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Genitorialità: genialità e/o agilità

Abstract: L’articolo invita il lettore a interrogarsi sul senso e sul come si è genitori, anche attraverso essenziali indicazioni di carattere psicopedagogico

“Vicino a noi c’è sempre qualche mamma che ha bisogno di essere ascoltata e incoraggiata. Se facciamo bene la nostra parte quella mamma, quel papà diventeranno capaci di generare altro bene: una circolarità di cui il mondo ha tanto bisogno” (cit.). Il sostegno alla genitorialità non è fatto solo di sussidi o aiuti materiali ma di assunzione (ovvero adozione, come se si fosse tutti genitori adottivi) di responsabilità da parte di ciascuno, esercizio di adultità, adempimento di quella solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione. Tra le relazioni di aiuto esistenti oggi c’è quella della consulenza genitoriale per aiutare i genitori. Alla luce dell’aumento di genitori considerati o che si rivelano emotivamente immaturi, incompetenti, inadeguati o altro, sarebbe il caso di farsi comunità (comunità richiamata nell’art. 5 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) intorno ai genitori per aiutarli nel loro farsi genitori di giorno in giorno. Nell’art. 18 par. 2 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si parla di “fornire un’assistenza adeguata ai genitori o ai tutori legali nell’adempimento delle loro responsabilità.

La genitorialità è come la cittadinanza: non è sufficiente l’iscrizione anagrafica del figlio ma è necessario esercitare diritti e adempiere doveri nei confronti di quel figlio. I genitori sono “cittadini qualificati” che formano nuovi cittadini. Il legislatore del 2013 col d. lgs. 154 “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219”, nel novellare gli artt. 315 e ss. del codice civile, ha sostituito la dicitura “potestà dei genitori” con l’attuale “responsabilità genitoriale” (in linea con la Convenzione e le legislazioni di altri Paesi), anche per richiamare questa funzione sociale dei genitori. Si noti, tra l’altro, la differenza tra la specificazione “dei genitori” e l’aggettivo “genitoriale”, che attiene alla sfera, alla relazione e non ai singoli.

Il pedagogista Daniele Novara spiega: “L’impegno per educare un figlio adottivo è lo stesso necessario per un figlio biologico. Anzi, spesso la consapevolezza pedagogica dei genitori adottivi è maggiore”. La genitorialità non è un’attitudine o istintività che qualcuno sente o pensa di avere ma un’idoneità che si deve manifestare e rivolgere verso il figlio, come si ricava in particolare dall’art. 6 comma 2 della L. 184/1983 novellata dalla L. 149/2001 già dalla rubrica (su cui riflettere) che è diventata “Diritto del minore ad una famiglia”: “I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare”. Tutta la disposizione normativa si può riferire ai genitori in generale, in particolare il verbo “intendere” (dal latino “in”, verso, e “tendere”, tendere, volgere, da cui deriva il sostantivo “intenzione” che richiama “attenzione”, che si richiede ai genitori), che sottolinea che i figli non devono essere la realizzazione né di un desiderio né di un diritto. La genitorialità non è un automatismo e c’è differenza tra concepire, generare, (saper) gestire i figli e tutto il resto che comporta. L’amore genitoriale, che dovrebbe essere la forma più gratuita dell’amore, non significa né avere né possedere i figli ma dare vita alla vita e tutto questo è ancora più evidente nell’adozione.

Tautogramma con la T sulla genitorialità: tenacia, talenti dei figli da far esprimere e valorizzare; tolleranza; temperamento (da bilanciare con il temperamento dell’altro e quello dei figli); tempo (da darsi e da dare); tracce (da lasciare come esempio e da delineare come indicazioni di vita); tenerezza; tenere (e non trattenere); tendere (le mani, lo sguardo, le orecchie che equivale ad avere attenzione). “Istruzioni” di genitorialità che si possono evincere anche dall’articolato della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’infanzia.

