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Luci e ombre della scuola dell’infanzia

“La scuola, per esempio, è un’istituzione al servizio degli alunni. Lo diceva anche don Lorenzo Milani [...], il quale affermava che per essere moderna una scuola deve avere la porta aperta sul mondo. Quindi, il principio secondo cui nessuno deve restare indietro e rimanere escluso è la condicio sine qua non perché una scuola sia davvero accogliente” (il giornalista Claudio Imprudente). La scuola che corrisponde a quest’immagine è la scuola dell’infanzia in cui l’accoglienza è un aspetto sostanziale che, invece, dovrebbe essere presente in ogni scuola perché la scuola è un ambiente di vita quotidiana in cui ogni bambino o ragazzo ci entra e ci rimane non solo come alunno ma come persona in fase di crescita (si legga, tra l’altro, l’art. 2 Cost.).

Lo psicologo Ezio Aceti ha proclamato: “La scuola dell’infanzia è la scuola più importante del mondo. È scuola, non università” (in una lectio magistralis a Matera il 9 ottobre 2023). In Italia la scuola dell’infanzia è l’unica a essere denominata con un complemento di specificazione e non con un aggettivo, come avveniva prima quando era chiamata “scuola materna”. Questo dovrebbe far riflettere genitori, operatori scolastici e adulti tutti.

La formatrice Maurizia Butturini afferma: “Educatori e insegnanti del nido e della scuola dell’infanzia, con un pensiero pedagogico, predispongono situazioni ed esperienze per rispondere ai bisogni di ciascun bambino e bambina, per conoscerlo nella propria unicità e per poi progettare in sintonia con potenzialità e interessi di tutti”. Lavorare con i bambini dagli 0 ai 6 anni d’età richiede pazienza, passione, professionalità, programmazione e progettazione. Non è un lavoro basato sull’improvvisazione o spontaneismo, ma deve tener conto della spontaneità e delle altre caratteristiche di quell’età. È una professione, però, che ha una scarsa considerazione sociale e scarso ascolto dalle autorità competenti nei vari settori (a cominciare dall’edilizia scolastica).

“La scuola dell’infanzia rappresenta il momento di massimo sbilanciamento tra il “cervello emotivo” pienamente funzionante e il “cervello razionale” deputato all’autoregolazione e ancora in via di sviluppo. Questi anni sono caratterizzati da continue turbolenze emotive che, se adeguatamente gestite dall’adulto, possono andare a formare la base per lo sviluppo di una personalità serena, autoconsapevole e flessibile. Se queste turbolenze emozionali non vengono gestite possono irrigidirsi, mutando in stili emotivi e relazionali segnati dall’impulsività, dalla labilità e da possibili condotte aggressive” (un team di esperti). La scuola dell’infanzia non è la Cenerentola delle scuole, pur essendo considerata tale altresì in sedi istituzionali. Non è né l’asilo né la scuola materna di una volta. È scuola alla base delle altre ma con la peculiarità di essere l’unica con la specificazione “dell’infanzia”, per cui deve essere appartenente e pertinente all’infanzia e non agli adulti (con la loro mentalità o le loro dietrologie) cui si richiede, invece, “qualificazione” (art. 3 par. 2 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). 

Anche secondo Pietro Di Martino, matematico ed esperto di didattica della matematica “[…] il percorso formativo su competenze significative, da coltivare in seguito nello specifico ambito della matematica, può beneficiare molto del lavoro svolto nella scuola dell’infanzia, in particolare sulla competenza del problem solving. La scuola dell’infanzia, infatti, rappresenta l’ambiente ideale nel quale far esplorare e scoprire il mondo alle bambine e ai bambini, facendo emergere le loro curiosità, cercando e discutendo insieme le possibili risposte in un contesto non valutativo”. Coltivare, competenze di base, curiosità, cercare, con-testo: tra gli elementi costitutivi della scuola dell’infanzia (e non asilo). Altro che “scuola del girotondo”!

“Nella scuola dell’infanzia bisogna adottare la pedagogia delle tre A: attenzione, affettività, arte” (l’autrice per l’infanzia Paola Fontana). Anche la famiglia, culla dell’infanzia, dovrebbe adottare la pedagogia delle tre A da cui, poi, sviluppare tutto l’alfabeto della vita.

Ebbene “[…] occuparsi di educazione dell’infanzia significa anche occuparsi delle famiglie, contesti primari di appartenenza dei bambini e delle bambine, per accompagnarli nei cambiamenti che caratterizzano la crescita e l’educazione dei figli e che impongono progressivi ripensamenti anche su se stessi e sui propri progetti esistenziali” (cit.). Tra i vari soggetti educativi la scuola dell’infanzia riveste un ruolo determinante non solo per i bambini ma anche per i genitori, in particolare per i genitori dei primogeniti o degli unigeniti (per i quali rappresenta il primo approccio con l’istituzione scolastica), perché si rivela spesso, una “scuola dei genitori”, come auspicata da vari esperti (in primis il pedagogista Daniele Novara) e come si ricava dalle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (2012), dove si legge: “L’ingresso dei bambini nella scuola dell’infanzia è una grande occasione per prendere più chiaramente coscienza delle responsabilità genitoriali” (nel paragrafo “Le famiglie”). Per esempio i genitori dovrebbero comprendere che costringere i propri figli all’anticipo scolastico, sin dalla scuola dell’infanzia (anche quando agli occhi dei genitori sembrano spigliati), potrebbe significare sottrarre loro il giusto tempo di crescita e altro ancora. Altro che anticipare opportunità! Spesso sembra davvero una corsa che non porta da nessuna parte.

Inoltre, i genitori all’ingresso nella scuola dell’infanzia non dovrebbero chiedere di progetti di lingua inglese o altri progetti extracurriculari ma preoccuparsi piuttosto che i figli imparino a e possano esprimersi (art. 13 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e comunicare tenendo conto anche dei crescenti disturbi del linguaggio o altri disturbi e difficoltà. Conoscere e parlare la lingua madre è fondamentale per la costruzione della propria identità per, poi, rispettare ogni altra cultura.

Bambini: chi li vizia, chi li sevizia. E può avvenire anche con un intervento educativo (o pseudo-tale) o con qualsiasi cosa quando si dice di volere loro bene o di farlo nel loro bene. Avviene 

sempre più spesso perché si sta perdendo (o si è perso) lo spirito di osservazione e conservazione dell’infanzia. Sembra che si stia realizzando la “profezia” della fiaba “Il pifferaio magico”.

Non si consente più ai bambini di essere bambini, che consiste anche nella gioia di scoprire le cose gradualmente e pure inconsapevolmente: nella scuola dell’infanzia si comincia precocemente con metodi di letto-scrittura, a seguire educazione sessuale e gender, progetti scolastici di ogni sorta, attività extracurricolari, quasi tutto con una visione adultocentrica. I bambini sono quel che sono, nel bene e nel male, fin quando si consente loro di essere così, nel bene e nel male. Se si smettesse di essere bambini si smetterebbe di crescere, di avere la gioia, l’entusiasmo, la curiosità dei bambini: dovrebbe essere questo il senso e il contenuto della tutela dei diritti dei bambini e non difenderli o difendersi “a spada tratta” in una continua “guerra” tra adulti: genitori e insegnanti, padre e madre, genitori e psicologi o assistenti sociali o altri esperti.

