ampiamente documentata anche a livello scientifico, coincide sovente con un meccanismo di negazione e di minimizzazione del fenomeno. Guardare alla violenza nei confronti dei più piccoli costringe a riconoscere una realtà drammatica, così come impensabile è che essa sia posta in essere da chi avrebbe l’incarico e la responsabilità di proteggere e guidare una crescita armoniosa dei bambini e degli adolescenti. Riconoscere che ciò avvenga nella società alla quale apparteniamo, nella comunità locale e all’interno delle famiglie, come purtroppo ci riportano le ricerche del settore, impone un processo di presa di coscienza difficile e doloroso” (dal Capitolo 1 del report della seconda Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia, pubblicata ad aprile 2021).

 

Lo sfruttamento minorile non consiste solo nel far lavorare i bambini prima del tempo consentito ma anche “sfruttare” la loro immagine, il loro tempo, le loro prestazioni per soddisfare sogni, aspettative, programmi degli adulti sia in famiglia sia a scuola sia in altri settori, per esempio recite scolastiche o attività sportive agonistiche, velleità artistiche scelte e praticate solo per compiacimento degli adulti, genitori o altri adulti di riferimento. Ci si lamenta, poi, quando gli adolescenti non si impegnano, implodono, vivono di immagine e di immagini, non coltivano sogni, sono materialisti dimenticando che qualche adulto li ha indotti o ridotti a diventare così.

 

I giovani non hanno bisogno di sermoni ma di parole feconde ispirate e ispiranti coraggio e responsabilizzazione. Nelle Linee guida sull’infanzia e l’adolescenza (a cura dell’AICS, giugno 2021) si legge al punto 4.9: “[…] la comunicazione deve promuovere autostima e fiducia nei minori e presentarli come protagonisti attivi delle proprie storie e del cambiamento positivo nel mondo; nel dare voce ai minori, occorre evitare che questa sia il mero riflesso di prospettive instillate dagli adulti”.

Il rapporto tra adulti e giovani generazioni dovrebbe basarsi sulla responsabilità, parola e atteggiamento da recuperare: essere consapevoli della responsabilità che si ha nei confronti di bambini e ragazzi per responsabilizzarli a loro volta. Nelle Linee guida sull’infanzia e l’adolescenza (a cura dell’AICS, giugno 2021) è ripetuto più volte l’appello alla responsabilità e, tra l’altro, si legge: “Promuovere un percorso di appropriazione di responsabilità e consapevolezza del ruolo che ognuno è chiamato ad avere nella promozione di valori universali quali la giustizia, l’uguaglianza, la dignità e il rispetto” (punto 4.3.2 “Educazione alla cittadinanza globale”).

 

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro scrive: “I ragazzi e le ragazze, oggi come ieri, starebbero a lungo in bagno se l’organizzazione familiare e i loro stessi impegni lo consentissero. Del resto un tempo le abluzioni, l’evacuazione, la cura del corpo erano considerate attività sacre da svolgere con lentezza, con tutto il tempo necessario. Ma dietro quella porta chiusa troppo a lungo, l’adulto sospettoso (perché ricorda cosa faceva lui a quell’età, quando poteva chiudersi in bagno) non pensa a nulla di sacro ma a molto di peccaminoso, fumo, masturbazione e chissà che altro. Ma il ragazzo o la ragazza hanno bisogno talvolta di stare semplicemente seduti sul water a leggere o davanti allo specchio per osservarsi, piangere, fare le boccacce, tentare di ovviare o compensare difetti, simulare emozioni (rabbia, gioia, amore, spavento...) o atteggiamenti seduttivi o spavaldi. Le operazioni routinarie della toilette sono un’occasione per toccarsi, manipolarsi, accarezzarsi. L’esplorazione del corpo, in adolescenza, avviene sì nella riservatezza della stanza da bagno ma avendo sempre bene in mente che quel corpo dovrà uscire nel mondo, perché a quell’età bisogna essere all’altezza dell’ambiente che frequentiamo, del gruppo dei pari, ed essere almeno accettati se non proprio ammirati o amati. E qui l’ansia per reali o presunte nostre deficienze, troppo o troppo poco, troppo lungo o troppo corto, troppo grasso o troppo magro, quel troppo e quel poco che presuppongono standard di riferimento che è il mondo esterno a imporci”. I figli, in particolare durante l’adolescenza, hanno diritto alla loro vita privata, a entrare in sintonia con loro stessi, andare oltre la loro pelle, cogliere la differenza tra corpo e corporeità, perché sin dalla nascita invece sono in qualche modo “oggettivizzati” perché vengono mostrati come figli, vestiti, puliti, nutriti, accompagnati e così via, anche oltre il necessario. È una questione di salute e libertà.

 

E l’adolescenza è un’istanza di salute (letteralmente “salvezza”) e libertà (nel diritto romano “libero” era chi nasceva da genitori liberi) da parte della vita stessa, di ciclo in ciclo.

Genitorialità, generosità e onerosità

Abstract: Cosa significa essere genitori? L’articolo tenta di dare una risposta attraverso diversi piani di lettura.

Fare i genitori è sempre stato difficile ma nella società ipercomplessa e iperconnessa lo è ancora di più, per cui molti decidono di non farlo non diventando genitori o desistono dal farlo diventando genitori arrendevoli, assenti o altro.