“[…] il primo definibile come ‘valore emotivo del figlio’ che sottolinea come avere un figlio sia un’esperienza emotiva gratificante, piacevole in sé e per i suoi benefici psicologici ed esistenziali; il secondo fattore, ‘valore strumentale del figlio’, sottolinea come il figlio possa rappresentare un valore per i genitori, ad esempio incrementando la loro reputazione sociale, o garantendo nel futuro un supporto emotivo ed economico nei momenti del bisogno” (gli esperti di psicologia sociale Camillo Regalia e Elena Marta, nel Rapporto Cisf 2020). Ogni figlio è un valore perché lo è la vita. Basti pensare agli sforzi costanti e crescenti dei genitori (e anche dei nonni) con figli con disabilità e al loro non riuscire a “concepire” più la loro vita senza quei figli. Perché sono i figli col loro venir al mondo che fanno, formano e fortificano i genitori, la genitorialità. “Genitore” fa rima con cuore, amore, dolore, ardore, sudore, ore... perché è parte di tutto quello che può contenere la genitorialità.

Genitorialità non è solo educare i figli ma anche educarsi ai figli. Per esempio, bisogna sapere che “Le manifestazioni della paura del buio nei più piccoli possono essere diverse. Possono comprendere fantasie e immagini ricorrenti, come ad esempio il pensiero che nel buio ci sia un mostro. Nel bambino si possono presentare inoltre segnali fisici, come il mal di pancia o la sudorazione, ma anche modi di comportarsi insoliti, come ad esempio richieste continue di vicinanza e rassicurazione e momenti di pianto o rabbia. Tutte queste fasi, per quanto possano preoccupare i genitori, sono normali e fanno parte dello sviluppo del bambino, della sua maturazione e dell’acquisizione di sempre maggior autonomia” (un team di esperti).

La genitorialità, fatta di paternità e maternità, è come un fiume, in cui non si distingue tra alveo e corso d’acqua, ma è un flusso che, da una sorgente, tra periodi di piena e di secca, tra anse e ciottoli, va a sfociare nel mare che è la vita del figlio che, prima o poi, se ne va di casa come è naturale che sia.

“Un figlio è di entrambi i genitori e per quanto sia fuori discussione l’importanza fondamentale della mamma, è chiaro anche che il padre non è solo colui che provvede economicamente al sostegno della famiglia, ma una figura fondamentale nella crescita del bambino. Mammo è un modo errato di etichettare un uomo che svolge il suo normale ruolo di padre e dopo anni di proteste e lotte per ottenere la parità di genere, è qualcosa che ci fa tornare indietro di secoli” (dal sito SuperPapà). Genitorialità: non tanto mamma e papà quanto mamma con papà.

Lessicalmente in “materno” e “paterno” cambia solo l’iniziale ed entrambi, foneticamente, evocano “terno” e “quaderno”: perché il padre e la madre formano un terno con il figlio e si iscrivono nello stesso quaderno della genitorialità. La genitorialità ha un profilo paterno e uno materno e si costituisce e costruisce nel tempo nella relazione, possibilmente, tra i due profili e con e per il figlio.

Nell’esercizio della genitorialità occorre anche una misura, come mette in guardia lo psicoanalista Massimo Recalcati: “I padri non devono essere troppo vicini ai figli, non devono fare i figli. Le madri non devono essere madri narcisistiche, madri coccodrillo, madri chioccia” (nella lectio magistralis del 15-02-2020 a Matera). La misura è sempre l’interesse superiore del fanciullo (art. 18 par. 1, riferito ai genitori, Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), il “best interest”. È inevitabile che i genitori siano egoisti ma, almeno, cerchino di non essere egocentrati sino a cadere in forme di cosiddetto amore incestuoso in termini psicologici (si ricordi la terribile vicenda di Blanche Monnier, segregata in casa dalla madre e dal fratello per 25 anni per allontanarla dall’uomo amato).

Padre e madre sono parole che differiscono solo per l’iniziale e così dovrebbe essere nella realtà, cioè padre e madre dovrebbero rivelare almeno un elemento differente nell’esercizio della genitorialità, per esempio nell’approccio al figlio.

La genitorialità dovrebbe essere espressione di potenzialità (quelle dei genitori e quelle dei figli), socialità, valorialità, specificità, responsabilità, finalità (la vita). È quanto espresso negli artt. 147 e 315 bis cod. civ. ed è quanto precisa il pedagogista Novara: “La consapevolezza che le capacità dei bambini non sono quelle degli adulti, ma vanno modulate adeguatamente secondo le fasi della vita, permette dunque ai genitori di accettare, di organizzarsi e di aspettare che il bambino raggiunga la capacità che gli compete. Con un atteggiamento sempre costruttivo e pratico, facendo vedere come si fa e progressivamente dando l’autonomia necessaria. Così si cresce, bambini e genitori, assieme”. I genitori devono tener conto dell’età e del grado di maturità dei figli, della loro vita privata, delle loro potenzialità (tutte locuzioni usate nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, artt. 12 e ss.) e modulare la genitorialità di conseguenza. Genitorialità (e famiglia in generale) è esprimere e realizzare il “noi” nel rispetto del proprio io e di quello altrui. Si realizza, si vive e si costruisce in due in relazione con il figlio e con gli altri figli, se vi sono.