La pedagogista Rosalba Merola richiama: “Prevenire è meglio che curare. I problemi di apprendimento e di comportamento rappresentano un’importante sfida per gli insegnanti della scuola primaria, che devono affrontarli con attenzione e cura. Tuttavia, gli insegnanti della scuola dell’infanzia rivestono un ruolo altrettanto fondamentale, in quanto coinvolti nel processo di crescita e di apprendimento dei giovani allievi, e diventano agenti di prevenzione in quanto inseriti nell’intreccio di relazioni significative degli stessi. Al fine di preparare al meglio i bambini per il passaggio alla scuola primaria, è importante porre attenzione ai requisiti che permettono un apprendimento sereno e proficuo”. La scuola dell’infanzia è una scuola a tutti gli effetti ma non bisogna dimenticare il complemento di specificazione “dell’infanzia” che la distingue. Prepara al passaggio alla scuola della primaria ma non è l’anticamera della scuola primaria, ha una sua identità e specificità.

La scuola dovrebbe condurre non a separare i saperi ma a sceverare il sapere, come previsto per la scuola dell’infanzia nella quale si sperimentano i cosiddetti “campi di esperienza” come primo approccio al sapere, alla cultura e come prima produzione della stessa. “I bambini hanno diritto ad avere un sistema integrato tra scuola e istituzioni artistiche e culturali, perché solo un’osmosi continua può offrire una cultura viva” (art. 10 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura, Bologna 2011). “Osmosi continua” e “cultura viva” di cui non si è tenuto conto nella DAD e nei LEAD in tempi di emergenza sanitaria.

Tra l’altro nella scuola dell’infanzia si gettano i semi della storia. “Ai giovani consiglio di prepararsi sapendo che se non conosci la storia non sai dove vai. Essa serve per capire i discorsi dei politici e farsi un parere, come la storia di un amico serve per capire se ti vuole bene. La storia è un termine di confronto” (la regista Liliana Cavani). La storia non è una materia scolastica, è materia di vita, è patrimonio (art. 9 Cost.). La passione (o meno) dei bambini e ragazzi per la storia dipende 

anche dal modo di raccontare e raccontarsi nella scuola dell’infanzia, che è luogo narrativo per eccellenza in cui si comincia a tessere l’identità narrativa di ogni bambino.

A proposito di “produzione della cultura” il formatore Stefano Centonze spiega: “La creatività richiede tempo, pazienza, sperimentazione, pratica e allenamento continui; per questo deve diventare un’abitudine. Molti suggerimenti ed esempi pratici ci vengono forniti da illustri personaggi del passato, che hanno contribuito a rivoluzionare la scienza e l’arte con la loro sorprendente capacità d’innovare. L’esempio più emblematico ci viene offerto da Leonardo da Vinci, celebre talento universale, vera e propria icona e incarnazione del periodo rinascimentale. I suoi tratti distintivi erano una curiosità insaziabile, la continua voglia di sperimentare, una grande concentrazione e consapevolezza di sé”. Il diritto al gioco (art. 31 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) è il “diritto principe” che caratterizza l’infanzia e che dovrebbe tener presente la scuola, in particolare la scuola dell’infanzia, ricordando il significato etimologico di “scuola”, “stare in ozio, riposarsi, aver tempo, aver tempo di occuparsi di una cosa per divertimento”, che non deve però indurre a rendere la scuola una ludoteca.

Per “aver tempo di occuparsi di una cosa per divertimento” i bambini hanno bisogno non tanto di cose materiali (che, alla fine, sono asettiche, industriali, uguali) o ambienti di apprendimento immersivi quanto di esperienze materiche in cui sporcarsi le mani, procurarsi anche qualche graffio o taglietto, provare brividi o ribrezzo. Tra le migliori esperienze quelle con la carta, che è un materiale molto duttile che si presta a essere utilizzato in diverse attività, da quelle manipolative e sensoriali a quelle legate alla sperimentazione e all’invenzione di nuove forme. Tutto ciò serve per stimolare il loro sviluppo sensoriale e integrale, della memoria e del cosiddetto problem solving. Non se ne tiene conto, però, né in famiglia né a scuola, particolarmente nella scuola dell’infanzia, dove tante volte si usa materiale confezionato, plastificato, omologato, comprato ad hoc.

Per fare esperienza i bambini si servono e devono servirsi innanzitutto del corpo. “Il corpo è un veicolo fondamentale per l’apprendimento, e la consapevolezza corporea rappresenta una chiave per migliorare la concentrazione, il benessere e lo sviluppo delle capacità cognitive nei bambini e ragazzi. L’imitazione dei movimenti naturali degli animali offre un approccio ludico e immediato per connettere mente e corpo, stimolando anche creatività e fantasia” (cit.). Occorre che i bambini imparino a conoscere, riconoscere e rispettare il proprio corpo per imparare a conoscere, riconoscere e rispettare l’altro. L’educazione corporea, del corpo e alla corporeità è importante ai fini non solo della crescita ma dello sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale del fanciullo (art. 27 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). E in tutto questo gioca un ruolo essenziale la scuola dell’infanzia.

La scuola intesa come “stare in ozio, riposarsi, aver tempo” richiama la serenità, il “diritto alla serenità”, che differisce dalla felicità e dal benessere di cui si parla nella Convenzione 

Internazionale sui Diritti dell’Infanzia ma, al tempo stesso, li costituisce; si parla espressamente della serenità dei bambini nelle “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione” del 2012 nella parte relativa alla scuola dell’infanzia: le esperienze traumatiche segnano per sempre i bambini e quanto viene distrutto in loro non esce più dalle macerie.

Oltre alle esperienze, i bambini hanno bisogno (di) e diritto alle regole. Le regole mirano alla regolazione (necessaria come la termoregolazione) e non all’obbedienza, non è dare limitazioni ma indicazioni. Le regole non devono essere ganci, come le bretelle che si usavano per far camminare i bambini ai loro primi passi, ma lanci per farli andare. Regolare non è limitare ma indirizzare, guidare, orientare, come si ricava da più locuzioni della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Quelle regole più volte richiamate nelle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (2012), specificatamente nella parte relativa alla scuola dell’infanzia perché le regole sono alla base del vivere sociale.

Regolazione che, nella scuola dell’infanzia, si dà pure alle emozioni. L’infanzia non è l’età dell’innocenza ma l’età dell’esplosione emozionale, per cui i bambini non hanno bisogno di faccine stereotipate o colori indicati dagli adulti, come per esempio “la fifa blu”, per esprimere le “loro” emozioni e dare loro un nome: “Ormai anche le emozioni sono “iconizzate”, già dalla scuola dell’infanzia, invece i bambini devono e possono esprimerle liberamente” (la formatrice Eva Pigliapoco in un webinar del 26-10-2021). I bambini hanno bisogno di un alfabeto emozionale e di qualcuno che faccia loro da specchio in un meccanismo di co-regolazione. Non a caso nell’art. 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si parla di ascolto e nel successivo art. 13 di diritto alla libertà di espressione.

