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L’educazione secondo alcuni esperti di oggi

 

 

 

 

Lo psicoanalista Carl Gustav Jung scriveva: “Se c’è qualcosa che desideriamo cambiare nel bambino, dovremmo prima vedere se non è qualcosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi” (da “L’integrazione della personalità”). I bambini non sono da cambiare ma da allevare (“levare a, verso”) - uno dei verbi usati nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, a cominciare dal Preambolo -, che è più difficile di cambiare. I bambini sono innanzitutto da educare e l’educazione è una relazione in cui ci si avvolge e coinvolge, così avviene il reciproco cambiamento tra educatore e educando, cambiamento che è la vita stessa e quello che essa pone e richiede.

Nel 1959, in “Per una filosofia dell’educazione”, il filosofo francese Jacques Maritain metteva in guardia da sette errori dell’educazione contemporanea, tra cui il sociologismo, ovvero identificare l’educazione con le attese della società e propugnava, tra l’altro, l’arte che rimane comunque una forma di conoscenza pratica e ha una funzione educativa: quella di appassionare ai valori mediante la bellezza che essi esercitano sullo spirito. Quel binomio arte e cultura di cui i bambini hanno bisogno e diritto per crescere come persone e come cittadini della loro vita, come espresso nella Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (pubblicata a Bologna nel 2011).

Il pedagogista Marco Dallari precisa: “Portare il bello e il vero in educazione non significa insegnare ciò che è bello e ciò che è vero, ma fornire strumenti per la co-costruzione di esempi e repertori di verità e bellezza, scoprendo come spesso le due idee convivano o addirittura coincidano. Significa allenare e valorizzare la curiosità per la conoscenza e la sensibilità emozionale”. Nell’art. 3 della Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura si legge: “I bambini hanno diritto […] a essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze”. I bambini sono già portatori del bello e del vero della vita: bisogna dare loro strumenti, mezzi, opportunità affinché li custodiscano, li esprimano, li condividano.

Secondo il saggista Goffredo Fofi: “Non si può essere educatore, e per estensione adulto, se non si è anche ottimisti. Con la volontà. È una sfida antica, questa […] e che in ogni generazione si ripete, ma oggi, credo, con più urgenza che mai”. L’educazione stessa è ottimismo (che non significa faciloneria) e non può essere diversamente, come si ricava anche dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare laddove si parla di “spirito” nel Preambolo e nell’art. 29 lettera d.

Allo “spirito” si riferisce pure Carlo Mario Fedeli, storico della pedagogia e dell’educazione: “Dall’intelligenza e dallo spirito con cui i problemi dell’educazione si affrontano dipende il futuro degli uomini e delle donne”. Perché educare è dare futuro, progettare il futuro, preparare al futuro, mentre arrendersi, mollare dinanzi ai problemi dell’educazione è privare bambini e ragazzi di possibilità e scelte e abbandonarli nel limbo del limitato presente e di un’apparente libertà.

“Il sogno [sull’educazione] crede, oggi più che mai, che un’educazione di qualità per tutti possa fare la differenza nella vita delle persone e trasformare il mondo, preparando un futuro di speranza e un’umanità nuova, capace di abitare con più sobrietà e solidarietà la nostra casa comune. Un’educazione così non potrà che generare una scuola-laboratorio che con la sua didattica interattiva prova a tradurre in pratica questi grandi orizzonti, mettendo davvero al centro la persona e la sua avventura nel mondo” (Vitangelo Carlo Maria Denora, gesuita esperto di educazione e formazione). La qualità dell’educazione (variamente denominata) è menzionata in tutte le fonti normative internazionali, tra cui il Pilastro europeo dei diritti sociali del 17 novembre 2017 il cui Principio I recita: “Ogni persona ha diritto a un’istruzione, a una formazione e a un apprendimento permanente di qualità e inclusivi, al fine di mantenere e acquisire competenze che consentono di partecipare pienamente alla società e di gestire con successo le transizioni nel mercato del lavoro”. “La consapevolezza negli adulti della dignità del minore e il riconoscimento dei suoi bisogni e diritti costituisce una possibilità di crescita anche per gli adulti stessi, che possono così trovare nel minore un interlocutore, un portatore di entusiasmo, meraviglia e coraggio. Il saper rendere il bambino e l’adolescente responsabili della propria crescita umana sarà quindi il miglior successo di ogni attività educativa” (esperti vari in “Diritti per l’educazione. Contesti e orientamenti pedagogici”, 2020). L’educazione comporta fatica ma, al tempo stesso, è una relazione tra educatore e educando, per cui condividendo la fatica si ottengono risultati migliori. L’educazione è come una cordata in cui l’educatore è il capocordata che infonde fiducia a chi lo segue e insieme potranno gioire sulla vetta della montagna per la vista di cui solo lassù si può godere.  “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società e allevarlo nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), ovvero farlo ascendere, a maggior ragione se con disabilità o altro problema (cui si è soliti mettere le etichette).

Nell’educazione secondo l’educatore catalano Jordi Mateu, promotore della cosiddetta “educazione viva”: “Ci sono tre bisogni fondamentali: sentirsi protetti, sentirsi connessi e riconosciuti, e sentire di avere abbastanza autonomia per mostrare i propri desideri interiori, la propria curiosità. Se non mi sento al sicuro con te, se non mi guardi con affetto o non mi consideri valido, perdo la voglia di imparare”. L’educatore (genitore o insegnante) deve essere meno autoreferenziale ed essere come un direttore d’orchestra: conoscere ogni singolo musicista, valorizzare ogni strumento (dal primo violino al triangolo), avere occhi per tutti e ciascuno, osservare ogni singolo movimento e ascoltare ogni vibrazione d’animo. La sintonia con gli educandi rende la relazione educativa una sinfonia.  Don Antonio Mazzi afferma: “L’educazione va succhiata col latte”. Come è fondamentale il latte materno che, tra l’altro, rafforza il sistema immunitario del bambino così è essenziale l’educazione genitoriale per rinforzare il sistema immunitario per la vita (basti vedere quanto accade nei casi di ineducazione). L’educazione in famiglia è e rimane il pilastro, le altre figure educative sono mattoni che si aggiungono.

Lo psicoanalista Massimo Recalcati spiega: “L’educazione non è un braccio di ferro […]. Un insulto del padre o della madre è come un laser, lascia segni, cicatrici, invece gli insulti dei figli non lasciano nessun segno” (nella lectio magistralis del 15/02/2020 a Matera). L’educazione è la dimensione relazionale della famiglia ed è basata sul rispetto dei genitori e dei figli e tra genitori e figli e, purtroppo, la perdita o l’incertezza di questa dimensione ha determinato uno smarrimento educativo generalizzato.

