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Fame di famiglia

Abstract: L’articolo si propone di spiegare l’indispensabilità della famiglia per ogni persona e per la comunità

Il sociologo Francesco Belletti cerca di rappresentare la situazione odierna: “[…] nel drammatico cambiamento d’epoca che stiamo attraversando, carico di ingiustizie, difficoltà, sfide sociali, economiche e sanitarie globali, la “società post-familiare” è certamente una delle questioni antropologiche più pressanti, perché né la felicità delle persone né la coesione sociale delle comunità possono fare a meno della famiglia – che non può diventare irrilevante né indifferenziata” (nell’articolo “Cambia, ma non scompare: la famiglia nella società postfamiliare” del 22-10-2020). Non si può fare a meno della famiglia come si ricava dalla storia e dalle scienze umane tra cui il diritto. Tra le più significative, da ricordare certamente le proposizioni nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e nella L. 184/1983 novellata dalla L. 149/2001 e rubricata “Diritto del minore ad una famiglia”, nella quale è scritto il diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia (il bambino ha diritto a una propria famiglia e non il contrario).

“[…] consideriamo le forze che modificano gli elementi basilari del genoma familiare (figura 3): 1) l’economia capitalista attacca la cultura del dono e introduce nel genoma elementi utilitaristici che oggi sono per lo più di carattere consumistico; 2) il mondo della comunicazione virtuale svuota la norma della reciprocità perché tende a isolare i singoli, che sono connessi al mondo intero, ma non fra di loro; 3) la rivoluzione sessuale modifica profondamente la relazione di coppia mettendo in causa la polarità maschio-femmina con l’apertura ad un numero indeterminato di identità di gender (Lgtbtqia - l’acronimo significa lesbica, gay, transgender, bisessuale, queer/eccentrico/insolito/ non eterosessuale, questioning/indeciso, intersessuale, asessuale e ally/simpatizzante); 4) la generatività fisica viene modificata dalle nuove tecnologie della riproduzione (pratiche eugenetiche, fecondazione artificiale, maternità surrogata) e, domani, forse, all’uso dell’utero artificiale” (dal capitolo 1 del Rapporto Cisf 2020). L’evoluzione della specie umana è avvenuta anche attraverso l’organizzazione della famiglia e del lavoro. La famiglia rappresenta il superamento di ogni individualismo e atteggiamenti simili. Essa può subire una trasformazione ma non deformazione perché è l’unico gruppo in cui sono concentrate varie caratteristiche ed esigenze umane: socialità; soddisfazione di bisogni non solo primari; stabilità; serenità; sentimenti duraturi; sacrifici, speranze e sogni comuni e/o condivisi; spirito di servizio.

La famiglia è, per la psicologa e psicoterapeuta Anna Oliviero Ferraris, “una struttura primaria che assolve alla funzione della riproduzione, allevamento, socializzazione dei bambini e al contempo funziona come stabilizzatore della personalità degli adulti e della loro prole” (in “Famiglia”, 2020). Pur nella sua metamorfosi, nelle sue crisi e nelle sue varie configurazioni, la famiglia è e rimane “quale nucleo fondamentale della società e quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

La famiglia non sempre è sacra, ma talvolta è una sagra o una saga. Infatti, oltre a scardinare le famiglie mafiose, bisognerebbe scardinare anche una certa “cultura mafiosa” che serpeggia in alcune famiglie in cui esiste ancora il cosiddetto “familismo amorale” - locuzione coniata dal sociologo Banfield -, in cui si perpetra ogni forma di violenza nella sottomissione dei suoi membri e nell’indifferenza altrui, in cui si genera il bullismo, in cui si trasmettono disvalori, in cui esiste una subcultura. Non scriversi famiglia all’anagrafe (perché non è questione di stesso cognome o stesso indirizzo) ma sentirsi, stringersi, scoprirsi, scolpirsi famiglia, perché comporta contatto, quotidianità, fatica, creatività. La famiglia dovrebbe essere figlia dell’amore e non faglia dell’amore o, peggio, foglia caduca.

I miti greci (Edipo, Medea, Eracle e così via) hanno preconizzato la psicopatologia della famiglia. In realtà la famiglia è sempre stata patogena o patologica ma oggi sono aumentati la fragilità, la chiusura, l’isolamento, la mancanza di solidarietà.

Anche l’opera teatrale “Natale in casa Cupiello” di Eduardo De Filippo rappresenta l’attualità delle disfunzioni familiari. Non esiste la famiglia perfetta ma la famiglia in cui ci si rispetta. Ogni famiglia è una tragicommedia a sé ma l’importante è fare e dare la propria parte con libertà e responsabilità. Quando un figlio introduce in famiglia un proprio amico o partner deve far conoscere e rispettare “le regole del gioco” della propria famiglia perché ogni famiglia (= casa) è un teatro o presepe o tavola imbandita in cui ci sono propri ruoli o propri posti o un proprio menu e chi arriva deve “osservare” rivelando una grande capacità di “timing”, che è anche la capacità di cogliere il momento più adatto di inserirsi in un “co-ntesto”.

Tutta la famiglia costituisce un sistema di vasi comunicanti come nel corpo umano il sistema linfatico e quello vascolare: ecco uno dei tanti significati dell’aggettivo “naturale” attribuito alla famiglia nell’art. 29 della Costituzione e negli atti internazionali.

Nella famiglia è fondamentale il “rispetto”, dal latino “respicere”, “guardare indietro”. Il rispetto è il guardarsi indietro, è quel momento di dubbio, di ricerca, di riflessione, di sosta, di attesa. Il rispetto è, perciò, un volgere uno sguardo attento, diverso. Nella famiglia, purtroppo, è cambiato anche lo sguardo: prima prevaleva lo sguardo intimidatorio (soprattutto del padre), poi è diventato sguardo d’amore (in particolare quello della madre), oggi lo sguardo è prevalentemente distratto o assente.