I bambini devono potersi esprimere liberamente con i colori, con ogni colore. Talvolta nella scuola dell’infanzia, invece, si continua a trasmettere stereotipi: i colori delle emozioni (rosso come la rabbia o l’amore, blu come la fifa, ...), il cielo rappresentato come una striscia celeste solo in alto sul foglio del disegno, le nuvole bianche, le foglie arancioni prevalentemente in autunno, non devono superare i contorni e non devono lasciare spazi bianchi (attività comunque necessarie)... I bambini sono artisti (non necessariamente alla Michelangelo), originali e unici e hanno il diritto di esprimersi e esprimere, usare tutte le tecniche, inventarsene di nuove. I bambini stessi sono colore e danno colore alla vita. L’educazione non deve portare all’emulazione di un modello, come si continua a fare nelle scuole, sin dalla scuola dell’infanzia dove si adottano o propongono metodi precostituiti, kit didattici che emulano pittori già affermati, schede fotocopiate, “lavoretti” per le feste comandate, senza tener conto dei moniti di grandi “maestri” da Mario Lodi a Gianfranco Zavalloni, ma all’esalazione (letteralmente “soffiare, mandare fuori, uscire diffondendosi in alto”) della propria personalità. 

I bambini hanno bisogno di armonia perché essi sono forieri di quell’armonia già insita nella natura (come ha sempre sostenuto Maria Montessori): l’infanzia è la biodanza della vita e la scuola dell’infanzia dovrebbe essere l’habitat di questo periodo unico e basilare per il resto della vita.

La scuola dell’infanzia, perciò, è un vero vivaio che esige tanta cura, equilibrio, specializzazione (e non solo titoli specialistici) e tempo da parte delle figure adulte. 

Mamma e papà, mamma con papà

Sintesi: Paternità e maternità, lo stesso compito di vita ma ciascuno con la propria peculiarità

Abstract: L’articolo descrive l’essere mamma e papà dal punto di vista dei figli, sui quali i genitori incidono in modo irreversibile senza la “giusta” consapevolezza e oltre l’immediatezza della situazione 

Tra gli studi recenti, dalla psicogenealogia alla etnopsicologia o etnopsichiatria, molto interessanti sono i risultati delle ricerche della cosiddetta psicologia positiva, che si concentra sulle emozioni positive, sulle relazioni positive, su quanto di positivo si può costruire e salvaguardare nella famiglia e non sugli aspetti patogeni e/o patologici delle relazioni e dei gruppi.

Dalla psicologia positiva si ha la conferma che le relazioni familiari sono e restano quelle fondamentali e che determinante è che queste relazioni siano di qualità.

Ilona Boniwell, una delle studiose europee più rinomate di psicologia positiva, sostiene: “Se un bambino cresce all’interno di un matrimonio affettivamente stabile, mostra un indubbio vantaggio a livello scolastico dal punto di vista cognitivo, di attenzione, apprendimento e interessi, insieme alla capacità di vivere con i compagni in modo rispettoso e non violento”. I figli non devono fare la felicità dei genitori ma, al contrario, i genitori devono dare felicità (e non cose) ai figli.

“Madre” e “padre”, nomi con origini etimologiche diverse, attengono al ruolo sociale, mentre “mamma” e “papà”, voci onomatopeiche legate alla fase della lallazione e anche della nutrizione infantile, riguardano il ruolo affettivo all’interno della famiglia. Madre e padre devono imparare a fare la mamma e il papà in modo idoneo al figlio che hanno ricevuto dalla vita. Da notare che le parole “madre” e “padre” differiscono, in italiano, solo per l’iniziale, come anche nella lingua francese, mentre in quella inglese cambia la prima sillaba, per sottolineare che è lo stesso compito di vita ma ciascuno con la propria peculiarità.

“Se hai avuto una mamma tenera, miciona, affettuosa tu le coccole le conosci e le sai produrre, non ti manca quel linguaggio, non hai un vuoto, e quello è importante; si cresce da quello. Si cresce dal fatto che la mamma ti vuole bene; questo è molto importante; sono cose che formano l’essere” (don Fabio Rosini). I bambini hanno bisogno di tenerezza e non di sdolcinatezza. “Tenerezza” viene dal latino tenerum, che significa “di poca durezza, che acconsente al tatto”, dunque “sensibile”: la tenerezza è quella giusta dose di attenzione, cura che non schiaccia e non asfissia. Al tempo stesso i bambini hanno bisogno di sicurezza (dal latino “sine cura”, senza preoccupazione) che, solitamente, è rappresentata dal padre o comunque da una solida coppia genitoriale, come richiesto dalla legge sull’adozione L. 184/1983 novellata (art. 6). “Papà”o “babbo”e non “mammo”: il papà che fa il papà è papà. Alcuni padri fanno come le madri, anche più di certe madri. Entrambi esercitano quell’accudimento di cui all’art. 7 par. 2 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia che è necessario per crescere e svilupparsi, che favorisce e garantisce il ben-essere del bambino. Accudimento che è la primordiale forma di contatto e la forma tipica di cura dei mammiferi in cui maschio e femmina fanno ciascuno la sua parte, come dimostra l’etologia. Quell’accudire (dallo spagnolo “acudir”, accorrere, che è un rifacimento di “recudir”, rimettere una cosa al suo posto, dal latino “recutĕre”, respingere indietro) che è dovuto non solo in tenera età ma ancor di più in caso di “problemi” tra cui la separazione dei genitori, come si ricava pure dalla Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori (ottobre 2018), dove in particolare al punto n. 3 si legge: “[I figli] Hanno il diritto di non subire la separazione come un fulmine, né di essere inondati dalle incertezze e dalle emozioni dei genitori. Hanno il diritto di essere accompagnati dai genitori a comprendere e a vivere il passaggio ad una nuova fase familiare”.

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro spiega: “Uno dei primi giochi che compaiono nell’infanzia è il nascondino. Già in braccio alla mamma, il piccolo di pochi mesi osserva con curiosità, tensione ed apprensione il papà che fa capolino dietro le spalle della mamma per poi scomparire e ricomparire subito dopo. Alla ricomparsa del volto del papà, il piccolo sorride sollevato. E vuole ripetere il gioco più e più volte: tensione e rilassamento, preoccupazione per la scomparsa e gioia per il ritrovamento. Il piacere della vita non sta nell’assenza di tensione o nel continuo stress, ma nell’alternanza di queste esperienze, nel movimento, nel conflitto e non nella guerra. Una raccomandazione: niente sadismi, non spingete la scomparsa oltre il limite di una sopportabile tensione del bambino. È un piacevole allenamento. Per le scomparse definitive avrà una vita per allenarsi e non è il caso di bruciare le tappe”. Il bambino va abituato all’assenza, alla mancanza, al vuoto che non significa procurargli lacerazioni o sofferenze ma fargli esperire ogni situazione o accompagnarlo in essa, ruolo in cui si rivela più “forte” il padre. Nell’art. 13 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, dopo l’enunciazione del diritto alla libertà di espressione, si parla di libertà di ricercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, per cui non si deve tenere il bambino sotto una campana di vetro, per esempio come l’evitare rumori o tenerlo appartato durante il sonno o riposino o durante l’allattamento.