“[...] curare le relazioni. Se si sono rovinate, per trascuratezza, noia, fretta, è il momento di riparare, come facciamo con tutte le cose a cui teniamo di più. Le persone si riparano, non si buttano via” (lo scrittore Alessandro D’Avenia). “I prerequisiti per la salute sono la pace, una casa, l’istruzione, la sicurezza sociale, le relazioni sociali, il cibo, un reddito, l’attribuzione di maggiori poteri alle donne, un ecosistema stabile, un uso sostenibile delle risorse, la giustizia sociale, il rispetto dei diritti umani e l’equità” (dalla Dichiarazione di Jakarta sulla promozione della salute nel 21° secolo, 1997). Ogni persona nasce da una relazione, cresce in relazione, è fatta di relazioni. L’educazione è una delle relazioni prioritarie per cui è superfluo parlare di educazione relazionale o altrimenti aggettivata.

Ciò che è col cuore arriva prima al cuore e rimane per sempre nel cuore. I bambini hanno bisogno di autenticità. “Per noi che ci occupiamo di educazione credo sia importante alimentare la dimensione dell’essere, più che del fare e del possedere, dell’avere. E nel momento in cui noi alimentiamo la dimensione dell’essere, del cuore, della presenza, allora possiamo nutrire le nostre relazioni in maniera autentica perché ciascuno porta quello che è, quello che può, nel modo in cui può e fino a dove può e noi siamo disponibili ad accogliere questo. E allora questo genera sicurezza, perché genera questa possibilità di esserci con l’altro per quello che possiamo con molta apertura, nutrendoci l’uno dell’altro in quello che ciascuno può donare all’interno della relazione. In maniera veramente autentica, con tutta la vulnerabilità, la fragilità e la nostra dimensione dell’errore, dell’inciampo, del limite, del difetto e quant’altro. Proprio perché a quel punto io ti aspetto, aspetto te per quello che sei, indipendentemente dal risultato e dal prodotto di cui sei portatore, perché non è questo che interessa. È un po’ come traslare tutto il nostro tema del prodotto versus processo (da “Le aspettative nella relazione educativa” delle formatrici Silvia Iaccarino e Simona Vigoni).

Il pedagogista Daniele Novara richiama: “I casi di bambini a cui vengono diagnosticati disturbi neuropsichiatrici sono in aumento esponenziale. E se invece di aumentare le certificazioni, sostenessimo maggiormente genitori e insegnanti nelle loro funzioni educative?”. L’educazione è dare sostegno ma ha anche bisogno di sostegno, è una forma di solidarietà generazionale e intergenerazionale (art. 2 Cost.).

Per esempio nelle politiche antidroga non si parla di perquisizioni o controlli, ma piuttosto di dialogo, informazione e approccio educativo. Infatti, l’educazione ha una forte funzione di prevenzione e recupero e consente la cura e la protezione necessarie a bambini e ragazzi (art. 3 par. 3 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) se caratterizzata e cadenzata da esempio, emozioni, entusiasmo, empatia, esercizio, energia. L’educazione è condivisione e preparazione. Educare comporta trasmettere regole e limiti per il rispetto di sé e degli altri, ma non deve significare né castrare né incastrare, bensì cesellare e incastonare il gioiello della vita (anche se, poi, le cose possono andare diversamente). Molti genitori si fanno assorbire dai figli quando sono piccoli e si fanno asservire da loro quando sono cresciuti. L’educazione non è edulcorazione, emulazione, ma edificazione della vita, edizione di quella singola vita.

Genitori (e altri educatori) dovrebbero essere, nella vita dei bambini, “trasparenti” e “leggeri” come libellule: passare nella vita dei bambini ma senza fare danni. Bambini: bisogna continuare a sperare per loro, con loro, come loro. Possa crescere la loro speranza e possano crescere sempre più nella speranza!

 

 

Famiglia, culla d’amore

 

 

Sintesi: Non sono i figli che fanno la famiglia, ma la famiglia che fa i figli

Abstract: L’articolo scava nel profondo delle dinamiche familiari per evidenziare come l’amore gratuito sia il motore della crescita e del benessere dei suoi componenti

 

“Non credo che ci si debba amare solo per fare i figli. […] Dico solo che una società che considera i figli come seconda o terza priorità, che ne fa sempre meno e non li educa nel giusto modo, non ha futuro. Privilegiare la comodità, l’egoismo, avanzare come giustificazione il costo, i rischi e la rottura di scatole rispetto alla poesia, alla tenerezza, alla faticosa dolcezza di una di una maternità e di una paternità pazienti e presenti, non è segno di maturità e coscienza adulta. […] Ho solo una tristezza immensa che mi coglie, fino a portarmi alla domanda pericolosa: se l’amore sia sempre più straniero in questa nostra società preoccupata dalla recessione, ma sempre meno impegnata ad affrontare e a risolvere la vera recessione, ovvero quella riguardante la famiglia, l’amore, i figli, l’altruismo e la capacità di relazioni profonde e autentiche”. Così don Antonio Mazzi, cresciuto senza padre e divenuto “padre” di tante generazioni con problemi di tossicodipendenza o di altra natura. Parecchi ragazzi caduti nella tossicodipendenza o altra forma di dipendenza affermano che dai genitori hanno avuto tutto, anche il superfluo, ma non quello di cui avevano bisogno, come l’ascolto, l’attenzione, il tempo, anche qualche limite. Ciò che dovrebbe caratterizzare l’amore genitoriale, l’amore in famiglia. Non sono i figli che fanno la famiglia, ma la famiglia che fa i figli. “Ogni bambino ci dice a modo suo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama così alla nostra responsabilità. La sua nascita rappresenta un’esperienza nuova per l’umanità che gli deve ciò che essa ha di meglio” (dalla Charte du BICE, Parigi, giugno 2007). Ogni bambino suscita amore e stupore (anche se non sempre è così, altrimenti non si spiegherebbero i casi di infanticidio), come quello che manifestano i genitori i figli con disabilità: “Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te” (la scrittrice Ada D’Adamo nei confronti della figlia disabile).