“Lasciare il mondo un poco migliore, / Che sia un bambino sano, / Un giardino fiorito / Una situazione di degrado riscattata. / Sapere che almeno una vita ha avuto un respiro più facile / Perché c’eri tu. / Questo è avere successo” (lo scrittore Ralph Waldo Emerson): così dovrebbe essere la genitorialità.

È nella natura dei genitori fare errori ma c’è qualcuno che ne commette qualcuno in più e anche grossolanamente, soprattutto quando non si mette in ascolto (e non sulla difensiva) di chi glielo fa notare e dei figli stessi (e non dei loro capricci e dei loro “voglio” o “non mi piace”). Uno degli articoli più significativi della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia è l’art. 5 in cui si legge “responsabilità, diritti e doveri dei genitori” e al tempo stesso “famiglia allargata” e “comunità”, per cui per arginare gli errori e sentirsi più sostenuti nella genitorialità bisognerebbe fare “rete familiare” di cui si parla.

I genitori, più che essere apprensivi nei confronti dei figli, dovrebbero apprendere dai figli, perché i figli richiedono pazienza, entusiasmo, fiducia, concisione e altri atteggiamenti e strumenti che, quindi, si imparano solo nell’esercitare la genitorialità con i figli che si hanno di fronte e non quelli idealizzati o desiderati. Essere genitori è guidare i figli ma anche farsi guidare da loro (come si ricava anche leggendo tra le righe la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, specialmente l’art. 18).

I genitori non possono essere e non devono aspirare a essere perfetti ma genitori per, con e di quel figlio, di quei figli. La genitorialità non è perfezione da manuale, ma una relazione fatta di situazioni, reazioni ed emozioni, in base al momento, di momento in momento.

Il sociologo Donati Pierpaolo scrive: “Da tempo si stanno diffondendo varie modalità di avere un figlio, che prescindono dalla relazione fra due genitori naturali, mediante tecniche di laboratorio che combinano i gameti maschili e femminili ricevuti da varie persone. Ci si chiede allora: in queste condizioni, chi o che cosa genera un figlio? Chi è “genitore”? Lo è chi dona il materiale biologico, o lo sono i tecnici del laboratorio, o chi si assume il compito di prendere con sé e allevare il nascituro? La risposta deve essere data dal punto di vista del figlio, e non solo dal lato della genitorialità. L’identità personale del figlio giace nella relazione fra coloro che lo hanno generato. 

Chi genera non sono gli individui come tali; chi genera è la loro relazione. Questo è il punto che bisogna comprendere: ciò che qualifica come umana la generazione di un figlio è la struttura uomo-donna e la qualità intersoggettiva di quella relazione. Infatti, per portare i cambiamenti indotti nella procreazione dalla tecnologia ad essere virtuosi e non patologici, occorre prendere atto che le relazioni sono una cosa seria, cioè sono il fondamento della nostra realtà umana, in tutte le sue dimensioni, culturali, psicologiche, sociali, giuridiche. Il rischio è allora quello che le moderne tecnologie finiscano per frantumare, sbriciolare le relazioni, rimuovendo così anche quello che definisce l’“enigma della relazione tra generante e generato”, da cui in definitiva dipende la nostra personale identità” (in “Generare un figlio. Che cosa rende umana la generatività?”, 2017). In particolare dagli artt. 7, 8 e 9 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si ricava come i “propri genitori”, la “propria identità” e le relazioni familiari siano correlate e fondamentali per il bambino.

Lo psicoanalista Massimo Recalcati ha affermato: “I genitori adottivi coincidono con l’essenza della genitorialità” (nella lectio magistralis del 15 febbraio 2020 a Matera). Tutti i genitori dovrebbero comportarsi come quelli adottivi: seguire un lungo iter di preparazione, accogliere figli con la consapevolezza che non appartengono a loro, essere pronti a tutto (per esempio, nel caso dell’adozione, la ricerca dei genitori biologici da parte del figlio) e altro ancora.

Secondo i sociologi Chiara Giaccardi e Mauro Magatti “[...] l’essere umano non domina la natura, ma dal suo grembo è stato generato: da questa consapevolezza dobbiamo partire per provare dunque a costruire un mondo e delle relazioni differenti, che ci permettano di trovare un equilibrio continuamente da ripensare. Un equilibrio che tenga conto di confini permeabili che, pur salvaguardando la nostra identità, permettano quello scambio continuo che è alla base della vita”. In egual modo la genitorialità e ogni relazione educativa sono una continua ricerca e costruzione di equilibrio tra “confini permeabili”.

Tra gli stili genitoriali inadeguati sono quelli dei cosiddetti “genitori performanti” e “genitori ipercritici”. In entrambi i casi i genitori sono preoccupati dei risultati, tendono a intervenire troppo e a vedere le situazioni dal loro punto di vista e non considerano i figli nella loro soggettività. Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si parla di “allevare” (= sollevare) il bambino e che il bambino non deve essere sottoposto a “interferenze arbitrarie” (art. 16 Convenzione) e questi parametri dovrebbero guidare i genitori e dare loro la misura dell’esercizio della genitorialità.