La genitorialità non è solo procreazione ma progetto e processo, fatto di progressività, prospettive e problemi, per cui essa non deve seguire né mode né modelli né modus vivendi ma essere piuttosto un modus operandi. 

Tra le varie competenze richieste oggi ai genitori è necessario anche che maturino una sana genitorialità digitale. Il pediatra Giuseppe Di Mauro consiglia: “L’avvicinamento di bambini e ragazzi alle nuove tecnologie è inevitabile e non può e non deve essere ostacolato. Deve piuttosto essere limitato e guidato verso un uso consapevole e attraverso programmi di alta qualità, compito che spetta in primo luogo ai genitori e agli altri adulti di riferimento, come gli insegnanti”. A proposito di “media education” lo psichiatra francese Sergei Tisseron parla delle “3 A”: autoregolazione, alternanza, accompagnamento: autoregolazione significa stabilire limiti e accompagnare i bambini ad acquisire, con gradualità, la capacità di darsi regole e di autocontrollarsi; l’alternanza rimanda all’equilibrio e alla necessità che, nell’infanzia, l’uso del digitale conviva con altre opportunità di esperienza, ricerca e sperimentazione; accompagnamento significa “mai soli!”.

Facendo un gioco di parole, dal vocabolo “genitorialità” si ricava “genialità” e “agilità”, tra le qualità richieste ai genitori nel divenire della quotidianità.

La genitorialità è dialogo, diaframma, diapason di vita, è futurabilità, è dare futuro, creare futuro.

Genitorialità: sorgente e sergente di vita.

“Avere un figlio è avere un sasso nel petto” (cit.). Genitorialità: la forma summa di amore e dolore. 

 

I genitori degli adolescenti

 

Sintesi: Per i genitori e ancor di più per i genitori degli adolescenti non ci sono vademecum ma si possono dare solo indicazioni di vita

Abstract: L’articolo rileva le crescenti problematiche legate all’età adolescenziale ed evidenzia la necessità per i genitori di prestare maggiore attenzione e cura per l’integrità della salute dei figli in questa delicata fase di passaggio

 

La genitorialità non è un fatto privato, ma è “politica” e richiede politiche ad hoc. Così dichiara il pedagogista Daniele Novara: “Scelte indispensabili per non tirare su bambini tirannici; per non diventare genitori urlanti; per non trovarsi con adolescenti ritirati in casa per ore e ore davanti ai videogiochi; per poter gestire le regole educative con il massimo della positività, ma anche il rigore necessario. Senza trascurare il gioco di squadra tra genitori, ossia l’importanza della condivisione tra il papà e la mamma. È necessario mettere a disposizione risorse specifiche”.

Soprattutto durante l’età adolescenziale, i figli non si controllano né si comandano, ma si guardano, si osservano, si ascoltano, si spronano, si orientano, come si ricava pure dalle indicazioni della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. La scrittrice Maria Venturi esplica: “I figli si crescono con gli occhi, nel senso che il mestiere di genitori è dominato dall’incombenza di guardare: il biberon, il termometro, il piatto, i vestiti, le pagelle, i quaderni, l’orologio, gli amici…”. Guardare non è semplicemente stare a guardare ma etimologicamente significa “vigilare, custodire, difendere, coprire”, tutto ciò che compete ai genitori e che comporta una certa “distanza” dai figli.