“[...] in una famiglia, l’arrivo di una sofferenza può avere l’effetto di una bomba a mano. Di solito gli uomini entrano in una sofferenza che unisce il dolore per l’altro perduto all’incapacità di accettare di non essere il centro esclusivo delle cose. Per una donna il dolore è sempre una sfida da accettare, qualcosa da cui è impensabile fuggire” (cit.). Se l’uomo e la donna si unissero nel provare il dolore, o almeno lo convogliassero, sarebbe l’estrema, o forse la più sublime, forma d’amore: anche questa è una forma di assistenza, innanzitutto morale (art. 143 comma 2 cod. civ.).

Lo scrittore francese Pierre-Marc-Gaston de Lévis: “Il segno che non si ama più lo si ha quando i sacrifici cominciano a costare; il segno che si ama poco lo si ha quando ci si accorge di farne”. Quando in una coppia o in famiglia si parla in termini di sacrifici e rinunce significa che non si è compreso il senso e il linguaggio dell’amore. Quello che si fa è una scelta nella libertà e responsabilità: questo è l’amore.

Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, spiega: “Si deve al grande etologo austriaco del secolo scorso Konrad Lorenz la scoperta dell’imprinting, termine inglese che sta a indicare una forma di apprendimento precoce che fa sì che l’animale poche ore dopo la nascita riceva una sorta di impronta dal primo oggetto in movimento che compare nel suo campo visivo. Ne resta «impressionato» e non può fare a meno di seguirlo, corteggiarlo e restargli legato, assumendo tutti i suoi comportamenti. Lorenz addirittura si era immerso in un lago e aveva fatto in modo che allo schiudersi delle uova gli anatroccoli vedessero per prima cosa la sua massiccia figura. Così era stato e i piccoli avevano continuato ad andargli dietro, al punto che una volta che il ricercatore introdusse nel lago la vera madre biologica, si rifiutarono di seguirla. Questo tipo di apprendimento segue, però, regole ben precise e può verificarsi soltanto in quelli che sono definiti «periodi sensibili» che spesso si consumano nell’arco di pochissimi giorni”. I primi giorni di vita e soprattutto alcuni momenti sono fondamentali perché i bambini hanno bisogno di cure che sono l’espressione massima dell’amore gratuito. Esplicativo in tal senso l’art. 4 della Carta dei diritti del bambino nato prematuro (2010): “Il neonato prematuro ha diritto al contatto immediato e continuo con la propria famiglia, dalla quale deve essere accudito. A tal fine nel percorso assistenziale deve essere sostenuta la presenza attiva del genitore accanto al bambino, evitando ogni dispersione tra i componenti il nucleo familiare”. L’amore è un bisogno umano, un’esigenza vitale per ciascuno, ancor di più per i bambini, per i neonati. Nelle fonti normative si è parlato di “bisogno di amore” per la prima volta nell’art. 6 della Dichiarazione dei diritti del fanciullo (1959), oggi se ne parla diffusamente (anche in “carte” e documenti vari stilati da psicologi e altri esperti) tanto che si può profilare un diritto d’amore (il giurista Stefano Rodotà).

L’art. 8 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia recita: “[…] il diritto del fanciullo di conservare la propria identità, nazionalità, nome e relazioni familiari”. Si noti che in quest’articolo si usa il verbo “conservare”, con tutta la pregnanza che può avere, e la successione dei diritti si conclude con “relazioni familiari”, che ha una portata più vasta e profonda di “famiglia”. Inoltre, quest’articolo è da leggere alla luce di quelli precedenti e in particolare dell’art. 3 ove si enuncia, tra l’altro, l’interesse superiore del fanciullo. Così nel procedere all’affidamento o all’adozione di un bambino. La psicologa Rosa Rosnati: “Il bisogno del bambino ha tempi che possono anche non essere i tempi di cui un adulto può avere bisogno per fruire di un percorso o di un programma, penso ad esempio a un programma di cura nel caso di una dipendenza… a volte questi tempi non corrispondono ai tempi del bambino, che restano però prioritari. Inoltre si investe troppo poco per la prevenzione, troppo poco per diffondere l’affido e per sostenere le famiglie affidatarie, troppo poco per sostenere le famiglie adottive. L’affido e l’adozione hanno una valenza sociale che merita di essere sostenuta, mentre la risonanza che episodi di cronaca come quello della Val d’Enza [cosiddetto “caso di Bibbiano”] hanno sull’opinione pubblica purtroppo rischia di offuscare questa valenza sociale. Teniamo presente che ad oggi ci sono in Italia circa 15mila minori che vivono in comunità: molte sono ottime, ma anche in quel caso la comunità può andar bene per periodi brevi o in emergenza ma non può essere il luogo dove un bambino può crescere. Il bambino per crescere deve poter sperimentare un legame di attaccamento sicuro. L’appello allora è per valorizzare forme di affido anche più fluide, che ad esempio permettano a un bambino di trascorrere il pomeriggio o il weekend o le vacanze nella famiglia affidataria, sperimentando legami famigliari solidi e di lungo periodo. Lo chiamano “affido leggero” ma è leggero solo in termini di tempo perché la valenza psicologica per il bambino è tutt’altro che leggera” (in un’intervista del 17 luglio 2019). Ogni figlio in famiglia dovrebbe essere considerato in “affido leggero”.

“A vederla luccicare tra le colline sulla stradina di campagna, la giardinetta rossa piena zeppa di bambini – bambine nella fattispecie – sembrava venir fuori da una di quelle scene di famigliole felici che, appena possono, i pubblicitari infilano nei loro filmati. Eppure, nella macchina mancava la mamma […]” (lo scrittore Gaetano Cappelli). Esistono molte famiglie monogenitoriali anche in presenza di entrambi i genitori, a danno dei figli, nel presente e per il futuro: coniugi separati in casa; genitore cui non si fa o che non sa esercitare la propria distinta funzione genitoriale; omologazione o duplicazione della figura genitoriale (con eclissi del padre) e altro ancora (sempre attuale sui figli alla mercé delle scelte dei genitori il film drammatico “I bambini ci guardano”). 

Il sociologo Pietro Boffi sottolinea: “Non si tratta di essere più o meno catastrofisti, ma di guardare in faccia la realtà. E domandarsi: una società in cui le famiglie che l’Istat tecnicamente definisce “unipersonali”, e che qualcuno già chiama “famiglie single”, sono ormai un terzo del totale e – se le tendenze che abbiamo delineato non subiranno un deciso cambio di rotta – sembrano destinate a diventare la maggioranza, può ancora stare in piedi? La frammentazione della popolazione che emerge dai dati sarà in grado di reggere il tessuto economico, sociale, civico che finora – bene o male – ha retto il nostro Paese?” (nell’articolo “Una su tre è single: la famiglia “Lilliput” fa bene all’Italia?” del 30-12-2019). La famiglia non può essere definita unipersonale o single perché viene meno la sua essenza (o funzione) come le è riconosciuta dalla Costituzione (artt. 29-31), dagli atti internazionali e dalle scienze umane in generale.