La formatrice Silvia Iaccarino spiega: “Quando un adulto è a disposizione, nel contesto attuale, rischia di diventare un genitore elicottero o spazzaneve, una figura che accorre in salvataggio alla minima difficoltà oppure spiana la vita dei figli e delle figlie per renderla liscia e senza ostacoli. Appena il bambino, la bambina, ha una fatica o un inciampo, il genitore corre in suo aiuto 

e a volte si sostituisce. Insomma, un’eccessiva oblatività dell’adulto verso il bambino/a. Questo atteggiamento non aiuta, perché scioglie i confini personali dell’adulto e non permette al bambino/a di sperimentarsi nell’attraversare le fatiche e le contrarietà della vita. Un genitore presente all’eccesso nella vita dei bambini e delle bambine è una persona che trasmette un modello di adulto sacrificale, che è sempre pronto a mettersi in secondo piano per i figli e le figlie. Un modello non favorevole: il bambino, la bambina potrebbe pensare che ogni adulto sia al suo servizio, pronto a risolvere qualsiasi problematica, da un lato e, dall’altro, potrebbe non incorporare l’idea di poter a sua volta stabilire dei confini personali”. In passato gli adulti si facevano aiutare dai bambini nel fare i servizi domestici e li educavano a eseguirli, oggi invece gli adulti sono così servizievoli nei confronti dei bambini da sembrare meri esecutori dei loro ordini e capricci (cosiddetti “bambini tiranni” o “con la sindrome dell’imperatore”) e così imparano negativamente a “servirsi delle persone”. Un paradigma per una “sana” genitorialità è l’art. 27 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, innanzitutto la locuzione “nei limiti delle loro possibilità e delle loro disponibilità finanziarie” (i genitori non devono annientarsi per fare o dare l’inverosimile).

Il sociologo Francesco Belletti commenta: “Per affrontare la tragedia dell’inverno demografico quindi non bastano i sostegni economici: serve una vera rivoluzione culturale, che trasformi il tema puramente demografico della natalità nel valore sottostante, la generatività. La demografia interessa ai governi e alle aziende, la generatività è il movimento di libertà di una coppia di giovani che scommettono sulla bellezza della vita. Solo l’azione di questa libertà renderà il nostro popolo più capace di accogliere nuove vite. È la generatività, inoltre, che sa superare la pura genitorialità biologica, diventando accoglienza anche a chi una famiglia non ce l’ha, offrendo una famiglia attraverso adozione, affido e ogni altra forma di accoglienza familiare. Perché ogni nuova vita è una risorsa per l’intera società, e ha diritto all’accoglienza non solo dei propri genitori naturali, ma da parte dell’intero villaggio umano” (in un articolo del 26-01-2022). L’inverno demografico che caratterizza i cosiddetti paesi occidentali è determinato non tanto dalla preoccupazione dell’esaurimento delle risorse quanto dalla mancanza della generatività dell’amore. I bambini hanno semplicemente “un diritto innato alla vita” (art. 6 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e di “crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” per il pieno ed armonioso sviluppo della loro personalità (dal Preambolo della Convenzione).

Massimo Recalcati aggiunge: “Nell’Antico Testamento donne come Sara, Rachele erano sterili ma, poi, sono diventate madri in tarda età per un miracolo, per la generatività della parola”. I figli, i bambini sono il miracolo della vita, della sua forza autopoietica.

La respons-abilità genitoriale

Abstract: L’articolo mette in luce le lacune nel rapporto genitori – figli evidenziando l’esigenza sociale che gli adulti assumano consapevolmente il proprio insostituibile ruolo educativo

Attualmente molti esperti di scienze umane, dal diritto alla pedagogia, si occupano della genitorialità. Tra questi lo psicoanalista Massimo Recalcati: “Il mestiere del genitore non può essere ricalcato su di un modello ideale che non esiste. Ciascun genitore è chiamato a educare i suoi figli solo a partire dalla propria insufficienza, esponendosi al rischio dell’errore e del fallimento. […] I genitori peggiori – quelli che fanno più danni ai loro figli – non sono solo quelli che abbandonano le loro responsabilità, evadendo il compito educativo che spetta loro, ma anche quelli che misconoscono la loro insufficienza. […] Nell’attualità non prevale tanto il genitore-educatore, ma il suo rovescio speculare: la figura del genitore-figlio. Si tratta di quei genitori che abdicano alla loro funzione, perché sono troppo prossimi, troppo simili, troppo vicini ai loro figli. […] si assimilano simmetricamente alla giovinezza dei loro figli” (in “La confusione delle generazioni - Il compito dei genitori” da “Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre”, 2013). Sempre più genitori sono “genitori-figli”: piangono quando i figli devono essere sottoposti ai vaccini, sono turbati quando vedono piangere i figli nel momento del distacco all’ingresso nella scuola dell’infanzia, hanno gli stessi gusti musicali dei figli sin da piccoli e così via. Sono invalse l’adultizzazione dei bambini e l’infantilizzazione degli adulti, nonostante gli accorati appelli inascoltati degli esperti. I genitori, invece, devono porsi in una posizione asimmetrica. Devono innanzitutto avere la consapevolezza dell’essere genitori che comporta essere educatori (che richiede il correggere e l’intervenire) dei propri figli e non amici (che sono complici e ammiccanti). Si ricavano varie indicazioni anche dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare dall’art. 18 relativo al ruolo dei genitori, ove si parla di “allevamento” e “sviluppo” del bambino: i genitori devono avere la posizione e la forza di tirare su e fuori e per questo occorre essere “più alti” e “più grandi”.