Il pedagogista Daniele Novara afferma: “«Non mi ascolta» è una delle lamentele più frequenti dei genitori di oggi nei confronti dei figli. Lamentele lontane anni luce dalle pratiche educative dei genitori di due o tre generazioni fa, più propensi al comando e all’obbedienza che al dialogo e alle spiegazioni insistenti. «Glielo dico e ridico dieci volte e ancora non si veste!» mi racconta una mamma ormai stremata. Si sente un’emozione di fragilità nelle sue parole, l’impressione, neanche tanto mascherata, di non essere considerata e riconosciuta, quasi che il figliolo si fosse scordato di lei. Non si tratta di coltivare la nostalgia di un passato pieno di mortificazioni, ma neanche di voler essere amici dei figli, rischiando così di perdere il proprio ruolo educativo”. A metà degli obiettivi educativi indicati nell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, alla lettera c si legge “inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori, della sua identità”. “Rispetto” etimologicamente significa “guardare di nuovo, guardare dietro”, pertanto i genitori devono fare attenzione a quello che fanno guardare di sé ai figli, per esempio per farsi ascoltare non devono minacciare di riferire qualcosa all’altro genitore oppure non devono contrariarsi o contraddirsi tra di loro davanti al figlio.

Daniele Novara aggiunge: “La rabbia dei bambini piccoli è assolutamente normale e fisiologica, perlopiù legata proprio all’essere piccoli, cioè deboli, inferiori, incapaci di controllare il mondo intorno a loro. Sentono la frustrazione di non poter fare come vogliono, di essere spesso in balìa di adulti ansiosi, insicuri, incapaci di contenerli sul piano simbolico e psicologico ancor prima che educativo. Si arrabbiano per non poter guardare la tv, per dover condividere i giocattoli col fratellino o perché la mamma non gli dà sufficiente attenzione”. La gestione della rabbia dei figli è componente del diritto all’ascolto dei figli stessi (art. 12 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) che non vanno accontentati ma contenuti.

La psicologa Rossella Giuliani analizza un altro “problema” da gestire: “I bambini, quando aspettano la nascita di un fratellino, vivono l’attesa attraverso la loro mamma e ne percepiscono i cambiamenti fisici ed emotivi. Quando non riescono a trovare una spiegazione a ciò che avvertono, allora il rischio è che si crei in loro un ‘non detto’, qualcosa di cui aver paura e che non si può nominare. È utile dire al bambino cosa sta accadendo per evitare che possa sviluppare timori legati all’arrivo del nuovo fratellino che dovrà affrontare delle difficoltà”. Nelle dinamiche familiari bisogna “curare” la comunicazione, così nel comunicare al figlio o alla figlia maggiore l’attesa di un fratellino o una sorellina, in particolare quando si tratta di una famiglia ricomposta o allargata, per non causare ferite relazionali o altre invisibili da cui non si guarisce.

Circa le relazioni intrafamiliari l’economista Luigino Bruni dichiara: “Il nostro capitalismo sta trasformando i patti in contratti e tutti i premi in incentivo. Proteggiamo almeno la famiglia da questa invasione, teniamo il tempio innocente del cuore dei fanciulli libero dai mercati. Molti errori in questo campo si fanno per mancanza di pensiero e attenzione”. La famiglia è economia e i bambini hanno bisogno di educazione economica (che rientra nel principio di solidarietà dell’art. 2 Cost.). Oggi, invece, in famiglia si riduce tutto a soldi e cose, dall’arrivo di un fratellino o sorellina che “porta” un giocattolo con sé, per non far soffrire di gelosia il fratello o la sorella maggiore, al ritorno dalla spesa o dal lavoro del papà o della mamma con qualche oggettino. E così ogni persona viene correlata a quantità di cose o soldi. Si tende a monetizzare o mercificare tutto, atteggiamento che si inasprisce in caso di separazione o divorzio.

A proposito di separazione dei genitori: “Perché gli adulti pensano che i bambini non capiscono niente? Io e mio fratello abbiamo sentito tutto, sappiamo che i nostri genitori si stanno separando. Io e mio fratello abbiamo parlato e abbiamo deciso, io andrò con la mamma e lui con papà. Così quando ci riuniremo il fine settimana, forse i nostri genitori avranno provato nostalgia” (da un film tv). Prima di dover ricorrere ai cosiddetti “gruppi di parola” o altri gruppi, la famiglia dovrebbe essere il naturale gruppo di parola e ascolto, anche dei silenzi, delle sofferenze, delle insofferenze, delle differenze (anziché contrastarsi e ferirsi reciprocamente). La solidarietà genitoriale e familiare è la forma più naturale di quella solidarietà politica, economica e sociale richiamata dall’art. 2 della Costituzione e che è alla base anche della solidarietà post-coniugale e di altre disposizioni normative.

Non sono mamma e/o papà solo chi mette al mondo un figlio, ma anche chi mette amore in un figlio.

 

Oltre la violenza

Abstract: L’articolo si propone di scandagliare la violenza in tutte le sue forme concentrando l’attenzione sia si chi la commette sia su chi la subisce

Per “mobbing” (da quello aziendale a quello familiare), “stalking”, “cyberstalking”, “body shaming”, “revenge porn”, “catacalling” ed altre locuzioni similari mutuate dall’inglese, c’è solo una parola per spiegarle o tradurle: violenza.

Violenza, un fenomeno antisociale in crescente e preoccupante aumento e che arriva in ogni ambito, si infila anche nelle pieghe della vita più intima, dove invece ci si dovrebbe e vorrebbe sentire più sicuri e accolti.

Più aumenta la violenza, dal latino “vis”, forza, (o dalla radice “vi-”, torcere, come nella parola “vimine”) e più aumenta lo stato di vittima, termine derivante dai participi passati dei verbi latini “vincire”, e, pertanto, essere legato, e “vincere”, e, quindi, essere sconfitto.

“Vittima”, la prima definizione tecnica è stata data nell’art. 1 della Dichiarazione sui principi fondamentali di giustizia in favore delle vittime di crimini e abusi di potere, proclamata dall’ONU il 29 novembre 1985: “La parola “vittime” indica quelle persone che, sia singolarmente che collettivamente, abbiano subito dei danni, ivi compreso il ferimento sia fisico che mentale, la sofferenza emotiva, la perdita economica o l’indebolimento sostanziale dei loro diritti fondamentali, attraverso atti o omissioni che violano le leggi contro il crimine, in vigore negli Stati membri, ivi comprese quelle leggi che proscrivono l’abuso criminale di potere”. Definizione che si rivede ogni volta in una donna vittima: madre maltrattata, maltrattamento psicologico a causa della violenza assistita, marito (o compagno di vita) violento, maldicenze per il suo aspetto o stile di vita, mobbing nell’ambiente lavorativo, marginalizzazione o altre manipolazioni psicologiche che la conducono alla morte interiore o addirittura a quella fisica con suicidio o omicidio.