Il saggista Goffredo Fofi evidenzia: “E quanti oggi soffrono davvero di questo sentimento di inadempimento, di non essere all’altezza, di non fare tutto quel che si dovrebbe fare per combattere i mali del mondo, per attenuarne la forza? La società odierna mira a tutt’altro, mira a deresponsabilizzare, ad accentrare il senso di colpa sul privato famigliare e sessuale, a eliminare quell’altro, che è certamente di ostacolo al dominio dei pochissimi sui tantissimi. Viva dunque i sensi di colpa, viva la paura del rimprovero, se collocati al posto giusto nei nostri sentimenti, e richiamo alle nostre responsabilità”. Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia vi è un richiamo alla responsabilità sin dal Preambolo: “Convinti che la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli debba ricevere l’assistenza e la protezione necessarie per assumere pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità”. Deresponsabilizzarsi e fare a scaricabarile tra i due genitori, tra famiglia e scuola, tra i vari ordini di scuola e così via è un’appropriazione indebita della vita dei bambini e degli altri.

Un sociologo americano: “Le nuove idee hanno bisogno di antichi luoghi”. Le nuove vite hanno bisogno di antichi luoghi: le famiglie.

Lo psicologo Simone Olianti conclude: “Essere fecondi non è solo generare vita biologica, ma coltivare la vita, custodirla e proteggerla. Ed è solo quando la nostra vita genera vita bella intorno a noi, ed è fertile per qualcun altro, che siamo davvero felici”. Essere fecondi non è concepire figli ma generare amore, quello sano e sanante.

 

 

La scuola nel postdigitale

 

 

La scuola di una volta, anche con i suoi errori e limiti, era sicuramente diversa e più scuola, senza corse né corsi né ricorsi né troppi discorsi. Era riconosciuta come scuola e non svolgeva altre funzioni. E la scuola di oggi com’è o com’è considerata?

Una delle ragioni per cui la scuola di oggi non funziona più come tale è perché si ritrova a colmare, calmare, calmierare le ansie, le lacune, i sensi di colpa, le richieste (o le pretese), i ricorsi ai T.A.R. dei genitori. I genitori devono ricordare (o sapere, se non ne sono ancora consapevoli) che i figli escono come figli da casa e vi fanno ritorno come figli e nel frattempo sono alunni (parola che, etimologicamente, deriva da una radice con il significato di “nutrire, far crescere”) e devono essere alunni a scuola. Tra famiglia e scuola non c’è e non ci deve essere separazione ma distinzione: i genitori danno la vita, la scuola dà la cultura e insieme danno la cultura della e per la vita.

“[…] sarà essenziale promuovere l’idea di «educazione della comunità», dove la scuola è un soggetto – il soggetto principale – all’interno di una rete di attori protagonisti: le famiglie, il mondo culturale, sportivo, economico, ecclesiale e sociale. All’interno di questa comunità si può costruire un progetto educativo capace di ridurre le disuguaglianze e di promuovere la mobilità sociale” (cit.). La scuola può fare tanto ma non tutto, perché ha bisogno di coerenza, coralità, collaborazione educativa con la famiglia nell’“adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2 Cost.).

“La scuola è stata ridotta ad una sorta di Grande Fratello: registro elettronico, pubblicazione di foto sui siti delle scuole, richiesta di videocamere di sorveglianza…(il docente Alfio Briguglia nel convegno “L’educazione attraverso i saperi” il 1° marzo 2019 a Matera). Per ri-dare senso e consenso alla scuola bisognerebbe riscoprire il significato etimologico di “scuola”, cioè “tempo libero” e “studio”, cioè “aspirare a qualcosa”.

A proposito di parole, il termine stesso “parola” deriva da “parabola” e la scuola deve ritrovare anche il suo ruolo di parabola di vita. Il formatore Franco Lorenzoni sottolinea: “Nella scuola ci sono poi troppe volte le parole vuote, le parole non credute, le parole senza corpo, senza energia. Quelle che sovente ci accontentiamo di usare noi docenti, e che gli studenti fanno fatica ad ascoltare. Parole che non comunicano e non generano nulla perché non suscitano inquietudine, non mettono in movimento e in discussione, non inducono a porci domande e a dubitare, e dunque non producono scintille e non fanno scaturire nuove idee. […] È dunque il tempo di compiere nella scuola un grande lavoro di ecologia della parola. Nel senso etimologico: trovare casa alle parole, offrire casa alle parole. La casa delle parole è insieme un luogo e una tensione: il luogo è il corpo di chi le pronuncia tutto intero, sempre bisognoso di attenzione, la tensione è lo sforzo di avvicinarci agli oggetti della conoscenza. In qualche modo mi verrebbe da dire che autentica è la parola che non si accontenta, la parola che ricerca. Molto meno la parola che chiude il discorso, che afferma definitivamente”. Urge un’“ecologia della parola”, soprattutto a scuola dove incalzano acronimi, anglicismi e altri gerghi. Nella scuola sempre più aziendalizzata si usano sempre più espressioni inglesi per indicare attività che si sono sempre svolte o obiettivi che si sono sempre perseguiti ma con nomi diversi, come il coding (pensiero computazionale) e il coaching (allenamento), variamente denominato. La scuola non deve e non può adeguarsi. Adeguandosi al mondo circostante la scuola è passata dall’essere “bottega della cultura” all’essere, purtroppo, assimilabile a un discount o centro commerciale o sito di vendita online (basti vedere quanto si fa durante gli open day per orientare le iscrizioni scolastiche).