La situazione giuridica della potestà genitoriale è stata sostituita (ed esautorata) dalla responsabilità genitoriale. La responsabilità, oltre ad essere una figura giuridica, è la capacità di dare risposte di vita, risposte alla vita. Presuppone coscienza, consapevolezza, contezza di sé, in altre parole adultità della propria personalità e anche del rapporto di coppia. “Il dolore, il male e la morte in sé sono forme di tradimento della promessa che la vita porta in sé. Promessa di giorni buoni e pieni di senso da trascorrere nella serenità possibile. Solo dentro questa promessa possiamo generare figli e speranza” (la scrittrice Mariapia Veladiano).

Si potrebbe parlare di una sorta di responsabilità pre-genitoriale. “Innamorarsi della persona sbagliata se non è una colpa, è comunque una responsabilità!” (la scrittrice Ilaria Guidantoni, a Matera il 29-11-2013). A ogni libertà corrisponde altrettanta responsabilità, anche quella di procurare sofferenze ad eventuali figli e al resto del parentado.

La disciplina della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio, formulata negli artt. 315 e ss. cod. civ., come novellati dalla L. 10 dicembre 2012 n. 219 “Disposizioni in materia di riconoscimento di figli naturali” che ha eliminato la potestà genitoriale e determinato la riforma della filiazione, sembra rispecchiare il “principio responsabilità” del filosofo tedesco Hans Jonas, secondo cui, tra l’altro, la relazione genitori-figlio è l’archetipo della responsabilità non reciproca, per cui le future generazioni non hanno la possibilità di esercitare un contro-potere di compensazione in quanto qualunque cosa facciano, metteranno in atto la legge imposta alla loro esistenza dal potere che ha governato il loro ingresso nel mondo. Stando a questa teoria, ai genitori, quindi, non sarebbe più attribuita alcuna potestà perché i figli sono i titolari del potere della vita e detentori del futuro ma nulla toglie che essi siano tenuti al rispetto, come si ricava dall’art. 315 bis ultimo comma cod. civ.. I figli devono condurre la propria vita come un’automobile nella quale, però, devono sempre volgere lo sguardo agli specchietti retrovisori.

Lo psicologo e psicoterapeuta Osvaldo Poli spiega: “Non si può fare il genitore di chi si rifiuta di riconoscersi figlio. Eppure, esiste un modo di amarli, nonostante tutto, dentro il dolore dell’impotenza … Si può essere sereni anche nel dolore, perché la serenità non dipende dagli esiti (quelli dipendono dal figlio), ma dal proprio dovere compiuto fino in fondo. Invece di corrergli dietro, ci si dispone ad attenderlo, nella speranza sempre viva che le circostanze della vita lo aiutino a capire ciò che non ha voluto apprendere. C’è molto amore nell’attesa” (in “Aiuto, ho un figlio impossibile. Come sono i caratteri difficili e come si gestiscono”, 2019). Essere genitori è aspettare e non aspettarsi e, purtroppo, la novella legislativa del decreto legislativo 28 dicembre 2013 n. 154, abolendo ogni riferimento alla potestà e riferendosi solo alla responsabilità genitoriale (art. 316 cod. civ. come sostituito) ha caricato ancor di più i genitori esponendoli a critiche e rivendicazioni dei figli, “giudici inclementi e inappellabili”.

Il filosofo canadese Jean Vanier afferma: “La relazione è una ferita, ma noi nasciamo da essa”. Ai figli, e in genere ai bambini, bisogna prevenire ma non impedire le ferite, da quelle fisiche a quelle relazionali, perché la storia di ognuno è tracciata anche da ferite. “Ogni bambino ci dice a suo modo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama alla nostra responsabilità” (dalla Charte du B.I.C.E., Parigi, giugno 2007).

“Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo disperatamente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile!” (il poeta Rainer Maria Rilke, in una lettera

del 1925). Basta una parola per portare nella vita degli altri un po’ di miele o un’altra parola per portare fiele: così la sensibilità e la responsabilità dei genitori, “api dell’invisibile” nella vita dei figli e nella vita in generale.

“Ritrovare il senso della responsabilità personale, e insegnarla ai più piccoli, è la più grande sfida di questo secolo” (lo scrittore Bruno Ferrero). Vivere è con gli altri. Con gli altri si manifesta la propria personalità e si sperimenta la propria libertà. Responsabilità è saper esprimere la propria personalità e gestire la propria libertà. Non è vero che non si fa niente o non si può fare niente nella vita degli altri; con la propria vita si incide sempre nella vita degli altri, con l’esserci o col non esserci, nel bene e nel male: a cominciare dai genitori e soprattutto genitori e educatori, che sono i primi e più significativi a dare e dire la vita e della vita.