“Quante più lacrime ci saranno da asciugare tanto più grande sarà la mia consolazione” (cit.). Famiglia: asciugarsi le lacrime a vicenda e non causarsi lacrime a vicenda. In particolare, bisogna dare il giusto senso e peso alle lacrime dei bambini, distinguere quelle esprimenti un’emozione da quelle “facili” solo per fare capricci e ottenere quello che si vuole o manifestanti una debolezza davanti a un ostacolo. I figli vanno pure educati alla sofferenza, alle frustrazioni, alle cadute che suscitano il pianto.

“Un amore sacrificato è senza senso finché non vi è un’occasione e un bisogno di sacrificarsi” (cit.). Non esiste il sacrificio fine a se stesso, l’amore stesso è sacrificio, “fare cosa sacra”. Della vita rimane quello che si è fatto, quello che si è voluto fare del poco o tanto ricevuto in consegna: la famiglia è tutto questo. Nell’art. 18 par. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si usa il verbo “incombere” riferito ai genitori: un’incombenza è un peso e come tale comporta uno sforzo, un sacrificio ma è la vita che lo richiede e la vita fa binomio con amore. La famiglia è e sia sacrificio ma non sacrilegio del singolo.

La famiglia è come una falda acquifera o un faro o un fan: dà acqua, fonte di vita, è punto di riferimento nelle tempeste e nel buio, fa sentire il proprio supporto nelle prove e nelle sfide, ma la vita è del figlio che la deve vivere secondo la sua personalità e nella quotidianità e non secondo modelli o aspettative altrui.

“[La Repubblica] Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni” (art. 9 comma 2 Cost.). La famiglia, quale “società naturale” (art. 29 Cost.) è il primo paesaggio culturale, emozionale e relazionale da guardare e salvaguardare, è il primo ambiente da tutelare anche nell’interesse delle future generazioni.

Al punto n. 2.3 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, nell’ambito dell’Obiettivo 2 “Porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile” si parla delle “famiglie di agricoltori”, perché la storia dell’umanità è cominciata con le famiglie dei contadini e ogni famiglia ha da prendere esempio dalle famiglie dei contadini. Famiglia: il più bel fiore da coltivare, il più bel frutto da far maturare! 

 

Per un insegnamento di qualità

Nei documenti, anche internazionali, tra gli obiettivi o impegni per il presente e il futuro si parla continuamente di istruzione di qualità, ma cosa o chi determina veramente questa qualità? Il pedagogista Pier Cesare Rivoltella afferma: “Nella complessità in cui viviamo oggi servono insegnanti carismatici, esemplari, delle vere e proprie guide di vita. Se sei umanamente un fantoccio, i ragazzi ti scoprono in 5 minuti. Ogni insegnante deve avere alla base la passione per l’essere umano, la consapevolezza di fare il mestiere più bello e più importante del mondo”. Alla base della scuola ci sono gli insegnanti che è necessario che abbiano una loro base.

Il prof. Marco Pappalardo sostiene: “La nostra professione è fondata sulla parola e sull’esempio. [...] L’azione dei docenti è generatrice di futuro nel momento in cui, attraverso le discipline e la passione per lo studio, invita le nuove generazioni ad amare la vita in pienezza”. Gli insegnanti, coloro che lasciano un segno, sono “generatori di futuro”, per cui non dovrebbero procedere per metodi precostituiti (per quanto formulati da insigni esperti, Montessori, Steiner o altri), per etichettamenti (come, per esempio, il “pessimismo cosmico” di Leopardi), sigle, acronimi (BES, DSA, PTOF, RAV, ...) e affini. La cultura è un processo e non un prodotto.

“Insegnare è creare empatia, saper ascoltare, confrontarsi, dialogare, sorridere, perché solo un ambiente di apprendimento “caldo” ci consente di apprendere di più e meglio, come ci dicono le neuroscienze. Ripartiamo allora dalla relazione educativa basata sull’interazione faccia a faccia, ripartiamo dalla “presenza”, non solo fisica, ma anche emotiva e psichica” (cit.). Insegnare è “in”, entrare in relazione, creare relazioni nuove di giorno in giorno.

Il formatore Raffaele Iosa precisa: “Insegnare a vivere/conoscere attraverso stupore e meraviglia vuol dire creare una relazione empatica tra l’adultità e i nostri piccoli che mette al centro non un lineare e rigido percorso di travasamento del conoscere adulto, adattato a piccole teste, e neppure l’idea che si debba lasciare i piccoli solo in un caotico divertissement”. Insegnare e imparare divertendosi non significa trasformare la scuola in un “divertimentificio” come qualcuno intende fare o già si tende a fare, anche (o soprattutto) per compiacere ai genitori (basti vedere come si svolgono gli open day).

Lo psicologo statunitense Robert J. Sternberg spiega: “Le scuole insegnano ai bambini la conoscenza e a pensare in modo intelligente, ma raramente insegnano la saggezza; anzi, in molte scuole del globo si insegna l’odio per un gruppo o per l’altro. In ultima analisi, se la società desidera combattere l’odio, scuole e istituzioni devono insegnare agli studenti a pensare in modo saggio. Solo a quel punto essi comprenderanno che l’odio non è la soluzione legittima di alcun problema della vita; al contrario, l’odio aggrava i problemi, invece di risolverli” (in «Capire e combattere l’odio», in “Psicologia dell’odio. Conoscerlo per superarlo”, 2007). I bambini e i ragazzi devono mettersi alla prova per provare i loro limiti, conoscerli e riconoscerli negli altri. Accettando se stessi si accoglie l’altro, scoprendo se stessi ci si riscopre nell’altro, schiudendosi ci si apre all’altro. L’altro è specchio riflettente o deformante la realtà, ma comunque rappresentante la realtà. È questa la dimensione che deve essere recuperata e valorizzata nella famiglia, nella scuola e negli ambienti di vita dei bambini e dei ragazzi. Così si promuove lo sviluppo della personalità del fanciullo e si inculca nel fanciullo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 29 lettere a e b Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Nei confronti dei bambini bisognerebbe adottare la “pedagogia della tartaruga” sulla scia della “pedagogia della lumaca”, formulata dal compianto Gianfranco Zavalloni. “Come insegnanti siamo persuasi dalla logica della lepre che corre per vincere, ma non ama il percorso che compie facilmente? Oppure, almeno idealmente, conserviamo ancora in un angolo della consapevolezza la solidità della tartaruga: un passo alla volta, incurante di chi la beffeggia, protetta dal fermo guscio della dedizione per giungere al traguardo, perdendo il tempo necessario” (prof. Luciano Pace).