Nella scuola deve tornare la pedagogia in modo da essere un laboratorio pedagogico dell’immaginario. “L’espressione «immaginario educativo» sta a indicare la prospettiva umanistica e personalistica dell’educazione, interessando in primo luogo le aree della scuola, della pedagogia e della formazione. Da qui il bisogno di sognare un futuro migliore per le nuove generazioni, valorizzando la capacità dell’uomo di reagire di fronte all’imprevedibilità del destino, scommettendo sulla possibilità che l’immaginario educativo trovi un nuovo punto di equilibrio centrato sulla resilienza, evitando sia le fughe in avanti nei sogni utopici sganciati dalla realtà, sia le nostalgie retrotopiche che si perdono nel passato, sia infine le previsioni apocalittiche e catastrofiche della distopia. […] «Educare» (da e-ducere, «tirar fuori») vuol dire infatti liberare la persona, e quindi l’educazione non potrà mai fare a meno dell’immaginazione, capace di spalancare orizzonti inediti” (gli esperti Antonella Fucecchi, studiosa di didattica interculturale, e Antonio Nanni, pedagogista, in “Immaginario e resilienza. La scuola dopo il virus”, 2021). Educare è dire e dare futuro e anche per questo è difficile. È quanto espresso altresì nell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare nella lettera a: “promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo, dei suoi talenti, delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutto l’arco delle sue potenzialità”.

Secondo la formatrice Jessica Omizzolo la scuola deve essere “[…] una scuola che si prende cura dell’eterogeneità e la coltiva. […] una scuola attiva che promuove autonomie, che sostiene il senso di autoefficacia. […] una scuola attenta. Una scuola che NON: non incasella, non chiude, non dà risposte preconfezionate e non addestra all’ubbidienza, alla performance. […] una scuola in ascolto delle domande, che condivide dialoghi, che si pone in osservazione dei silenzi, che offre rilanci divergenti e sostenenti. […] una scuola dove adulti e bambini possano sentirsi a proprio agio nel loro essere unici. Adulti professionisti aperti, attenti, sensibili”. È triste sentire parlare e assistere che nella scuola si spinga per la visibilità e pubblicità di quello che si fa o si deve fare correndo e competendo tra insegnanti tanto affannati e poco affiatati. E la centralità del bambino? E i diritti dei bambini? E i loro bisogni e i loro tempi? E l’ascolto? La scuola è sempre più adultocentrata o egocentrata e la pandemia ha spesso fornito un alibi per renderla ancora più “a distanza”, “online” e non vicina e in linea con i soggetti principali della vita, i bambini e i ragazzi.

“[…] c’è anche una mentalità su cui lavorare perché il sistema di istruzione riacquisti credibilità e rispetto: la scuola aperta a tutti è una comunità educante nella quale i bambini, gli adolescenti e i giovani sono i protagonisti” (cit.). Bambini e ragazzi non devono essere (o non solo) ricettori ma ricercatori del sapere, di ogni forma del sapere. La scuola non è solo imparare ma stare bene insieme per imparare.

Anche il pedagogista Daniele Novara afferma: “A scuola ci vuole la capacità di creare tra gli alunni modalità di relazione tali da consentire alla classe di vivere assieme e costruire le conoscenze necessarie”. Per insegnare, come pure per la genitorialità, bisogna avere le basi come in una casa e non improvvisarsi muratori o arrivare in un appartamento già finito.

La qualità della scuola non dipende dalle riforme, dalle innovazioni tecnologiche, dalla normativa, ma da chi vi opera e da chi la vive e la rende viva. L’insegnante non deve convincere ma coinvolgere, non solo trasmettere le sue conoscenze ma far trapelare le sue emozioni, essere motivato e motivante, appassionato e appassionante, emozionare ed empatizzare…

L’insegnante deve essere curioso e suscitare curiosità. Insegnare è incuriosire, innovare, indurre, iniziare, incontrare, includere… tutt’altro che indottrinare. Non si dimentichi che la scuola è una delle fucine di salute, come si ricava dal paragrafo “Sviluppare le abilità personali” della Carta di Ottawa per la promozione della salute (1986).

Già l’antropologa statunitense Margaret Mead sosteneva che “bisogna insegnare ai bambini a pensare, non a cosa pensare”. Nell’art. 14 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge: “Gli Stati parti devono rispettare il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”. Bisogna interrogarsi se, in particolare nella scuola basata su progetti, metodi brevettati, uso di device e altro ancora, si educhi bambini e ragazzi a pensare o piuttosto all’obbedienza. I bambini hanno semplicemente bisogno di pensare ed essere pensati: questo è il pensiero puerocentrico.

Occorrerebbero maestri come Mario Lodi. Maestro di libertà, come don Lorenzo Milani (di cui aveva le stesse iniziali invertite), è considerato ancora un maestro straordinario, “il maestro che ogni bimbo vorrebbe”, ma era semplicemente maestro dell’ordinario, come ancora la scuola non è. Mario Lodi era per la gentilezza, la mitezza, la fiducia nei bambini, che non è qualcosa che scatta subito ma si costruisce e perdura, era contro la frettolosità e per il dare tempo ai bambini. L’educazione, la relazione educativa (prima in famiglia e poi a scuola) dovrebbe essere questo. 

Lo psicologo statunitense Howard Gardner, nel libro “Verità, bellezza, bontà. Educare alle virtù nel ventunesimo secolo”, ha scritto che bisogna educare al bello, buono e vero: questa è la corresponsabilità della famiglia e della scuola, della famiglia con la scuola e non solo dell’una o dell’altra.

 

 

Scuola di vita, vita di scuola

 

 

Uno dei più grandi filosofi e pedagogisti di tutti i tempi è lo statunitense John Dewey (1859-1952), assertore della “scuola progressiva”, fondata sull’esperienza, sull’apprendimento come processo sociale e democratico, sul dialogo, sui valori della persona, attenzione per i bambini, per i poveri, per i fragili, per gli immigrati, per le persone di colore, sui diritti civili, contro un capitalismo esasperato che offende la dignità umana. Per Dewey, la crescita è un processo incessante: “Non c’è nulla a cui la crescita sia connessa se non una crescita superiore, non c’è nulla a cui l’educazione debba essere subordinata se non una maggiore educazione”. Sempre secondo Dewey, la democrazia è un bene inestimabile, da sostenere con il pensiero, con le opere e con l’esempio. La scuola attuale, però, il più delle volte asseconda la società e non la feconda. 