In passato si ripetevano banalmente tanti luoghi comuni, tra cui “Chi dice donna dice danno”. Oggi il danno lo subisce la donna vittima di ogni forma di violenza da parte degli uomini della sua vita (da suo padre al padre dei suoi figli). Anche quella donna fraintesa e, perciò, violata nella sua libertà mentale, creatività gestuale, manifestazione emozionale, approccio relazionale, solo perché ha conosciuto e conquistato la sua libertà interiore e il piacere di esprimerla. Per non parlare delle donne invischiate in relazioni tossiche di pseudo-amore.

“Amore”: l’etimologia rivela l’archetipicità di questo sentimento, perché la parola “amore” non deriverebbe da altre, non è composta, la sua radice significa se stessa. Amare, perciò, significa desiderare, sentirsi trasportato verso qualcuno. Un uomo accanto a una donna dovrebbe farle da 

monte, conte, ponte, fonte... nelle figure di nonno, padre, fratello, fidanzato, marito, compagno, amico, collega...

Secondo Edoardo e Chiara Vian, esperti di coppie in difficoltà: “Spesso le coppie si ritrovano a litigare in maniera apparente su questioni economiche ma, in realtà, stanno discutendo su quale valore e significato ha per loro la gestione dei soldi. La condivisione dei significati è uno dei compiti più importanti di una coppia, ma per poterlo fare in modo proficuo si ha bisogno, prima, di costruire una relazione prevalentemente positiva. Una relazione in cui ci si scambia contenuti positivi in misura di 5 a 1 su quelli negativi (questo è uno degli indici predittori di una relazione solida secondo gli studi compiuti per anni su migliaia di coppie da parte di J. Gottman [consulente matrimoniale])”. L’avarizia di uno dei due nella coppia può determinare violenza economica e/o morale. È opportuno perciò che siano concordati preventivamente e, per quanto possibile, i contributi di ciascuno al ménage familiare, gli investimenti e quegli eventi che comportano grosse spese, in base all’art. 144 cod. civ.: “I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare […] secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa”.

La violenza sulle donne è anche violenza sui bambini: i figli che restano orfani, i figli che vengono allontanati dal nucleo familiare, i figli che non saranno concepiti…

La psicologa Antonella Roppo spiega: “Il padre, in relazione a una figlia, è importante nel suo sviluppo perché influenzerà il livello di fiducia personale, la sua capacità di sentirsi a proprio agio col proprio corpo e l’orgoglio per sé nonché porrà le basi per le aspettative relative al modo in cui dovrebbe essere trattata dai ragazzi e poi dagli uomini. Il modo in cui il padre tratta sua figlia, sarà il modo in cui lei si aspetterà di essere trattata dagli uomini, di qui dipenderanno le scelte dei partner”. Un sano rapporto padre-figlia è fondamentale anche per prevenire ogni forma di violenza subita e di vittimizzazione delle donne ed è educativo per tutti. Ogni bambina ha il diritto di essere protetta e trattata con giustizia dalla famiglia, dalla scuola, dai datori di lavoro anche in relazione alle esigenze genitoriali, dai servizi sociali, sanitari e dalla comunità” (art. 1 della nuova Carta dei Diritti della Bambina, 30 settembre 2016).

La scrittrice Mariapia Bonanate aggiunge: “Sul versante maschile qualcosa si sta muovendo. I Centri uomini maltrattanti, a cui si rivolgono uomini violenti per essere aiutati, hanno visto aumentare le richieste. Il dramma della violenza sulle donne […] deve essere affrontato insieme, da uomini e donne, nella consapevolezza che la sua ricaduta sulla comunità è un grave danno per tutti”. Per riconoscere e risolvere il problema della violenza alle donne occorrono consapevolezza personale e comunità solidale così come richiesto a tutti i cittadini, in ogni situazione, dall’art. 2 Costituzione. 

Rilevante è altresì la normativa contro la violenza: l’Italia ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione sulla prevenzione e il contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica adottata a Istanbul, dal Consiglio d’Europa, l’11 maggio 2011 (cosiddetta Convenzione di Istanbul) con la legge 27 giugno 2013 n. 77 che, purtroppo, è ignorata nella pratica, negli spot pubblicitari, nei videoclip musicali, nelle relazioni sentimentali e in ogni altro dove in cui si assiste a una reificazione della donna e della sua corporeità (che è concetto ben più ampio di corpo).

La Convenzione OIL - Organizzazione internazionale del lavoro - n. 190 sull’eliminazione della violenza e sulle molestie nel mondo del lavoro, adottata a Ginevra il 21 giugno 2019, è stata ratificata in Italia con legge 15 gennaio 2021 n. 4, anche in linea con la disciplina della Costituzione (in primis art. 3).

Ancor più determinante è la prevenzione su cui lo psicologo e psicoterapeuta Fabrizio Fantoni scrive: “Gli studi sulle differenze di genere sono uno strumento importante per capire che cosa distingue gli uomini dalle donne e come queste differenze abbiano molte volte un’origine culturale e sociale. Capirlo ci può aiutare anche a intervenire […] per prevenire una mentalità che alimenta la prevaricazione e, talvolta, la violenza dell’uomo sulla donna. Per esempio, l’idea che l’uomo debba assumere una modalità di protezione verso la donna, giustificata un tempo con la superiorità muscolare dei maschi, si è spesso trasformata in possesso e dominio degli uni sulle altre. Come pure un’enfasi della maternità come elemento centrale, e talvolta unico, della femminilità, accompagnata a un’idealizzazione poco realistica dell’amore, ha ingenerato in molte ragazze atteggiamenti da “crocerossina” verso ragazzi (forse) belli, ma (certamente) dannati, a cui dedicarsi ciecamente per migliorarli. Questo non significa combattere gli atteggiamenti protettivi o materni come fossero soltanto condizionamenti negativi”. È significativo che nell’art. 29 lettera d della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si parli di “uguaglianza tra i sessi” e non di “uguaglianza dei sessi”, perché tra i sessi ci sono e permangono differenze, per cui non ci può essere livellamento, pareggiamento o altro, ma equilibramento continuo e costruttivo. Inoltre, l’“uguaglianza tra i sessi” non è posta tra gli obiettivi educativi, ma come uno dei contenuti del “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera”.

Quando si parla di violenza (in primis quella sessuale, artt. 609 bis e ss. cod. pen.) se ne parla soprattutto al femminile, perché è quella più eclatante e, spesso, cruenta. Non bisogna dimenticare, però, che ogni rapporto deve essere basato sulla reciprocità e sul rispetto, altrimenti non è rapporto ma altro, possesso, ossessione, dipendenza.