Il bioeticista Paolo Marino Cattorini scrive: “La miseria, la fame, la malattia, il confino trasformano a volte le vittime in carnefici. Si trova sempre qualcuno più fragile, su cui riversare le torture subite. Il compatimento retorico non è l’atteggiamento educativo consigliabile verso chi si vendica cinicamente e brutalmente dei torti patiti nella lotteria naturale e sociale. Si può uscire da questa deriva morale? E come”. Bisogna credere e investire di più nelle relazioni umane, nell’infanzia dell’umanità.

“La nostra responsabilità è quella di non fingere. Non possiamo essere qualcosa che non siamo” (cit.). Essere se stessi: le foglie fanno le foglie fino alla fine, anche quando ormai secche e trasportate dal vento, allietano le giornate autunnali con i loro colori. Così genitori e figli restano tali, nelle gioie e nei dolori. Di questo devono avere consapevolezza tanto i genitori quanto i figli.

La Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 22541 del 10 settembre 2019 relativa a un episodio di bullismo, sulla responsabilità gravante su genitori dei minori ai sensi dell’art. 2048 cod. civ., ha chiarito che la prova liberatoria loro richiesta dal terzo comma della norma codicistica coincide con la dimostrazione: a) di aver impartito al minore una educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari; b) di aver esercitato su di esso una vigilanza adeguata all’età e finalizzata a correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di un’ulteriore o diversa opera educativa. A tal fine, si legge nell’ordinanza, non è certamente necessario che il genitore provi la costante ininterrotta presenza fisica accanto al figlio (pena la coincidenza dell’obbligo di vigilanza con quello di sorveglianza di cui all’art. 2047 cod. civ.). Occorre, piuttosto, che per l’educazione impartita, per l’età del figlio e per l’ambiente in cui egli viene lasciato libero di muoversi, risultino correttamente impostati i rapporti del minore con l’ambiente extrafamiliare, facendo ragionevolmente presumere che tali rapporti non possano costituire fonte di pericoli per sé e per i terzi. Altrettanto, precisa la Cassazione, appare del tutto irrilevante che il fatto illecito si sia svolto lontano da casa, giacché l’obbligo di vigilanza per i genitori del minore capace non si pone come autonomo rispetto all’obbligo di educazione, ma va, piuttosto, correlato a quest’ultimo. I genitori, ovvero, devono attivarsi affinché l’educazione impartita sia consona e idonea al carattere e alle attitudini del minore e che quest’ultimo ne abbia “tratto profitto”, ponendola in atto, in modo da orientarsi (quell’orientamento di cui si parla nell’art. 5 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) a vivere autonomamente, ma correttamente. La Corte di Cassazione ha rimarcato, perciò, la fondamentale e insostituibile funzione educativa dei genitori e la loro responsabilità non solo “endofamiliare” ma “esofamiliare”, una vera responsabilità “sociale” e non solo “civile”. Dall’educazione dei genitori dipende anche il “diritto al futuro” dei figli e conseguentemente il futuro di tutti.

Vita di coppia, la coppia nella vita

Sintesi: L’altro, proprio come accade a noi, nutre il bisogno di essere lasciato libero di essere se stesso

Abstract: Il contributo mette in evidenza, anche alla luce di noti riferimenti normativi e codicistici, il dinamismo che attraversa ogni coppia nel suo stare insieme

“[…] nel nostro Paese la crisi dei matrimoni (e in parallelo la crisi delle nascite) è figlia di una crisi più ampia: quella delle giovani generazioni, per le quali da molti anni il processo di transizione all’età adulta è lungo e travagliato, irto di ostacoli e difficoltà, quando invece dovrebbe essere favorito e incentivato. Nella società più gerontocratica d’Europa (la nostra!), i giovani sono stati “depotenziati”, espropriati di alcune importanti prerogative, e perciò gradualmente deresponsabilizzati. Le conseguenze di questa situazione, frutto sia di precise scelte (o non scelte) politiche, sia di una diffusa cultura troppo protettiva e accondiscendente, conducono sostanzialmente a quella che possiamo chiamare la generazione del rinvio, ad una autentica sindrome del ritardo che tende a far rimandare, a procrastinare tutte le scelte più importanti e significative della propria esistenza, tra cui in primis il matrimonio e il dare vita ad una famiglia stabile e feconda. Che fare? […]. Come ha scritto con mirabile sinteticità il demografo Massimo Livi Bacci, «La sindrome del ritardo significa anche poche possibilità di farsi strada nelle scale gerarchiche, nella politica, nel lavoro, nella società. Si usa dire che occorre investire sui giovani, ma più che investire, occorre “potenziare” i giovani, metterli in condizione, cioè, di contare e di decidere»”. È questa l’analisi che, fra i tanti, il sociologo Pietro Boffi ha fatto della pluridecennale crisi del matrimonio, della famiglia e non solo (in “Il matrimonio può attendere… I perché di una crisi” del 27-02-2019). Gli adulti contemporanei tendono a essere immaturi, giovanilistici, deresponsabilizzati, alla ricerca ancora di quello che “vogliono fare da grandi”, sottraendo così il presente e il futuro alle nuove generazioni e condizionandone le scelte con il loro esempio e così i giovani sono presi dalla “sindrome del ritardo”. Crescere (che ha la stessa origine etimologica del verbo “creare”), invece, è fare delle scelte, prendersi degli impegni, affrontare con impegno, mantenere un impegno, assumersi delle responsabilità, dare risposte coerenti o pertinenti.