Il pedagogista Daniele Novara ammonisce: “Il buon insegnante non funge da “bancomat” di lezioni, “spiegoni” e contenuti nozionistici. Assume piuttosto un ruolo di regia volto a far lavorare gli alunni tra di loro, a costruire calde e intense interazioni sociali che consentano alla classe di funzionare come organismo vivo. Motiva e favorisce lo scambio sia per star bene assieme sia per lavorare bene assieme”. C’è differenza tra insegnante, buon insegnante e insegnante buono: la capacità e il coraggio di fare la differenza. Tra gli adulti di riferimento per bambini e ragazzi gli insegnanti hanno ancora più responsabilità perché dovrebbero essere preparati e qualificati e c’è anche l’atto di affidamento da parte dei genitori.

Daniele Novara si chiede: “Esiste un numero ideale di alunni per classe? Dipende. Certo è che, oltre al numero adeguato di studenti, fondamentale è occuparsi della formazione metodologica e didattica degli insegnanti”. Prima di mirare alle cosiddette “life skills” (competenze trasversali per la vita) degli alunni, gli insegnanti dovrebbero maturare ed essere padroni e consapevoli delle proprie competenze fondamentali, che non sono solo quelle culturali che si acquisiscono con la laurea o corsi di formazione (o pseudotali).

A scuola non sono adeguate né le “classi pollaio” né le “classi bonsai”. Il pedagogista Novara aggiunge: “Anche se va detto che risulta comunque difficile stabilire la misura giusta una volta per tutte. Ecco allora che la professionalità pedagogica diventa decisiva, a maggior ragione in contesti problematici”. Insegnare non è tanto far acquisire competenze trasversali quanto esercitare competenze trasversali, a cominciare dal cosiddetto sguardo pedagogico che, purtroppo, si è perso.

“La scuola dovrebbe essere – secondo la dirigente scolastica Tiziana Brindisi – un continuo programmare e riprogrammare: lo spazio, i tempi, i contenuti”. Un conto è programmare, altro è la programmazione didattica che è concertata solo tra o dagli insegnanti dal loro punto di vista e dimenticando spesso chi li aspetta in classe in una relazione di insegnamento-apprendimento. Altro che don Milani!

L’insegnamento non è fatto di cose, ma di esperienze, condivisione del sé, di incontri, di imprevisti. Si ricordi che l’art. 33 della Costituzione, dove si parla dell’insegnamento, è inserito sotto la rubrica “Rapporti etico-sociali”.

“Il lavoro dell’insegnante non è semplice, è come un mosaico che gli anni di esperienza, le metodologie, le tecniche e i sempre nuovi studi effettuati nell’ambito psico-pedagogico, vanno a comporre, ma affinché il lavoro risulti realmente fatto bene, non devono mai mancare l’entusiasmo, la voglia di imparare, la capacità di sorprendersi... e fare tutto questo insieme ai nostri alunni” (cit.). Insegnare è un continuo aggiornare e aggiornarsi, per esempio conoscere e provare l’efficacia del “controllo prossimale” (avvicinarsi ai bambini e ragazzi che “disturbano”) e dell’“effetto onda” (effetto di un “rimprovero” su tutta la classe) in caso di “comportamenti problematici” e sperimentare nuove metodologie. Insegnare non è inserire dati, ma insaporire, instaurare, insistere, insieme di relazioni, situazioni ed emozioni. Non è inserire pillole di sapere ma instillare emozioni per il sapere. E, soprattutto, autenticità.

“Proporre ai bambini libri che siano profumati di autenticità” (l’esperto Federico Batini in un webinar del 7 dicembre 2023). Gli insegnanti devono proporre letture non sulla scia di successi commerciali o perché sono dei “classici” (che non è detto che vadano sempre bene) o come riempitivo, ma quelle in cui loro credono per primi, di cui sono convinti, che suscitino passioni e discussioni, che abbiano pensato per quei bambini, che abbiano profumo di vita.

Inoltre, genitori e insegnanti devono tener conto dell’esistenza della “biologia della gentilezza” (e non solo della giornata mondiale della gentilezza), spiegata da Daniel Lumera, secondo cui ognuno ha il potere di controllare e influenzare il proprio stato di salute e di benessere, in altre parole il cambiamento in termini di consapevolezza nel proprio mondo interiore influisce positivamente anche sui parametri biologici e sulla qualità della vita personale, relazionale e professionale. La pratica della gentilezza può migliorare, nel caso dei genitori, il clima familiare, nel caso degli insegnanti la gestione della classe, le relazioni con colleghi e genitori e il rapporto tra gli alunni. “Gentile” deriva dal latino “gens”, “gente, stirpe, famiglia”, per cui è proprio dell’essere umano. La gentilezza richiama lo svolgimento della personalità e la solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione.

L’insegnante, più che spiegare argomenti, deve dispiegare argomenti di vita: insegnare non è intasare ma intarsiare. 