Infatti, un’altra forma di violenza aberrante è la pedofilia su cui lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro allerta: “Considerare la pedofilia come una semplice perversione impedisce di cogliere la complessità di un fenomeno che vede sì soggetti adulti incapaci di controllare i loro desideri (e che 

avrebbero bisogno di essere curati e messi in condizione di non nuocere), ma anche individui che considerano i bambini alla stregua di oggetti da piegare alle loro voglie o da immettere in un mercato lucroso quanto spietato. L’interesse del bambino a vivere la sua infanzia senza doverne subire la violazione per l’intrusione di adulti malati o criminali è comunque un valore da proteggere con assoluta priorità”. “Gli Stati parti adotteranno ogni misura appropriata di natura legislativa, amministrativa, sociale ed educativa per proteggere il fanciullo contro qualsiasi forma di violenza, danno o brutalità fisica o mentale, abbandono o negligenza, maltrattamento o sfruttamento, inclusa la violenza sessuale, mentre è sotto la tutela dei suoi genitori, o di uno di essi, del tutore o dei tutori o di chiunque altro se ne prenda cura” (art. 19 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Una forma sempre più dilagante di violenza è quella digitale. “L’avanzata della comunicazione digitale è inarrestabile, e per i nostri ragazzi, una vita senza le debite appendici elettroniche non è vita! Il nostro compito è un altro – richiama il pedagogista Pino Pellegrino –: interpretare il nuovo che avanza, per orientarlo a nostro favore. I mezzi di comunicazione digitale di per sé sono neutri, sta a chi li utilizza scegliere di usarli in maniera positiva” (in “Disconnettiti, fuori c’è il sole! Spunti di pedagogia digitale per educatori e genitori”, 2017). Ai genitori e agli adulti in generale è richiesta quella “giusta” attenzione affinché la comunicazione digitale non diventi forma di abbandono o negligenza da parte degli adulti e “autismo virtuale” nei bambini e ragazzi.

Oltre al cyberbullismo è ancora preoccupante il bullismo, soprattutto a scuola. “I segni dell’essere vittima di bullismo possono essere differenti, discreti, ma tutti emblematici, e vanno monitorati con attenzione, specie se compaiono insieme. Si possono manifestare con un cambiamento improvviso di umore, con la decisione di non voler più andare a scuola (a differenza di qualche tempo prima), con incubi, ansia, somatizzazioni repentine e persistenti, in particolare quando è il momento di uscire di casa (mal di testa, mal di stomaco, nausee, attacchi di panico), calo nel rendimento scolastico, improvvisi scoppi di rabbia verso genitori e insegnanti, fino al tentativo di suicidio. Questi atti, se non vengono notati dagli adulti, possono dare origine a episodi di violenza, verso se stessi, ma anche verso gli altri” (lo studioso gesuita Giovanni Cucci, esperto di psicologia). I genitori possono rendersi corresponsabili del bullismo sia col loro comportamento violento o inadeguato suscitando atteggiamenti bulli nei figli sia con un comportamento negligente quando non si accorgono di segnali di sofferenza/insofferenza nei figli che subiscono atti di bullismo.

Non si può ridere delle “monellerie” dei propri figli piccoli o dire, per esempio, che “se l’ha fatto, gli altri chissà che gli hanno fatto!” giustificando o minimizzando ogni cosa. Un conto è l’aggressività infantile, un altro sono manifestazioni che esprimono qualcosa di diverso, come la distruttività intenzionale o forme già di violenza, per imitazione o per averla subìta. Si ricordi che i figli crescono e, da adolescenti, rischiano di diventare dei “perfetti sconosciuti” ingestibili e non comunicativi. I genitori devono assicurare lo sviluppo dei figli (art. 27 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) che è il contrario di inviluppo: i figli vengono fuori dal grembo materno per essere educati a venir fuori dal loro inviluppo di ogni sorta e, poi, uscire di casa incontro agli altri e alla vita.

Non ci si deve solo dichiarare contro ogni forma di violenza, ma anche promuovere la cultura della non violenza, della persona, del diritto e dei diritti, in ogni modo e in ogni luogo, a cominciare dall’uso del linguaggio.

No ad ogni forma di violenza, anche a quella più sottile e larvata che si insinua nelle fibre peggio di una lama, in chi la perpetra e soprattutto in chi la subisce. No ad ogni forma di violenza, anche quella sottesa nello sguardo o nell’atteggiamento sprezzante!

Per uscire e far uscire dalla rete della violenza (ogni tipo di violenza, dal bullismo a quella domestica) bisogna creare un’altra rete intorno di persone positive, esperte o presenti e vive in un mondo di solitudine, silenzio o sordità.

La saggista Lucetta Scaraffia sostiene: “Contro violenza e stupri, bisogna ripartire da un’educazione capillare, a scuola e a casa, che insegni ai ragazzi a controllare i propri impulsi”. Bisogna tornare alla vera educazione e ripartire da essa ogni giorno, senza aggettivazioni, ambientale, digitale, sessuale o altro, ma semplicemente autentica e umana.

Già Maria Montessori proclamava: “Bisogna educare! Che l’educazione possa creare un’umanità migliore è una verità, sì, ma richiede un grande lavoro. Un lavoro forse lungo, ma tuttavia breve se considerato in rapporto a tutto il lavoro che ha già compiuto l’uomo” (1937).

Dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile: “Siamo determinati a promuovere società pacifiche, giuste ed inclusive che siano libere dalla paura e dalla violenza. Non ci può essere sviluppo sostenibile senza pace, né la pace senza sviluppo sostenibile”.

Insegnare non è…

“Da insegnanti crediamo di avere a che fare “solo” con bambini o ragazzi. In realtà ci confrontiamo con qualcosa di molto più grande: le abitudini del mondo che i giovanissimi ricevono (non si inventano nulla) e portano ai nostri piedi attraverso azioni, parole e comportamenti. A volte ciò che portano è piacevole, edificante e spassoso, ma tante volte per nulla – anzi è irritante, frustrante e altamente sfidante. E il compito sacro ed eroico dell’insegnante è NON giudicare coloro che ci mettono in difficoltà, ma scoprire come allearci a loro, per superare le difficoltà che dal mondo stanno portando in classe, per superarle e per trasformarle. Assieme. […] il ruolo dell’insegnante è trasformare l’umanità attraverso l’agire in classe, da ciò che è a una dimensione più saggia, consapevole e felice. L’insegnante stesso – come essere umano – è parte del processo: così facendo a sua volta trasforma se stesso. Continua ad evolvere. Questo è per noi il senso più alto di educazione” (cit.). L’insegnante deve avere una propria identità d’insegnante e averne consapevolezza per contribuire in maniera sana ed efficace alla costruzione dell’identità dei discenti.

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro esorta: “L’invito a esprimere sorridendo, ogni volta che è possibile, il nostro amore per i bambini e i ragazzi mira a comunicare loro benevolenza, comprensione, vicinanza da parte di chi non ha dimenticato la propria infanzia e adolescenza e quanto male abbia causato vivere con adulti sempre troppo seri se non addirittura facili a mostrare la faccia feroce”. Pedagogia del sorriso (di cui il primo fautore è stato Antonio Rosmini): accogliente, semplice, naturale, salutare, efficace, comunicativa. Favorisce il benessere del fanciullo, di cui all’art. 3 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Da più parti, quasi come panacea dei problemi educativi, si invoca il cosiddetto “metodo Montessori”. “Ormai il Metodo Montessori è universalmente riconosciuto come fondamentale, e non solo in ambito pedagogico. Maria Montessori ha sempre promosso un approccio all’educazione centrato sul bambino, enfatizzando l’autonomia, la creatività e l’apprendimento autodiretto. Inoltre il suo metodo riconosce che ogni piccolo è unico perciò apprende a ritmi diversi, e che è meglio incentivare la cooperazione piuttosto che la competizione, per creare un ambiente armonioso dove il rispetto reciproco è fondamentale” (cit.). Dalla pedagogia montessoriana si ricavano principi sempre validi e attuali che non è detto che comportino l’applicazione del cosiddetto metodo montessoriano nella scuola, in particolare in quella pubblica che “è aperta a tutti” (art. 34 comma 1 Cost.). Della pedagogia montessoriana sono validi i principi e il suggerimento che l’insegnante debba avere un metodo e basarsi sull’organizzazione (e non sull’improvvisazione), osservazione, ordine (e non ordini), obiettivi, orizzonti universali. 