La scrittrice Paola Mastrocola afferma: “Credo che non vadano difese solo certe minoranze che ci piacciono di più o ci sembrano più deboli. Ci sono minoranze altrettanto sofferenti che invece non vediamo, ad esempio quelli molto bravi, messi da parte sia dai compagni sia dagli insegnanti, i quali preferiscono portar avanti i più deboli, a volte anche chi non ha proprio voglia di studiare. Diciamoci la verità: la scuola pubblica non sa che farsene di quelli bravi. […] Non mi piace la perdita di profondità. Restiamo in superficie a galleggiare in un mondo sempre più difficile, in cui dovremmo insegnare ai giovani a scendere in loro stessi, ad amare il pensiero. Lo studio è coltivare lo spirito, smanettare su Internet è un’altra cosa. Internet è meraviglioso, è entrato nella nostra vita e non ne uscirà più, ma non è il caso di usarlo sei ore al giorno a scuola. Lo studio è una scrivania, un libro aperto, il gomito sul tavolo e la testa appoggiata che pensa”. Aprire è schiudere, togliere i serrami, gli impedimenti, gli ostacoli: è questa la funzione primaria della scuola. “La scuola è aperta a tutti” (art. 34 comma 1 Cost.). Etimologicamente “aula” significa “luogo libero, arioso”, ha la stessa radice - che significava “soffiare, spirare” - di “aulico” e “flauto”. La scuola, perciò, dovrebbe essere luogo ameno di libertà in cui far respirare aria nuova alle nuove generazioni e far vibrare i loro strumenti. 

“La scuola non è solamente l’istituzione dedicata all’apprendimento formale del minore, ma anche uno dei luoghi dove se ne forma la personalità, attraverso percorsi che investono il suo sviluppo sociale e anche fisico. Un ruolo fondamentale nella crescita è attribuito allo sport e alle attività fisiche, di norma praticate al di fuori delle mura scolastiche. Ma anche la scuola può contribuire all’alfabetizzazione motoria del minore, specialmente in quelle situazioni dove le difficoltà economiche precludono alle famiglie la partecipazione del bambino ad attività sportive extrascolastiche” (nel Report “Povertà educativa. Servizi per l’infanzia e i minori”, febbraio 2018).

Non si può continuamente bistrattare la scuola data la sua rilevanza costituzionale, dallo svolgimento della personalità (art. 2 Cost.) alla tutela della salute (art. 32 Cost.). 

Lo storico Ernesto Galli Della Loggia (nel suo libro “L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola”, 2019), citando il filosofo Francesco De Sanctis, per il quale la scuola aveva il compito di fare gli Italiani e “fare di diversi popoli un popolo solo”, evidenzia i mali che affliggono la scuola – in particolare, il personale mal pagato, scoraggiato, deluso –, ma ha la speranza che una scuola all’altezza dei tempi sia ancora possibile. Egli dichiara che “ogni istruzione vera, se vuole, può essere ed è un’educazione civica” e che bisogna credere “che nulla sia stato deciso una volta per tutte, che la «buona battaglia» resti ancora da combattere. Il tempo rimasto è poco, ma il destino della nostra scuola è ancora nelle nostre mani”. L’importanza della scuola è e rimane attuale e fondamentale. Bisognerebbe rivalutare pure la sua collocazione nel Titolo II “Rapporti eticosociali” e la sua disciplina nella Costituzione (artt. 33 e 34) dopo la famiglia, la salute e prima del lavoro. 

La scuola è diventata da “ricettario” di valori a “ricettacolo” di disvalori. Ci si dimentica che è un luogo e un soggetto “costituzionale” in cui si cresce e si vive nei valori costituzionali, già a cominciare da quelli espressi nell’art. 1 della Costituzione: democrazia, lavoro, sovranità (di cui il sapere è uno dei primi poteri). La scuola stessa è progetto di vita e di vite e non ci sarebbe bisogno di proporre altri progetti rendendo così la scuola un “progettificio”. 

Alla scuola si chiedono sempre più competenze e meno compiti da dare. In realtà se ne esce, poi, sempre meno competenti e meno compìti. Perché scaricare continuamente tutto sulla scuola o qualcun altro? Perché non riconoscere la propria responsabilità? E perché non educare alla responsabilità? Prima “famiglia è scuola”, poi “famiglia e scuola”.

I genitori non dovrebbero chiedere agli insegnanti “Come va mio figlio a scuola”, perché significa puntare l’attenzione sui successi scolastici che sono limitati nel tempo e nello spazio, sono solo risultati, dati, elementi di una dimensione più vasta, ma dovrebbero chiedere “Come si comporta o come sta mio figlio a scuola”, perché questo riguarda l’aspetto relazionale che è fondamentale nella vita in quanto essa è un continuo processo di apprendimento.  

La storica Lucetta Scaraffia osserva: “Oggi, invece, una scuola permissiva e rinunciataria sforna ragazzi che non hanno imparato a scrivere e a parlare bene, a capire un testo o un contesto culturale, e quindi anche a riconoscere e gestire i legami sociali. In questa situazione allora la provenienza sociale fa la parte del leone: i ragazzi che vengono da famiglie di ceto medio-alto, dove si parla italiano corretto, si legge, si ragiona con i figli, dove i figli vengono mandati all’estero a imparare le lingue che la scuola italiana insegna malissimo, si trovano in condizioni di partenza lontane anni luce da quelle dei loro coetanei meno fortunati. La scuola non svolge più la funzione di ascensore sociale, di fabbrica di possibilità per un futuro migliore per tutti, se solo si impegnano”. “La scuola è aperta a tutti” (art. 34 comma 1 Cost.) significa che la scuola non deve livellare, annullare o disconoscere le differenze ma deve fornire a tutti gli strumenti affinché siano cittadini che sappiano esercitare i diritti e adempiere ai doveri, come si legge in quegli articoli della stessa Costituzione in cui si usa l’aggettivo o pronome indefinito “tutti”, a cominciare dall’art. 3. Nella scuola di oggi ci sono alcuni insegnanti demotivati e altri che lavorano nel nascondimento e nella solitudine rispetto a un sistema che “macina” tutto e tutti. La scuola è sempre più delegata dai genitori nella funzione educativa che, invece, spetterebbe loro e, al tempo stesso, è “legata al cappio” perché basta un nonnulla che scattano denunce e ricorsi o altro ancora da parte dei genitori o altre subdole vessazioni. 

“Non dimenticate mai che a scuola vanno i vostri figli, non voi genitori – richiama il pedagogista Daniele Novara –. Ma questo non toglie la possibilità di creare la giusta cornice organizzativa, grazie alla quale i figli sentono il sostegno dei genitori nella sfida scolastica”. I figli vanno sostenuti non sostituiti. Bisogna garantire loro l’assistenza morale (artt. 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.) e non l’assistenza legale contro la scuola o chiunque altro ritenuto a priori responsabile di qualsiasi cosa possa succedere ai figli. La scuola è un diritto e un dovere, esperienza di crescita, di cittadinanza, dell’esistenza di ogni diversità.