 

 

Intorno agli adolescenti

Sintesi: L’adolescenza è, fra tutte, l’età umana dell’ermetismo

Abstract: L’articolo si propone di esplorare gli spazi, sia quello esterno sia quello interno, degli adolescenti, offrendo agli adulti una chiave di lettura di questa fase della vita

 

Tra gli scritti più acuti e sempre attuali sugli adolescenti spiccano quelli della filosofa spagnola Maria Zambrano: “L’adolescenza è, fra tutte, l’età umana dell’ermetismo. Da qui la violenza, l’angoscia, la finta mancanza di preoccupazioni che patisce e con cui si presenta. Il mondo è troppo pieno per colui che viene dall’infanzia senza essere ancora entrato in quella certa apertura che dà la gioventù. L’adolescenza patisce della mancanza di spazio, del pieno del mondo che lo circonda e del pieno del suo proprio mondo interiore formato dai suoi sentimenti, dai suoi pensieri, dalla chiusura della parola dentro di lui. Patisce, per un modo nuovo di stare nel tempo che lo distingue sia dal tempo dell’infanzia, sia dal tempo che l’attende: quello della gioventù”. Bisogna accostarsi nei confronti dell’adolescenza come si fa per l’ermetismo in poesia: capacità di interpretazione, silenzio, ascolto, pathos, non omologazione. L’adolescenza è una prova delle competenze genitoriali e adulte in generale, è uno step per la genitorialità.

 

Maria Zambrano aggiunge: “E gli adulti dovrebbero guidare con pazienza e sottigliezza l’animo dell’adolescente verso la scoperta del fatto che, quasi sempre, quando ci si sente defraudati dalla vita è perché la si defrauda da sé: non vi è frode più seria di quella che si fa a se stessi”. Ci si deve avvicinare agli adolescenti non per impartire lezioni di vita ma per proporre letture dello stesso libro della vita, per condividere lo stesso magone che procura l’andare avanti verso l’ignoto.

 

L’adolescenza può essere considerata una forma di lutto, perché durante la metamorfosi (che è la morte del bruco) il ragazzo vive la morte dell’infanzia e la morte dell’immagine perfetta dei genitori. Anche per questo è ancor più necessario che i genitori educhino, man mano, alla morte (cosiddetta Death Education). La psicoterapeuta Maria Luisa Algini spiega: “La differenza fondamentale tra il lutto degli adulti e quello dei bambini è che i primi possono riconoscere il dolore con le categorie di pensiero che possiedono, con le quali danno un nome alle loro emozioni, mentre i bambini non possono farlo senza l’aiuto di un adulto che li accompagni e offra gli strumenti interpretativi di cui essi hanno bisogno. Il dolore infantile, quanto più è intenso, tanto più resta un segreto che i bambini nascondono anzitutto a se stessi. Perché devono poter crescere e attingere risorse come e dove possono. Salvo poi lasciarlo debordare attraverso segnali oscuri e preoccupanti” (in “Le ferite invisibili. Sui bambini e la morte dei genitori”, 2016). “Quando i diritti del bambino o dell’adolescente sono negati da condizioni dell’esistenza inique, quando i suoi punti di riferimento sono compromessi, è possibile aiutarlo a ritrovare la fiducia nella vita e la stima di sé. 

 

Il bambino possiede in lui importanti risorse. Esse si rivelano se egli può dialogare, essere ascoltato con affetto e rispetto, essere difeso” (dalla Charte du BICE, Paris 2007).

 

Un altro problema che esplode durante l’adolescenza è il bullismo di cui si “pre-occupano” in tanti. Denuncia e contrasto del fenomeno del bullismo; fare “squadra” contro paura e omertà; tentativi di reintegrazione del bullo nella società; uso dell’arte per canalizzare l’energia del bullo; concetto dell’amicizia e del perdono; relazioni in classe e nel gruppo di amici; amori adolescenziali. Questi i messaggi del “romanzo sinfonico” (libro cartaceo arricchito da contenuto digitale), “La teoria della Giostra – Storia di un bullo salvato dalla musica” (2021) del musicologo Giacomo Sances (il cui slogan è “La musica commuove, la musica libera, la musica trasforma!”). I ragazzi hanno bisogno di questo, di musica o di altre forme di arte e non di spettacolarizzazione di ogni cosa.

 

Dalla seconda Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia (condotta, tra il 2018 e il 2020, da Terre des Hommes e CISMAI, per conto del Garante nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza), risulta che la forma di maltrattamento principale è rappresentata dalla patologia delle cure (incuria, discuria e ipercura) seguita dalla violenza assistita. La famiglia, purtroppo, può essere la prima fucina di violenza, spesso invisibile e inconsapevole, perché i genitori calpestano i sogni dei figli, ignorano i loro veri bisogni, ne anticipano i desideri, si sostituiscono in tutto, pensano solo a cose materiali, non chiedono il parere in caso di trasloco o altre decisioni. “Si registra una grande difficoltà nel riconoscere l’esistenza della violenza ai danni dell’infanzia, difficoltà che si riflette a tutti i livelli: nella società nel suo complesso, nelle città e nei paesi, nelle scuole e nelle singole famiglie. La reazione collettiva e individuale, legata a fattori culturali, educativi e relazionali, ampiamente documentata anche a livello scientifico, coincide sovente con un meccanismo di negazione e di minimizzazione del fenomeno. Guardare alla violenza nei confronti dei più piccoli costringe a riconoscere una realtà drammatica, così come impensabile è che essa sia posta in essere da chi avrebbe l’incarico e la responsabilità di proteggere e guidare una crescita armoniosa dei bambini e degli adolescenti. Riconoscere che ciò avvenga nella società alla quale apparteniamo, nella comunità locale e all’interno delle famiglie, come purtroppo ci riportano le ricerche del settore, impone un processo di presa di coscienza difficile e doloroso” (dal Capitolo 1 del report della seconda Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia, pubblicata ad aprile 2021).