Il matrimonio o la convivenza o altra relazione stabile di coppia è una scelta - da “eleggere, separare la parte migliore dalla peggiore” - fondamentale perché porta cambiamenti e coinvolge più sfere e più persone, un progetto di vita, un connubio di considerazione e rispetto (dal verbo latino “respicere”, “guardare indietro”, per cui si riferisce a “sguardo”, significato confermato ancor di più dall’esistenza dei neuroni specchio), un percorso di amore e non (o non solo) un traguardo o coronamento. Occorre che si sia educati alla maturità e alla consapevolezza di ciò - anche nell’ambito dell’educazione all’affettività -, come si ricava da varie locuzioni normative 

tra cui un inciso del Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società ed allevarlo nello spirito” e la lettera a dell’art. 29 della Convenzione, “promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo, dei suoi talenti, delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutto l’arco delle sue potenzialità”.

Edoardo e Chiara Vian, esperti di famiglie in difficoltà, evidenziano: “[…] vedere le diversità dell’altro come opportunità per noi per conoscere, imparare, apprezzare qualcosa di nuovo e che non ci appartiene e ancor di più come un’opportunità per amare l’altro per ciò che è veramente e non perché ci gratifica o corrisponde alle nostre aspettative. L’altro, proprio come accade a noi, nutre il bisogno di essere lasciato libero di essere se stesso. Non è possibile amare senza tenere conto di questa profonda legge dell’amore. Ma, allora, come mantenersi coppia seppur nella diversità? Innanzitutto ci viene da dire che dovremmo vegliare affinché la diversità non diventi distanza”. Nel codice civile si parla di coniugi e non di coppia ed una delle disposizioni più significative, che rimarca la differenza soggettiva dei coniugi a fondamento della coppia e della famiglia, è l’art. 143 comma 3 con il suo incipit incisivo “Entrambi i coniugi sono tenuti”. L’altro/a non è né la dolce metà né l’anima gemella. L’altro ha una propria identità e delle qualità personali che lo contraddistinguono e che sono proprie quelle che fanno innamorare e, non a caso, l’errore sull’identità e sulle qualità personali è tra le cause di nullità del matrimonio (art. 122 cod. civ.).

“Siamo soliti fare il controllo alla nostra auto, alla caldaia, perché escludere proprio quello sulla relazione di coppia, che dovrebbe essere più importante di tutto il resto? Informarsi e cercare di migliorare la relazione con il proprio partner dovrebbe essere il primo dovere di ogni persona sposata” (Aldo Vincenzo Delfino, presidente dell’AAF, Associazione Aiuto Famiglia Onlus). L’assistenza morale e materiale tra coniugi (art. 143 comma 2 cod. civ.) è fatta di piccole cose che producono grandi effetti. Prima ancora di farsi aiutare da specialisti, bisogna farsi aiutare dall’altro coniuge per comprendere come possa ricevere e percepire efficace ed effettiva la forma di assistenza coniugale che gli si pone o porge. Il taciuto o il temuto non fa che allontanare e, a volte, irreparabilmente.

Un altro elemento su cui riflettere è la gelosia. Si parla della gelosia degli uomini nei confronti delle donne, ma non di quella delle donne nei confronti degli uomini, nei confronti del loro passato, della famiglia d’origine, delle altre figure femminili di riferimento. E così cala il gelo in quelle relazioni (anche tra affini o parenti) che dovrebbero essere le più significative e vive. Essere coppia non significa appartenersi ma far parte l’uno della vita dell’altra, educarsi reciprocamente all’amore, crescere continuamente nello stesso amore. Questo divenire sostanzia anche il dovere coniugale dell’assistenza morale e materiale, uno dei più “difficili” da adempiere e la cui mancanza è una delle principali cause della crisi di coppia.

Il pedagogista Daniele Novara scrive: “[…] la coppia sotto lo stesso tetto, che ha diritto e bisogno di guardarsi negli occhi, di riconoscersi e vivere una storia d’amore. Come fare? Occorre prendersi con regolarità un momento tutto per sé lasciando i figli ai nonni, alla tata, alla baby sitter. Si può andare a cena, al cinema, a una mostra, a fare una passeggiata. Ritagliarsi il tempo necessario alla manutenzione del proprio rapporto di coppia senza lasciarlo al caso, senza lasciare che la routine familiare affondi la costruzione della vita coniugale”. Non ci si deve sposare con la riserva mentale “tanto c’è il divorzio” o “finché dura l’amore”, ma con la consapevolezza piena e lucida che la crisi può essere dietro l’angolo, che cambiare è naturale, che non si deve pretendere di cambiare l’altro o cambiare per l’altro, perché lo vuole l’altro, ma piuttosto cambiare insieme all’altro. Per questo è necessario concordare l’indirizzo della vita familiare di cui all’art. 144 cod. civ., che è l’articolo intermedio letto durante il rito del matrimonio proprio per sottolineare la necessità di bilanciamento tra i singoli coniugi (art. 143 cod. civ.) e la presenza di figli (art. 147 cod. civ.).