Il pedagogista Daniele Novara dichiara: “[...] a tutti gli insegnanti che spesso hanno parecchi e giustificati momenti di amarezza, delusione e frustrazione. Esercitano una professione che non raccoglie di certo frutti immediati, ma che può consegnare agli alunni il desiderio di tirar fuori tutte le proprie risorse e con queste dare il meglio di sé nella vita”. Gli insegnanti sono “operatori o operai culturali” che seminano e coltivano e i frutti li coglierà il futuro. Sono tra gli adulti qualificati e con responsabilità che hanno il compito di preparare per il futuro, come si evince pure dall’art. 29 lettera d della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Daniele Novara aggiunge: “Le lettere che Albert Camus scrisse al suo maestro dicono tutta l’importanza di una relazione, quella tra insegnanti e studenti, che possiamo considerare, a ragione, tra quelle fondanti della vita”. L’insegnamento è più di un lavoro, è etimologicamente (riferito al titolo “professore”) professione, missione, è relazione, azione e reazione.

“Un percorso di apprendimento incentrato sul bambino è un sentiero in divenire, uno scambio continuo, una rielaborazione, un cambiamento in cui la guida accompagna il gruppo alla scoperta dell’apprendimento in modo empatico, con le parole giuste, con un approccio non giudicante” (cit.). Insegnare non è essere arrivati o arrivare in un posto di lavoro ma crescere e continuare a crescere con chi si aiuta a crescere. Non a caso nella Costituzione l’insegnamento è stato associato all’arte, alla scienza e alla libertà (art. 33), ovvero a un processo infinito, vivo e vitale.

L’insegnamento è arte, artigianato e non qualcosa di artefatto. L’insegnamento è creatività e stimolare altra creatività. “Creatività è inventare, sperimentare, crescere, assumersi dei rischi, rompere regole, fare errori e divertirsi” (l’artista e saggista Mary Lou Cook). La parola “libertà” contiene arte, ali, beati: a questo dovrebbero mirare l’educazione, l’insegnamento.

A proposito di arte a scuola, nell’ambito dell’educazione civica, si parla di educazione finanziaria, per la quale ci si può avvalere di vari mezzi apparentemente non canonici, tra cui proprio l’arte. L’arte è trasformazione e bellezza e ciò instilla speranza. La speranza è anche pianificazione, per cui bambini e ragazzi, mediante l’arte, vengono educati a vedere oltre e a organizzare le loro risorse. “I bambini hanno diritto […] ad avere un rapporto con l’arte e la cultura senza essere trattati da consumatori ma da soggetti competenti e sensibili” (art. 6 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).

“L’Intelligenza Emotiva è la competenza di vita che permette alle persone di capire meglio se stesse per poter capire meglio le altre e di interagire con esse per facilitare il raggiungimento di traguardi in tutti gli ambiti della vita, da quella personale a quella professionale” (cit.). La relazione (o processo) insegnamento-apprendimento è mossa dall’intelligenza emotiva. L’intelligenza emotiva è una delle cosiddette life skills, per cui si può dire che a scuola si deve insegnare e educare con intelligenza emotiva per educare l’intelligenza emotiva. Così si fa la differenza e si contribuisce all’istruzione di qualità. Insegnare non è solo lasciare il segno ma anche farsi segnare da tutte le 

emozioni degli alunni che si porteranno sempre nel cuore, pur non rammentandole più. La qualità degli insegnanti fa anche l’istruzione di qualità. Si ricordi che l’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è: “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”.

“Non insegnare musica ai tuoi alunni ma sii musica per loro” (cit.). Un insegnante “arriva” di più agli alunni se fa sentire la sua voce interiore, se trasmette la sua passione e li accompagna (e non dice loro semplicemente di andare in una direzione anziché un’altra), come un direttore d’orchestra che è innanzitutto un musicista tra musicisti. Per arrivare a bambini e ragazzi bisogna essere diretti, senza sermoni, ma parlando il loro linguaggio, non giovanilistico ma privo di fronzoli e retorica, e della loro vita.

Il 5 ottobre di ogni anno si celebra la Giornata mondiale degli insegnanti, che è stata istituita per ringraziare tutti gli insegnanti che rappresentano un pilastro importante per alunni e alunne che ogni giorno affrontano le gioie e le difficoltà della propria crescita formativa e personale (perché ognuno ha o ha avuto un insegnante che ha ispirato, che ha lasciato un segno importante e che ha fatto la differenza nella propria vita) e per suscitare riflessioni sul ruolo dei “professionisti della formazione” (e non semplici impiegati del Ministero dell’istruzione), sulle sfide che fronteggiano quotidianamente, sulle non semplici condizioni di lavoro a cui sono spesso sottoposti. 

La mediazione e le relazioni di aiuto

Sintesi: La mediazione, qualsiasi mediazione, da quella familiare a quella scolastica, è un’educazione o rieducazione ai “con-fini”, alle relazioni autentiche, alla trasformazione della divisione in condivisione

Abstract: Il contributo descrive i dinamismi della mediazione nelle situazioni conflittuali e non delle relazioni interpersonali

“Obiettivo della pratica della mindfulness è imparare a guardare ed accettare la realtà nel momento presente per come è, osservando in maniera distaccata i pensieri negativi e positivi e vedendoli per ciò che sono, ossia prodotti della propria mente che possono essere compresi, accettati e controllati. Tutto ciò per favorire e sviluppare nuove dimensioni di relazione con se stessi, gli altri e il mondo” (cit.). Nei casi di difficoltà personali, coniugali o familiari si fa sempre più ricorso alla mindfulness, a tecniche psicologiche e/o alle cosiddette relazioni di aiuto perché ascolto, accoglienza, comprensione, condivisione, interazione, benessere mancano sempre più nelle principali formazioni sociali ove si svolge la personalità (art. 2 Cost.), quali la famiglia e la scuola.

In ogni guerra (anche interiore o intrafamiliare) ci sono più vittime che vittorie. Il bene, prima o poi, genera altro bene: bisogna perseverare nel coltivarlo. Occorre promuovere, perciò, la “cultura della mediazione e la mediazione come cultura”, come si ricava altresì dal Piano nazionale per la famiglia (adottato il 10 agosto 2022).