 

Lo sfruttamento minorile non consiste solo nel far lavorare i bambini prima del tempo consentito ma anche “sfruttare” la loro immagine, il loro tempo, le loro prestazioni per soddisfare sogni, aspettative, programmi degli adulti sia in famiglia sia a scuola sia in altri settori, per esempio recite scolastiche o attività sportive agonistiche, velleità artistiche scelte e praticate solo per compiacimento degli adulti, genitori o altri adulti di riferimento. Ci si lamenta, poi, quando gli adolescenti non si impegnano, implodono, vivono di immagine e di immagini, non coltivano sogni, sono materialisti dimenticando che qualche adulto li ha indotti o ridotti a diventare così.

 

I giovani non hanno bisogno di sermoni ma di parole feconde ispirate e ispiranti coraggio e responsabilizzazione. Nelle Linee guida sull’infanzia e l’adolescenza (a cura dell’AICS, giugno 2021) si legge al punto 4.9: “[…] la comunicazione deve promuovere autostima e fiducia nei minori e presentarli come protagonisti attivi delle proprie storie e del cambiamento positivo nel mondo; nel dare voce ai minori, occorre evitare che questa sia il mero riflesso di prospettive instillate dagli adulti”.

Il rapporto tra adulti e giovani generazioni dovrebbe basarsi sulla responsabilità, parola e atteggiamento da recuperare: essere consapevoli della responsabilità che si ha nei confronti di bambini e ragazzi per responsabilizzarli a loro volta. Nelle Linee guida sull’infanzia e l’adolescenza (a cura dell’AICS, giugno 2021) è ripetuto più volte l’appello alla responsabilità e, tra l’altro, si legge: “Promuovere un percorso di appropriazione di responsabilità e consapevolezza del ruolo che ognuno è chiamato ad avere nella promozione di valori universali quali la giustizia, l’uguaglianza, la dignità e il rispetto” (punto 4.3.2 “Educazione alla cittadinanza globale”).

 

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro scrive: “I ragazzi e le ragazze, oggi come ieri, starebbero a lungo in bagno se l’organizzazione familiare e i loro stessi impegni lo consentissero. Del resto un tempo le abluzioni, l’evacuazione, la cura del corpo erano considerate attività sacre da svolgere con lentezza, con tutto il tempo necessario. Ma dietro quella porta chiusa troppo a lungo, l’adulto sospettoso (perché ricorda cosa faceva lui a quell’età, quando poteva chiudersi in bagno) non pensa a nulla di sacro ma a molto di peccaminoso, fumo, masturbazione e chissà che altro. Ma il ragazzo o la ragazza hanno bisogno talvolta di stare semplicemente seduti sul water a leggere o davanti allo specchio per osservarsi, piangere, fare le boccacce, tentare di ovviare o compensare difetti, simulare emozioni (rabbia, gioia, amore, spavento...) o atteggiamenti seduttivi o spavaldi. Le operazioni routinarie della toilette sono un’occasione per toccarsi, manipolarsi, accarezzarsi. L’esplorazione del corpo, in adolescenza, avviene sì nella riservatezza della stanza da bagno ma avendo sempre bene in mente che quel corpo dovrà uscire nel mondo, perché a quell’età bisogna essere all’altezza dell’ambiente che frequentiamo, del gruppo dei pari, ed essere almeno accettati se non proprio ammirati o amati. E qui l’ansia per reali o presunte nostre deficienze, troppo o troppo poco, troppo lungo o troppo corto, troppo grasso o troppo magro, quel troppo e quel poco che presuppongono standard di riferimento che è il mondo esterno a imporci”. I figli, in particolare durante l’adolescenza, hanno diritto alla loro vita privata, a entrare in sintonia con loro stessi, andare oltre la loro pelle, cogliere la differenza tra corpo e corporeità, perché sin dalla nascita invece sono in qualche modo “oggettivizzati” perché vengono mostrati come figli, vestiti, puliti, nutriti, accompagnati e così via, anche oltre il necessario. È una questione di salute e libertà.

 

E l’adolescenza è un’istanza di salute (letteralmente “salvezza”) e libertà (nel diritto romano “libero” era chi nasceva da genitori liberi) da parte della vita stessa, di ciclo in ciclo.

Genitorialità, generosità e onerosità

Abstract: Cosa significa essere genitori? L’articolo tenta di dare una risposta attraverso diversi piani di lettura.

Fare i genitori è sempre stato difficile ma nella società ipercomplessa e iperconnessa lo è ancora di più, per cui molti decidono di non farlo non diventando genitori o desistono dal farlo diventando genitori arrendevoli, assenti o altro.

“Lasciare il mondo un poco migliore, / Che sia un bambino sano, / Un giardino fiorito / Una situazione di degrado riscattata. / Sapere che almeno una vita ha avuto un respiro più facile / Perché c’eri tu. / Questo è avere successo” (lo scrittore Ralph Waldo Emerson): così dovrebbe essere la genitorialità.

È nella natura dei genitori fare errori ma c’è qualcuno che ne commette qualcuno in più e anche grossolanamente, soprattutto quando non si mette in ascolto (e non sulla difensiva) di chi glielo fa notare e dei figli stessi (e non dei loro capricci e dei loro “voglio” o “non mi piace”). Uno degli articoli più significativi della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia è l’art. 5 in cui si legge “responsabilità, diritti e doveri dei genitori” e al tempo stesso “famiglia allargata” e “comunità”, per cui per arginare gli errori e sentirsi più sostenuti nella genitorialità bisognerebbe fare “rete familiare” di cui si parla.