Daniele Novara aggiunge: “Troppi genitori alla nascita dei figli smettono di essere coppia e diventano semplicemente papà e mamma. Tutto finisce col ruotare attorno ai piccoli. Si immedesimano a tal punto nella loro vita che perdono ogni momento di intimità esclusiva. Sembra mancare proprio lo spazio per fare qualcosa da soli. Non riescono più a uscire o a fare un weekend in due, perché devono esserci sempre. A poco a poco la coppia non si riconosce più. Anche la sessualità ne subisce le conseguenze: il lettone è stato letteralmente occupato dai figli! È scomparsa ogni privacy anche all’interno della casa, perfino il bagno viene condiviso. I figli diventano sempre più esigenti e pretendono anche che i genitori guardino i cartoni animati. Il poco tempo che resta non viene dedicato alla coppia, ma a giocare con loro. Ma fa bene tutto ciò ai figli? Direi di no. Hanno bisogno di genitori che attraversino la loro esperienza sentimentale come qualcosa di positivo da trasmettere e testimoniare”. Tra gli indici normativi da cui si ricava che la coppia coniugale si deve mantenere distinta da quella genitoriale c’è quello dell’art. 147 cod. civ. che, nonostante le novelle legislative dal 1975 in poi, ha conservato la locuzione “ambedue i coniugi” e non riporta, invece, il riferimento a “genitori”. Si parla di “genitori” negli artt. 315 bis e ss. cod. civ. e si specifica, all’uopo, “entrambi i genitori”.

“Ogni coppia, per tenere bello il suo matrimonio, dovrebbe avere il decalogo della sua gioia, l’elenco delle cose che fanno bene alla coppia. Gli atti costruttivi vissuti in passato, da non dimenticare, da ripetere, da cui imparare” (don Fabio Rosini). Per dare contenuto e senso al “concordare tra loro l’indirizzo della vita familiare” di cui all’art. 144 cod. civ., i coniugi potrebbero “contrarre” un decalogo della gioia o altro decalogo considerandolo non come un’apposizione di limiti o paletti ma come indicazioni per l’orientamento, istruzioni per l’uso o una sorta di gioco del domino: “con-senso”. 

Vita di coppia (coniugale o genitoriale) non è vita da fotocopia ma in due, l’uno per l’altro. 

In-segnare non è as-segnare ma con-segnare

“Chi insegna deve stare bene attento a non predicare più di quanto può capire chi ascolta. Deve imporre a se stesso un limite e scendere al livello di chi ascolta, perché, se dice ai piccoli cose sublimi, i suoi discorsi saranno inutili e risulterà che è più preoccupato di ostentare se stesso che di aiutare chi ascolta”. Così scriveva il papa Gregorio Magno alla fine del VI secolo d. C. sull’arte della comunicazione. Incisiva la locuzione “scendere al livello di chi ascolta” che, poi, è stata riformulata dal pediatra e pedagogista polacco Janusz Korczak: […] bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli. […] essere obbligati ad innalzarsi fino all’altezza dei loro sentimenti”. Almeno ogni tanto bisognerebbe imparare dai bambini, anziché pretendere di educare/insegnare soltanto, e questo lo si può fare nel dialogo, variamente definito “educativo”, “euristico”, “ermeneutico”. Stare con i bambini fa essere bambini che non significa né rimanere bambini né tornare bambini ma vedere le cose dal basso in tutta la loro magnificenza.

Il linguaggio dei bambini fa sorridere ma anche riflettere perché intriso di spontaneità e autenticità, è la vera comunicazione senza se e senza ma. I bambini, pur essendo balbuzienti della vita, sono un banco della scuola della vita, per cui hanno bisogno di sapienti educatori e non di saccenti insegnanti.

“Penso che nel libro sia solidificata, in maniera senza eguali, la ricchezza dell’umanità, la grandezza dell’immaginazione, la capacità di guardare a noi stessi e di raccontare agli altri” (il giornalista Marino Sinibaldi). Più che insegnare materie, ai bambini occorre consegnare la materia prima: la vita.

A proposito di materie, la materia che a scuola è spesso resa ostica e invisa è la matematica. Di ciò si è occupato il pedagogista Camillo Bortolato: “Dov’è la matematica ? Non a scuola, ma nel biberon. Quando il latte aumenta hai il senso della addizione, quando diminuisce ecco la sottrazione”. Etimologicamente “matematica” deriva da un verbo greco che significa “imparare”; essa è insita nella realtà, nella vita, per cui tocca agli insegnanti non presentarla come disciplina astratta e ostica. Se si mira a sviluppare la mente matematica (e non solo numerazione e operazioni) si rende la matematica più simpatica. La matematica è un linguaggio ed elemento culturale per cui i bambini ne hanno diritto, anche secondo la Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (Bologna 2011).

Come rendere meno noiosa la matematica? Considerarla parte della vita quotidiana e insegnarla anche mediante la scrittura creativa.