“Si parla spesso di confini: il rimando più frequente è quello ai confini dei paesi, ma la parola confine si utilizza anche per descrivere lo spazio di azione di ogni individuo. Se non ci sono confini nelle relazioni che viviamo, rischiamo di perdere la nostra identità. Allo stesso tempo il confine può diventare un elemento che divide e contrappone, quasi come un muro: in questo modo chi ci incontra non entra in relazione con noi, ma si scontra col muro che abbiamo costruito. Per vivere relazioni autentiche, i nostri confini devono diventare soglie, che possano essere superate così da trasformare le divisioni in condivisioni. È solo grazie all’altro che possiamo crescere come persone: imparare a camminare insieme per costruire un mondo migliore” (cit.). La mediazione, qualsiasi mediazione, da quella familiare a quella scolastica, è un’educazione o rieducazione ai “con-fini”, alle relazioni autentiche, alla trasformazione della divisione in condivisione. Quello di cui hanno bisogno tutti, in particolare le nuove generazioni. Infatti, pure nel Piano Nazionale per la famiglia del 2022 si prevede di “Realizzare nelle scuole l’educazione a modelli positivi di comunicazione, mediazione e gestione dei conflitti”.

Il filosofo Bertrand Russell scriveva: “Quando incontri un’opposizione, anche se si tratta del tuo partner o dei tuoi figli, cerca di superarla con la discussione e non con l’autorità, perché una vittoria ottenuta con l’autorità è fittizia e illusoria” (nel messaggio alle future generazioni, 1959). “Discutere” deriva etimologicamente da “scuotere, agitare”, e significa letteralmente “agitare ad una ad una le idee o i vari punti di una questione, onde ne scaturisca la verità”. E la discussione è proprio uno degli elementi che mancano oggi nella famiglia (perché si è solitamente presi dal proprio cellulare o da altro) ed è quella che si cerca di recuperare in alcuni setting come, per esempio, in quello della mediazione familiare. Nella stanza (o nel setting) della mediazione familiare: si colgono la sofferenza e le difficoltà dei membri della famiglia, si comprendono le disfunzionalità/funzionalità dei rapporti reciproci, si costruisce un ponte per una nuova comunicazione e collaborazione, si concretizzano nuovi corsi e percorsi della vita familiare, seppure non più tutti insieme.

“Quante volte litighiamo! E si può addirittura correre il rischio di non parlarci mai più, magari a causa di inezie. [...] Mantenere le porte del nostro cuore sempre aperte e donarci l’opportunità salutare di abitare gli uni nello sguardo degli altri, senza bisogno di difesa. Sempre, daccapo, contenti di ripartire” (cit.). Quante volte la vita di coppia, la vita in famiglia è caratterizzata da porte sbattute, dal chiudersi in camera, dal cambiare la serratura della porta d’ingresso, ma al tempo stesso si ha la forza (o bisogna averla) di lasciare uno spiraglio aperto. Laddove non vi sia questo spiraglio ci si rivolge a qualcuno per costruire un ponte verso l’altro, con l’altro: le relazioni d’aiuto, che rispondono ai principi costituzionali, in primis a quelli dell’art. 2 Cost. e specificatamente a quello della solidarietà. “Solidale”, in meccanica, si dice di oggetto o elemento di un dispositivo o di una struttura collegato rigidamente a un altro, che è il sistema di riferimento: e di questo stesso meccanismo interpersonale si riprende coscienza in seno alla relazione d’aiuto.

Anche Edoardo e Chiara Vian, esperti di famiglie in difficoltà, scrivono: “Possiamo litigare, ma poi perdonarci; possiamo perdere la sintonia, ma poi risintonizzarci; possiamo allontanarci, ma poi riavvicinarci. Posso provare a costruire sempre nuovi ponti senza aver paura di perdonare o di chiedere scusa”. Nella coppia e nella famiglia è insita una capacità di “mediazione naturale” (quel rapporto tra generi e generazioni di cui si parla nel Piano nazionale per la famiglia), ma nel caso si dovesse “perdere la bussola” sarebbe il caso di rivolgersi a terze persone competenti, tra cui gli esperti di mediazione familiare.

Lo psicologo Enrico Vincenti si sofferma sulla famiglia in crisi: “La famiglia è fatta dai membri che la compongono. Ogni famiglia è unica. Così si mette al centro il soggetto e si può essere di aiuto al soggetto. […] La sciagura non è bella ma è una realtà. L’accaduto mette a nudo il soggetto che si rivela per quello che è” (in un webinar dell’11-07-2024). La famiglia non è un’entità astratta, è fatta di persone, singole e in relazione tra di loro. In caso di crisi o altro problema bisogna considerare e aiutare prima la persona per arrivare, poi, all’intera famiglia, come si era prefissa la legge 29 luglio 1975 n. 405 “Istituzione dei consultori familiari” e come si opera nelle relazioni di aiuto, in primis nella mediazione familiare.

La separazione non è un fallimento, è un momento, una realtà per quanto triste, una trasformazione della relazione, ma comunque una relazione. Bisogna maturare quella consapevolezza che porti a una “buona separazione”, non conflittuale, non distruttiva per sé e per le altre persone coinvolte. E la mediazione familiare favorisce la “buona separazione”. Quella “buona separazione” che non è detto sia stata favorita dalla legge 6 maggio 2015 n. 55 “Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi”, istitutiva del cosiddetto “divorzio breve”, legge ritenuta “una grande conquista di libertà e cultura”. I tempi accorciati del divorzio consentono di sciogliere prima i vincoli e lo stato civile, ma non consentono la cura adeguata delle relazioni e dei sentimenti in via di evoluzione, anche nei confronti dei parenti e degli affini. Quella cura che rappresenta, invece, una più autentica forma di libertà (interiore) e cultura (della pace) e di educazione relazionale per tutti.

Lo scrittore tedesco P. Thomas Mann spiegava: “Il tempo raffredda, il tempo chiarifica; nessuno stato d’animo si può mantenere del tutto inalterato nello scorrere delle ore”. Questa è la consapevolezza cui si viene condotti nelle relazioni d’aiuto. Il tempo come dimensione umana di cui riappropriarsi e non farsi prendere dall’impeto e dall’esagitazione della conflittualità. Tempo in cui coltivare e custodire tutto ciò che è caro, in primis i bambini. In questo non giovano né i tempi lunghi della giustizia nelle aule giudiziarie né i tempi brevi delle decisioni (talvolta repentine o egocentrate) degli adulti.

Nella mediazione familiare e nelle altre relazioni di aiuto ci si riappropria della dimensione del tempo e anche di quella del silenzio: si dà il proprio tempo e ci si dà tempo.

Tempo, parola polisemica, dal tempo cronologico a quello musicale, e con un’interessante origine etimologica dal greco antico “temno”, col significato di “separare”: quello che accade in se stessi e nella stanza della mediazione, durante o dopo un periodo conflittuale.

Quel tempo interiore di cui hanno diritto in particolare i bambini e di cui si parla per esempio nella Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori, nel cui punto n. 8 è scritto: “I figli hanno bisogno di tempo per elaborare la separazione, per comprendere la nuova situazione, per adattarsi a vivere nel diverso equilibrio familiare. I figli hanno bisogno di tempo per abituarsi ai cambiamenti, per accettare i nuovi fratelli, i nuovi partner e le loro famiglie”.