I genitori, più che essere apprensivi nei confronti dei figli, dovrebbero apprendere dai figli, perché i figli richiedono pazienza, entusiasmo, fiducia, concisione e altri atteggiamenti e strumenti che, quindi, si imparano solo nell’esercitare la genitorialità con i figli che si hanno di fronte e non quelli idealizzati o desiderati. Essere genitori è guidare i figli ma anche farsi guidare da loro (come si ricava anche leggendo tra le righe la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, specialmente l’art. 18).

I genitori non possono essere e non devono aspirare a essere perfetti ma genitori per, con e di quel figlio, di quei figli. La genitorialità non è perfezione da manuale, ma una relazione fatta di situazioni, reazioni ed emozioni, in base al momento, di momento in momento.

Il sociologo Donati Pierpaolo scrive: “Da tempo si stanno diffondendo varie modalità di avere un figlio, che prescindono dalla relazione fra due genitori naturali, mediante tecniche di laboratorio che combinano i gameti maschili e femminili ricevuti da varie persone. Ci si chiede allora: in queste condizioni, chi o che cosa genera un figlio? Chi è “genitore”? Lo è chi dona il materiale biologico, o lo sono i tecnici del laboratorio, o chi si assume il compito di prendere con sé e allevare il nascituro? La risposta deve essere data dal punto di vista del figlio, e non solo dal lato della genitorialità. L’identità personale del figlio giace nella relazione fra coloro che lo hanno generato. 

Chi genera non sono gli individui come tali; chi genera è la loro relazione. Questo è il punto che bisogna comprendere: ciò che qualifica come umana la generazione di un figlio è la struttura uomo-donna e la qualità intersoggettiva di quella relazione. Infatti, per portare i cambiamenti indotti nella procreazione dalla tecnologia ad essere virtuosi e non patologici, occorre prendere atto che le relazioni sono una cosa seria, cioè sono il fondamento della nostra realtà umana, in tutte le sue dimensioni, culturali, psicologiche, sociali, giuridiche. Il rischio è allora quello che le moderne tecnologie finiscano per frantumare, sbriciolare le relazioni, rimuovendo così anche quello che definisce l’“enigma della relazione tra generante e generato”, da cui in definitiva dipende la nostra personale identità” (in “Generare un figlio. Che cosa rende umana la generatività?”, 2017). In particolare dagli artt. 7, 8 e 9 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si ricava come i “propri genitori”, la “propria identità” e le relazioni familiari siano correlate e fondamentali per il bambino.

Lo psicoanalista Massimo Recalcati ha affermato: “I genitori adottivi coincidono con l’essenza della genitorialità” (nella lectio magistralis del 15 febbraio 2020 a Matera). Tutti i genitori dovrebbero comportarsi come quelli adottivi: seguire un lungo iter di preparazione, accogliere figli con la consapevolezza che non appartengono a loro, essere pronti a tutto (per esempio, nel caso dell’adozione, la ricerca dei genitori biologici da parte del figlio) e altro ancora.

Secondo i sociologi Chiara Giaccardi e Mauro Magatti “[...] l’essere umano non domina la natura, ma dal suo grembo è stato generato: da questa consapevolezza dobbiamo partire per provare dunque a costruire un mondo e delle relazioni differenti, che ci permettano di trovare un equilibrio continuamente da ripensare. Un equilibrio che tenga conto di confini permeabili che, pur salvaguardando la nostra identità, permettano quello scambio continuo che è alla base della vita”. In egual modo la genitorialità e ogni relazione educativa sono una continua ricerca e costruzione di equilibrio tra “confini permeabili”.

Tra gli stili genitoriali inadeguati sono quelli dei cosiddetti “genitori performanti” e “genitori ipercritici”. In entrambi i casi i genitori sono preoccupati dei risultati, tendono a intervenire troppo e a vedere le situazioni dal loro punto di vista e non considerano i figli nella loro soggettività. Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si parla di “allevare” (= sollevare) il bambino e che il bambino non deve essere sottoposto a “interferenze arbitrarie” (art. 16 Convenzione) e questi parametri dovrebbero guidare i genitori e dare loro la misura dell’esercizio della genitorialità.

La formatrice Silvia Iaccarino spiega: “Quando un adulto è a disposizione, nel contesto attuale, rischia di diventare un genitore elicottero o spazzaneve, una figura che accorre in salvataggio alla minima difficoltà oppure spiana la vita dei figli e delle figlie per renderla liscia e senza ostacoli. Appena il bambino, la bambina, ha una fatica o un inciampo, il genitore corre in suo aiuto 

e a volte si sostituisce. Insomma, un’eccessiva oblatività dell’adulto verso il bambino/a. Questo atteggiamento non aiuta, perché scioglie i confini personali dell’adulto e non permette al bambino/a di sperimentarsi nell’attraversare le fatiche e le contrarietà della vita. Un genitore presente all’eccesso nella vita dei bambini e delle bambine è una persona che trasmette un modello di adulto sacrificale, che è sempre pronto a mettersi in secondo piano per i figli e le figlie. Un modello non favorevole: il bambino, la bambina potrebbe pensare che ogni adulto sia al suo servizio, pronto a risolvere qualsiasi problematica, da un lato e, dall’altro, potrebbe non incorporare l’idea di poter a sua volta stabilire dei confini personali”. In passato gli adulti si facevano aiutare dai bambini nel fare i servizi domestici e li educavano a eseguirli, oggi invece gli adulti sono così servizievoli nei confronti dei bambini da sembrare meri esecutori dei loro ordini e capricci (cosiddetti “bambini tiranni” o “con la sindrome dell’imperatore”) e così imparano negativamente a “servirsi delle persone”. Un paradigma per una “sana” genitorialità è l’art. 27 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, innanzitutto la locuzione “nei limiti delle loro possibilità e delle loro disponibilità finanziarie” (i genitori non devono annientarsi per fare o dare l’inverosimile).