Il lavoro dell’insegnante non deve essere scelto né come un comune impiego né, meno che mai, per ripiego, deve essere scelto per coerenza e con consapevolezza e non perché non si siano realizzati i propri sogni “individualistici” (diventare un letterato o un libero professionista affermato) ma per realizzare i propri sogni “personali”, per esempio contribuire alla costruzione di una società migliore, quel “progresso materiale o spirituale della società” di cui all’art. 4 Cost.. I bambini e i ragazzi hanno diritto non a insegnanti buoni o buonisti ma a buoni insegnanti.

L’insegnante deve essere foriero di “vento emozionale”, deve essere vento emozionale, deve provare e suscitare emozioni. Insegnare è far eruttare la lava da ogni bambino (anche da quello che sembra spento) affinché possa trovare la sua strada. Tra le qualità necessarie per l’insegnante: ascolto, entusiasmo, istinto, osservazione, unità (del sapere).

All’insegnante è richiesta professionalità e non professionismo, anche nell’individuazione e nell’approccio con bambini con vari disturbi, sempre più diffusi.

Secondo gli esperti “È importante sia per i genitori che per gli insegnanti, essere capaci di riconoscere tempestivamente i disturbi specifici dell’apprendimento, che se non riconosciuti in tempo, si trasformano in vere e proprie difficoltà scolastiche che generano un’elevata frustrazione nel bambino, rischiando di demolire la sua autostima. Gli insegnanti rappresentano un elemento preziosissimo nel riconoscere e fronteggiare i DSA, dato che gli indicatori di rischio sono rilevabili soprattutto attraverso l’osservazione degli apprendimenti degli alunni, da parte degli stessi. Proprio per tale ragione, è assegnato un ruolo fondamentale alla capacità di osservazione degli insegnanti nel contesto scolastico, sia per il riconoscimento di un potenziale disturbo specifico dell’apprendimento e sia per individuare quelle caratteristiche cognitive su cui puntare per il raggiungimento del successo formativo” (cit.). Le conseguenze e le difficoltà correlate alla dislessia o ad altri D.S.A. o B.E.S. sono talvolta causate dalla “dislessia” degli adulti di riferimento e della scuola.

Nel processo di apprendimento l’insegnante non deve essere re ma regista, non autore ma fautore, non protagonista ma antagonista (come lo è il muscolo antagonista), non attore ma fattore.

L’insegnante innovatore: “Aderisce profondamente, con la mente e col cuore, ai principi della Costituzione repubblicana” (da “Cinque passi per una scuola inclusiva” di Roberta Passoni e Franco Lorenzoni, 2019). L’insegnante è un cittadino qualificato che aiuta i giovani cittadini a essere tali nell’esercizio quotidiano della cittadinanza.

Sempre sull’insegnante innovatore: “Parte sempre dal pensiero dei bambini e dei ragazzi, ascolta le loro idee, i loro pensieri, le loro emozioni, i contenuti delle loro osservazioni” (op. cit.). Una delle peculiarità dell’insegnante è la cura educativa.

Nelle scuole si applicano il cooperative learning e altre metodologie affini per migliorare l’apprendimento e l’ambiente relazionale. Proprio quello che, spesso, non si fa tra colleghi insegnanti, a ogni livello (dal collegio docenti alla contitolarità della classe) tra cui esiste, invece, un’insana competizione o clima ostile dimenticando i principi costituzionali, dalla libertà di pensiero alla scuola aperta a tutti (artt. 33 e 34 Cost.), su cui si realizzano progetti a scuola ma non se ne fa un progetto. Il corpo docente è una delle categorie professionali meno compatte, a differenza di altri Paesi. A scuola si parla di sana competitività e di competenze ma, a volte, sono tanto competitivi e poco competenti proprio certi insegnanti.

Lo psicologo educativo statunitense Jere Brophy affermava: “La gestione della classe è uno dei maggiori successi nella storia delle ricerche in campo educativo del ventesimo secolo” . L’insegnante non deve mirare né al proprio successo né al successo degli alunni in termini di prestazioni, risultati, obiettivi quanto, invece, a contribuire a una rete sana di relazioni, situazioni ed emozioni da vivere e condividere in classe. Quello spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia di cui si parla tra gli obiettivi dell’educazione nell’art. 29 lettera d Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. E questo dipende anche dai rapporti tra gli insegnanti e dalla gestione delle proprie emozioni e dei propri vissuti.

“Gestire la classe significa agire in modo tale che ogni allievo possa trovare le giuste attenzioni educative e didattiche soddisfacendo i propri bisogni personali, promuovendo e mantenendo un proficuo ambiente di apprendimento in classe” (cit.). Gli insegnanti non sono titolari della classe ma gestori per cui gli aggettivi possessivi (la mia classe, i miei alunni, la mia aula, ...) non si dovrebbero usare.

Insegnare: incontrare l’altro, iniziare l’altro alla vita, inciampare con l’altro negli ostacoli della vita per ri-cercare nuove soluzioni (come si fa nel caso della classe capovolta, dei compiti di realtà e così di seguito), in…

Insegnare è segnare il presente, disegnare il futuro, consegnare strumenti, assegnare compiti di vita.

Insegnare è come la “parabola del seminatore” (Vangelo di Matteo 13, 1-23): seminare generosamente, instancabilmente e dappertutto, nella libertà di imparare dell’allievo.

E così la retribuzione più gratificante per gli insegnanti è ogni cambiamento che si nota in un alunno.