In Amazzonia, e precisamente a Manaus, c’è una scuola speciale, una scuola agricola per la salvaguardia dell’Amazzonia, e gli allievi vi arrivano con la canoa anche dopo giorni di navigazione per rimanervi e imparare tecniche nel rispetto dell’ambiente. Nella nostra scuola, invece, capita che vi siano allievi apatici o aggressivi, insegnanti non sempre appassionati e appassionanti e genitori che nei confronti dei figli fanno di tutto (professori, sindacalisti, avvocati, complici, amici) fuorché i genitori.  

Il pedagogista Pierpaolo Triani precisa: “La collaborazione è un principio ineludibile in considerazione del compito della scuola e delle risposte che è chiamata a dare in una realtà soggetta a continui cambiamenti, che deve fare i conti soprattutto con la multiculturalità, quindi con la necessità di trovare una unitarietà di valori riconosciuti come patrimonio comune. Finalità che possono essere raggiunte mettendo al centro il processo collaborativo e la dimensione comunitaria della scuola”. La collaborazione scuola-famiglia ha un fondamento costituzionale: innanzitutto la collocazione della disciplina della scuola (artt. 33 e 34 Cost.) segue a quella della famiglia (artt. 2931 Cost.) e in mezzo alle due istituzioni c’è la tutela del diritto alla salute (art. 32 Cost.); l’istruzione e l’educazione dei figli sono primario dovere e, poi, diritto dei genitori (art. 30 comma 1 Cost.); ogni lavoro, quale attività o funzione, concorre al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 comma 2 Cost.). E, su tutti i princìpi, la solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione.

Con i bambini bisogna fare insieme affinché imparino, imparino meglio e con la gioia di fare. Questo vale in famiglia e a scuola, anche per la trasmissione dei valori costituzionali summenzionati. Imparare non riguarda solo i bambini ma tutti perché stare con l’altro presenta sempre qualche novità da affrontare e imparare. Così l’educazione diviene quel processo interpersonale e intrapersonale secondo i traguardi e gli obiettivi delineati nell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. 

 

 

Genitori: “geni” e “tori”

 

 

Sintesi: Il senso dell’essere genitori, chiamati alla vita, chiamati dalla vita  

Abstract: L’ambivalenza del ruolo dei genitori che possono aiutare oppure nuocere alla crescita dei loro figli.

 

Si parla continuamente di genitorialità, evidenziandone le problematiche, e di genitori qualificandoli in ogni modo (da genitori efficaci a genitori anaffettivi). Sarebbe il caso, invece, di soffermarsi sui genitori come persone nel rapporto con i figli, persone altre da loro. 

Lo psicologo e psicoterapeuta Fabrizio Fantoni scrive: “Gli adulti di oggi non hanno più la sicurezza dei genitori di ieri e dell’altro ieri che guardavano al futuro dei figli come a una promessa di miglioramento sociale, economico e culturale. Noi adulti abbiamo beneficiato di genitori sicuri che potevano confidare in un futuro per i figli migliore di quello dei loro padri. Quindi molto meno preoccupati, meno controllanti e ansiosi di quanto lo siano i padri e le madri di oggi, che fanno pressione sulle prestazioni dei figli, soprattutto quelle scolastiche, come opportunità per avere il proprio posto in una società futura che si percepisce come più povera di garanzie. Così, nel passaggio alla scuola superiore l’impegno scolastico diventa prioritario su tutto il resto”. Nell’art. 27 par. 2 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge: “I genitori o le altre persone aventi cura del fanciullo hanno primariamente la responsabilità di assicurare, nei limiti delle loro possibilità e delle loro disponibilità finanziarie, le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fanciullo”. I genitori non devono assillarsi né assillare per il futuro dei figli, ma fare e dare il meglio nel presente senza ansie né aspettative personali, perché il futuro (non prevedibile né preventivabile) appartiene ai figli e alla vita che seguirà. 

Anche la giornalista Renata Maderna sottolinea: “I bambini sono bravissimi, anche senza volerlo, a far sentire in colpa i genitori per quello che non riescono ad avere, ma fortunatamente quando crescono e li senti ricordare qualcosa del loro “passato” ti trovi a stupirti che molte immagini positive riguardano occasioni “piccole” o apparentemente insignificanti e mancano magari ricordi di regali o esperienze costose. La verità è che quel che conta non è la gara, peraltro diseducativa, tra genitori per dare sempre di più, ma la sincerità delle esperienze, i momenti famigliari che, ben lontani spesso dall’essere idilliaci, costituiscono la certezza della vita”. 

“Tutti i giorni della nostra vita ci troviamo di fronte a una scelta: o la sofferenza di amare o quella, ben peggiore, di non amare” (lo scrittore svedese Dag Hammarskjold). In particolare i genitori saranno giudicati per le loro scelte, che generano amore o sofferenza, da giudici inappellabili che sono i figli.

“Un primo presupposto educativo è che i figli, più che di due genitori che “li” amano, hanno bisogno di due genitori che “si” amano” (il giornalista Aurelio Molè). Un primo presupposto di vita per tutti, genitori e non, è amare e amarsi.

Amore per la vita è ristabilire in se stessi e, poi, con gli altri quel primordiale contatto sensoriale che il neonato prova con la madre quando viene alla luce. Questa la biofilia (amore per la vita e tutto ciò che è vivo) che i genitori dovrebbero trasmettere oltre alla vita stessa. Biofilia, ineludibile dovere morale dei genitori, anche e soprattutto nei periodi bui della vita familiare ed extrafamiliare.

Lo studioso gesuita Giovanni Cucci spiega: “[…] l’amore è alla base dell’odio; la ragione della sua sofferenza è di essere un amore disatteso. […] L’affinità tra odio e amore evidenzia la loro caratteristica essenzialmente relazionale, intima e coinvolgente, che è l’aspetto più rilevante di un sentimento. È anche per questo che l’odio non può mai essere oggettivo: esso è sempre il frutto di una rielaborazione personale, legata alla storia vissuta con quel soggetto in quella particolare situazione, ma deformata dalla sofferenza e dal rancore” (2016). Gli adulti, in particolare quando diventano genitori, devono avere la consapevolezza della possibile evoluzione-involuzione relazionale e sentimentale per non incorrere in forme di violenza o dinamiche perverse a danno degli eventuali figli, come la tanto controversa PAS, sindrome di alienazione genitoriale (e il fatto che si discuta sulla sua stessa configurabilità rivela, ancora una volta, la mentalità adultocentrica o adultocentrata nelle questioni riguardanti i bambini).