Il sociologo Francesco Belletti commenta: “Per affrontare la tragedia dell’inverno demografico quindi non bastano i sostegni economici: serve una vera rivoluzione culturale, che trasformi il tema puramente demografico della natalità nel valore sottostante, la generatività. La demografia interessa ai governi e alle aziende, la generatività è il movimento di libertà di una coppia di giovani che scommettono sulla bellezza della vita. Solo l’azione di questa libertà renderà il nostro popolo più capace di accogliere nuove vite. È la generatività, inoltre, che sa superare la pura genitorialità biologica, diventando accoglienza anche a chi una famiglia non ce l’ha, offrendo una famiglia attraverso adozione, affido e ogni altra forma di accoglienza familiare. Perché ogni nuova vita è una risorsa per l’intera società, e ha diritto all’accoglienza non solo dei propri genitori naturali, ma da parte dell’intero villaggio umano” (in un articolo del 26-01-2022). L’inverno demografico che caratterizza i cosiddetti paesi occidentali è determinato non tanto dalla preoccupazione dell’esaurimento delle risorse quanto dalla mancanza della generatività dell’amore. I bambini hanno semplicemente “un diritto innato alla vita” (art. 6 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e di “crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” per il pieno ed armonioso sviluppo della loro personalità (dal Preambolo della Convenzione).

Massimo Recalcati aggiunge: “Nell’Antico Testamento donne come Sara, Rachele erano sterili ma, poi, sono diventate madri in tarda età per un miracolo, per la generatività della parola”. I figli, i bambini sono il miracolo della vita, della sua forza autopoietica.

La respons-abilità genitoriale

Abstract: L’articolo mette in luce le lacune nel rapporto genitori – figli evidenziando l’esigenza sociale che gli adulti assumano consapevolmente il proprio insostituibile ruolo educativo

Attualmente molti esperti di scienze umane, dal diritto alla pedagogia, si occupano della genitorialità. Tra questi lo psicoanalista Massimo Recalcati: “Il mestiere del genitore non può essere ricalcato su di un modello ideale che non esiste. Ciascun genitore è chiamato a educare i suoi figli solo a partire dalla propria insufficienza, esponendosi al rischio dell’errore e del fallimento. […] I genitori peggiori – quelli che fanno più danni ai loro figli – non sono solo quelli che abbandonano le loro responsabilità, evadendo il compito educativo che spetta loro, ma anche quelli che misconoscono la loro insufficienza. […] Nell’attualità non prevale tanto il genitore-educatore, ma il suo rovescio speculare: la figura del genitore-figlio. Si tratta di quei genitori che abdicano alla loro funzione, perché sono troppo prossimi, troppo simili, troppo vicini ai loro figli. […] si assimilano simmetricamente alla giovinezza dei loro figli” (in “La confusione delle generazioni - Il compito dei genitori” da “Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre”, 2013). Sempre più genitori sono “genitori-figli”: piangono quando i figli devono essere sottoposti ai vaccini, sono turbati quando vedono piangere i figli nel momento del distacco all’ingresso nella scuola dell’infanzia, hanno gli stessi gusti musicali dei figli sin da piccoli e così via. Sono invalse l’adultizzazione dei bambini e l’infantilizzazione degli adulti, nonostante gli accorati appelli inascoltati degli esperti. I genitori, invece, devono porsi in una posizione asimmetrica. Devono innanzitutto avere la consapevolezza dell’essere genitori che comporta essere educatori (che richiede il correggere e l’intervenire) dei propri figli e non amici (che sono complici e ammiccanti). Si ricavano varie indicazioni anche dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare dall’art. 18 relativo al ruolo dei genitori, ove si parla di “allevamento” e “sviluppo” del bambino: i genitori devono avere la posizione e la forza di tirare su e fuori e per questo occorre essere “più alti” e “più grandi”.

La situazione giuridica della potestà genitoriale è stata sostituita (ed esautorata) dalla responsabilità genitoriale. La responsabilità, oltre ad essere una figura giuridica, è la capacità di dare risposte di vita, risposte alla vita. Presuppone coscienza, consapevolezza, contezza di sé, in altre parole adultità della propria personalità e anche del rapporto di coppia. “Il dolore, il male e la morte in sé sono forme di tradimento della promessa che la vita porta in sé. Promessa di giorni buoni e pieni di senso da trascorrere nella serenità possibile. Solo dentro questa promessa possiamo generare figli e speranza” (la scrittrice Mariapia Veladiano).

Si potrebbe parlare di una sorta di responsabilità pre-genitoriale. “Innamorarsi della persona sbagliata se non è una colpa, è comunque una responsabilità!” (la scrittrice Ilaria Guidantoni, a Matera il 29-11-2013). A ogni libertà corrisponde altrettanta responsabilità, anche quella di procurare sofferenze ad eventuali figli e al resto del parentado.

La disciplina della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio, formulata negli artt. 315 e ss. cod. civ., come novellati dalla L. 10 dicembre 2012 n. 219 “Disposizioni in materia di riconoscimento di figli naturali” che ha eliminato la potestà genitoriale e determinato la riforma della filiazione, sembra rispecchiare il “principio responsabilità” del filosofo tedesco Hans Jonas, secondo cui, tra l’altro, la relazione genitori-figlio è l’archetipo della responsabilità non reciproca, per cui le future generazioni non hanno la possibilità di esercitare un contro-potere di compensazione in quanto qualunque cosa facciano, metteranno in atto la legge imposta alla loro esistenza dal potere che ha governato il loro ingresso nel mondo. Stando a questa teoria, ai genitori, quindi, non sarebbe più attribuita alcuna potestà perché i figli sono i titolari del potere della vita e detentori del futuro ma nulla toglie che essi siano tenuti al rispetto, come si ricava dall’art. 315 bis ultimo comma cod. civ.. I figli devono condurre la propria vita come un’automobile nella quale, però, devono sempre volgere lo sguardo agli specchietti retrovisori.

Lo psicologo e psicoterapeuta Osvaldo Poli spiega: “Non si può fare il genitore di chi si rifiuta di riconoscersi figlio. Eppure, esiste un modo di amarli, nonostante tutto, dentro il dolore dell’impotenza … Si può essere sereni anche nel dolore, perché la serenità non dipende dagli esiti (quelli dipendono dal figlio), ma dal proprio dovere compiuto fino in fondo. Invece di corrergli dietro, ci si dispone ad attenderlo, nella speranza sempre viva che le circostanze della vita lo aiutino a capire ciò che non ha voluto apprendere. C’è molto amore nell’attesa” (in “Aiuto, ho un figlio impossibile. Come sono i caratteri difficili e come si gestiscono”, 2019). Essere genitori è aspettare e non aspettarsi e, purtroppo, la novella legislativa del decreto legislativo 28 dicembre 2013 n. 154, abolendo ogni riferimento alla potestà e riferendosi solo alla responsabilità genitoriale (art. 316 cod. civ. come sostituito) ha caricato ancor di più i genitori esponendoli a critiche e rivendicazioni dei figli, “giudici inclementi e inappellabili”.

Il filosofo canadese Jean Vanier afferma: “La relazione è una ferita, ma noi nasciamo da essa”. Ai figli, e in genere ai bambini, bisogna prevenire ma non impedire le ferite, da quelle fisiche a quelle relazionali, perché la storia di ognuno è tracciata anche da ferite. “Ogni bambino ci dice a suo modo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama alla nostra responsabilità” (dalla Charte du B.I.C.E., Parigi, giugno 2007).

“Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo disperatamente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile!” (il poeta Rainer Maria Rilke, in una lettera

del 1925). Basta una parola per portare nella vita degli altri un po’ di miele o un’altra parola per portare fiele: così la sensibilità e la responsabilità dei genitori, “api dell’invisibile” nella vita dei figli e nella vita in generale.

“Ritrovare il senso della responsabilità personale, e insegnarla ai più piccoli, è la più grande sfida di questo secolo” (lo scrittore Bruno Ferrero). Vivere è con gli altri. Con gli altri si manifesta la propria personalità e si sperimenta la propria libertà. Responsabilità è saper esprimere la propria personalità e gestire la propria libertà. Non è vero che non si fa niente o non si può fare niente nella vita degli altri; con la propria vita si incide sempre nella vita degli altri, con l’esserci o col non esserci, nel bene e nel male: a cominciare dai genitori e soprattutto genitori e educatori, che sono i primi e più significativi a dare e dire la vita e della vita.

Il bioeticista Paolo Marino Cattorini scrive: “La miseria, la fame, la malattia, il confino trasformano a volte le vittime in carnefici. Si trova sempre qualcuno più fragile, su cui riversare le torture subite. Il compatimento retorico non è l’atteggiamento educativo consigliabile verso chi si vendica cinicamente e brutalmente dei torti patiti nella lotteria naturale e sociale. Si può uscire da questa deriva morale? E come”. Bisogna credere e investire di più nelle relazioni umane, nell’infanzia dell’umanità.

“La nostra responsabilità è quella di non fingere. Non possiamo essere qualcosa che non siamo” (cit.). Essere se stessi: le foglie fanno le foglie fino alla fine, anche quando ormai secche e trasportate dal vento, allietano le giornate autunnali con i loro colori. Così genitori e figli restano tali, nelle gioie e nei dolori. Di questo devono avere consapevolezza tanto i genitori quanto i figli.

La Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 22541 del 10 settembre 2019 relativa a un episodio di bullismo, sulla responsabilità gravante su genitori dei minori ai sensi dell’art. 2048 cod. civ., ha chiarito che la prova liberatoria loro richiesta dal terzo comma della norma codicistica coincide con la dimostrazione: a) di aver impartito al minore una educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari; b) di aver esercitato su di esso una vigilanza adeguata all’età e finalizzata a correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di un’ulteriore o diversa opera educativa. A tal fine, si legge nell’ordinanza, non è certamente necessario che il genitore provi la costante ininterrotta presenza fisica accanto al figlio (pena la coincidenza dell’obbligo di vigilanza con quello di sorveglianza di cui all’art. 2047 cod. civ.). Occorre, piuttosto, che per l’educazione impartita, per l’età del figlio e per l’ambiente in cui egli viene lasciato libero di muoversi, risultino correttamente impostati i rapporti del minore con l’ambiente extrafamiliare, facendo ragionevolmente presumere che tali rapporti non possano costituire fonte di pericoli per sé e per i terzi. Altrettanto, precisa la Cassazione, appare del tutto irrilevante che il fatto illecito si sia svolto lontano da casa, giacché l’obbligo di vigilanza per i genitori del minore capace non si pone come autonomo rispetto all’obbligo di educazione, ma va, piuttosto, correlato a quest’ultimo. I genitori, ovvero, devono attivarsi affinché l’educazione impartita sia consona e idonea al carattere e alle attitudini del minore e che quest’ultimo ne abbia “tratto profitto”, ponendola in atto, in modo da orientarsi (quell’orientamento di cui si parla nell’art. 5 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) a vivere autonomamente, ma correttamente. La Corte di Cassazione ha rimarcato, perciò, la fondamentale e insostituibile funzione educativa dei genitori e la loro responsabilità non solo “endofamiliare” ma “esofamiliare”, una vera responsabilità “sociale” e non solo “civile”. Dall’educazione dei genitori dipende anche il “diritto al futuro” dei figli e conseguentemente il futuro di tutti.