“La vita di cui dispongo si è formata nelle viscere di colei che adesso muore. Questa stessa persona, nel momento in cui si accomiata dal mondo, mette la sua vita nelle mie mani. Mi dà la sua vita così come, a suo tempo, mi ha dato la mia” (il figlio nel momento del trapasso della madre nel film “Sangue”, 2013). La vita è continuamente dare, dall’inizio sino alla fine: è l’unica spiegazione da dare e da darsi, in qualunque evento, bello o brutto che sia. In special modo la relazione tra genitori e figli è un continuo dare e darsi la vita. È anche questo il senso di alcune disposizioni normative, come quelle sugli alimenti (artt. 433 e ss. cod. civ.).

“Tutto ciò che osserviamo giornalmente condiziona la nostra vita. Mostrare sempre un volto d’amore e di pace trasmette agli altri energia positiva” (citazione tibetana). Sia così la relazione genitori-figli, anche e soprattutto in caso di rottura della coppia del padre e della madre.

“A volte si affonda nelle sabbie mobili del risentimento, della rabbia, dell’odio, della violenza insensata. Più si gesticola e ci si agita, più si affonda. Solo la mano di chi ha bisogno di noi può tirarci fuori” (lo scrittore Bruno Ferrero). I genitori in conflitto tengano conto di questo.

“Non farti mai dire dagli altri chi devi amare e chi devi odiare. Sbaglia per conto tuo, sempre” (la nonna nel film “Mine vaganti”). Quello che dovrebbero dire e trasmettere genitori e educatori. “Mandami tanta vita” (lo scrittore Paolo Di Paolo). I genitori si ricordino di mandare vita in ogni occasione, specialmente nei periodi di crisi in cui, invece, mandano messaggi di non vita. Suggerimenti che si leggono nella Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori (2018), in particolare nel punto n. 2: “I figli hanno il diritto alla spensieratezza e alla leggerezza, hanno il diritto di non essere travolti dalla sofferenza degli adulti. I figli hanno il diritto di non essere trattati come adulti, di non diventare i confidenti o gli amici dei loro genitori, di non doverli sostenere o consolare. I figli hanno il diritto di sentirsi protetti e rassicurati, confortati e sostenuti dai loro genitori nell’affrontare i cambiamenti della separazione”.

Dopo la giornata scolastica un bambino, affidato a una casa famiglia, chiede all’assistente: “Ma stasera esco con mamma?”. Non si rendano i bambini orfani di genitori vivi a causa di scelte egoistiche di apparenti adulti o di scelte inadeguate da parte di figure professionali, a volte superficiali, o scelte legislative forzate da alcune lobby.

“L’uomo è responsabile di quello che fa, di quello che ama e di quello che soffre” (lo psichiatra austriaco Viktor Emil Frankl). L’uomo è quello che fa, quello che ama, quello che soffre e innanzitutto quello che offre di sé: così, in primis, i genitori.

Anche don Antonio Mazzi, in qualità di formatore, richiama l’attenzione: “Lo sono stato anch’io un ragazzetto irrequieto e ho preso da mia madre gli schiaffi che mi meritavo. Allora la società usava mezzi semplici ma efficaci, a tempo giusto, e i genitori erano genitori quando te le davano, ma due minuti dopo erano ancora più genitori quando ti spiegavano, con la pazienza dei contadini, che non si rompono i lampioni delle strade, né si rubano le ciliegie nei campi del nonno. Così i genitori ci hanno educati. Adesso invece ci sono di mezzo il Tribunale dei minori, i giornali che te la raccontano come vogliono e il diritto dei bambini di accusare i genitori di violenza, appena parlano di piccoli castighi e fanno un accenno di schiaffo. Perché i genitori, oggi, sbagliano sempre, cioè non hanno mai ragione”. “[…] inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori” (art. 29 lettera c Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Affinché il bambino acquisisca il rispetto di se stesso, della vita e di tutto il resto occorre che faccia proprio il senso del rispetto dei genitori, primi adulti e primo altro da sé con cui il bambino si confronta.

“Ama i tuoi genitori, se sono giusti, altrimenti sopportali” (lo scrittore latino Publilio Siro). Oggi sono più i figli in tenera età che perdonano i genitori e non il contrario, perché si ritrovano a subire di tutto, dalle scelte sentimentali superficiali ed egoistiche all’essere vittime di separazioni aspramente conflittuali.

Varie sono le situazioni negative in cui i figli subiscono una forma di orfanità, non solo in caso di morte di uno dei genitori. A tale proposito l’art. 9 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia sancisce il diritto di ogni bambino ad avere una continuità nel rapporto con il proprio genitore. L’eventuale detenzione di un genitore impone una condizione specifica nel mantenimento di tali rapporti, ma è altrettanto vero che i momenti di incontro tra genitori e figli dovrebbero essere aumentati e consolidati in vista dell’interesse superiore del minore (art. 3 Convenzione Internazionale). A consentire le relazioni tra le madri detenute e i figli in tenera età si è provveduto con la legge 21 aprile 2011 n. 62 “Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”.

Inoltre, occorre “sviluppare un’ampia strategia per proteggere i bambini di strada e per ridurre il loro numero, inclusa l’identificazione delle cause sottostanti, come la povertà, la violenza nelle famiglie e la mancanza di accesso all’educazione, allo scopo di prevenire e ridurre questo fenomeno e, se possibile, facilitare la riunione di questi bambini con le loro famiglie quando questo corrisponde al loro migliore interesse” (Committee on the rights of the child, Concluding observations on the combined second to fourth periodic reports of Brazil, 2015). Situazione che si può riferire non solo ai “meninos da rua” (bambini della strada) del Brasile, ma a tutti i bambini abbandonati o, in altro modo, lasciati soli lungo la strada della loro vita. I bambini hanno un diritto innato alla vita (art. 6 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), sono la vita stessa, e hanno diritto a conoscere i propri genitori ed essere da essi accuditi (art. 7 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). 

Preparare i figli a essere felici essendo genitori felici di esserlo ed essere: segreto e testamento di vita. Etimologicamente “felicità” significa “fecondità, portare frutti”: l’amore di coppia deve generare un figlio e non il contrario, cioè un figlio cementare un amore di coppia vacillante (come spesso ed erroneamente si pensa e si tende a fare). 

“Siamo chiamati a essere fecondi, a dare fiori e frutti: solo così risplende la vita, solo così risorge dalle ceneri dell’insignificanza” (lo psicologo Simone Olianti): questo il senso dell’essere genitori, chiamati alla vita, chiamati dalla vita.