Lo psicoterapeuta dell’età evolutiva Alberto Pellai scrive: “Succede a volte che i preadolescenti invece di buttarsi in avanti e andare a lunghe falcate verso il futuro grazie alle nuove competenze di cui possono godere – ora che non sono più bambini – fanno l’esatto contrario. Ovvero, si muovono con il freno a mano, cercando di permanere il più possibile nella loro zona di sicurezza, quella che hanno abitato da bambini, in cui mamma e papà – e gli adulti in generale – si occupavano in toto di loro, assolvendoli da ogni responsabilità e proteggendoli in ogni modo. […] Vivono “iperconnessi”, appunto, ma alla fine tendono a non sviluppare mai quella muscolatura emotiva che permette loro di diventare grandi, mettendosi davvero in gioco e facendo le piccole grandi rivoluzioni che ogni preadolescente deve imparare a “combattere” per smettere di essere un pulcino “protetto” da chi gli vuole bene”. I genitori si preoccupano della muscolatura fisica dei figli ma non adeguatamente della “muscolatura emotiva”, per cui i figli crescono in altezza ma non altrettanto in vigore psicologico divenendo forti con i deboli e fragili nelle quotidiane difficoltà della vita, come se fossero infermi. In famiglia si avrebbe bisogno di “ozio”, inteso in senso etimologico come tempo privo di impegni, tempo in cui ascoltarsi, annoiarsi, guardarsi, adoperarsi in hobby e passioni comuni, in cui sperimentare il silenzio, in cui conoscersi dentro. Vari sono gli spunti normativi da cui si ricavano l’obbligo e la responsabilità dei genitori di corroborare i figli, tra cui il Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia in cui si legge che “la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti suoi membri ed in particolare dei fanciulli debba ricevere l’assistenza e la protezione necessarie per assumere pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità”. A questo si aggiungono la Carta di Ottawa per la promozione della salute (paragrafo “Sviluppare le abilità personali”) e gli articoli 147 e 315 bis cod. civ. dove si parla di assistenza morale nei confronti dei figli.

Ancora Daniele Novara mette in guardia: “Occorre mettersi dal punto di vista delle esigenze formative e delle competenze psicoevolutive di bambini, preadolescenti e ragazzi, chiedendosi quali siano i possibili rischi, i danni e le difficoltà di crescita o sviluppo che la tecnologia comporta e come prevenirli o evitarli”. La tecnologia favorisce lo sviluppo cognitivo ma l’eccessivo uso o abuso di essa va a discapito delle altre sfere dello sviluppo di un bambino o ragazzo. Non si deve trascurare “il diritto di ogni fanciullo ad un livello di vita sufficiente atto a garantire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale” (art. 27 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e la responsabilità dei genitori o delle altre persone aventi cura del fanciullo di assicurare le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fanciullo (art. 27 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Negli USA è stato rilevato (Justin W. Patchin e Sameer Hinduja, esperti dell’Università del Wisconsin, in “Digital Self-Harm Among Adolescents”, articolo pubblicato su Journal of Adolescent Health, dicembre 2017) il cosiddetto “self-cyberbullying”, definito anche “autolesionismo digitale”, che consiste nel cercarsi intenzionalmente o rivolgersi da soli gravi insulti, offese e mortificazioni verbali sul web, che hanno lo stesso effetto delle lamette sulla pelle. Ai genitori si richiedono sempre più competenze digitali che consistono nel saper mediare l’uso di strumenti digitali, vigilare, interagire con i figli per condividerne gli interessi (che non significa avere gli stessi interessi), non dare esempi sbagliati più che controllare i figli o vietarne l’uso, come si ricava da vari atti, tra cui il Rapporto Cisf 2017 “Le relazioni familiari nell’era delle reti digitali”.

Il rapporto internazionale “Spotlight on adolescent health and well-being”, pubblicato nel maggio 2020 dall’Ufficio regionale europeo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ha fornito una interessante panoramica sulla salute fisica, sulle relazioni sociali e sul benessere psicologico di oltre 220mila ragazzi/e in età scolare compresa tra gli 11 e i 15 anni, dopo un’indagine svolta nel biennio 2017/2018. Il rapporto ha rilevato che la salute dei ragazzi europei, in particolare quella mentale, è peggiorata. Tra i vari aspetti il report ha evidenziato un aumento di adolescenti in ansia per motivi legati alla scuola, mentre calano quelli che la amano. Al centro dell’indagine, anche il legame tra uso della tecnologia digitale e benessere mentale: a fianco di elementi positivi si registra una «amplificazione delle vulnerabilità», unitamente a «nuove minacce, a partire dal cyberbullismo, che colpisce in modo sproporzionato le ragazze». I dati sulla salute mentale sono peggiorati, purtroppo, dopo la pandemia da covid. Genitori e adulti tutti si devono rendere conto che la salute non riguarda solo il corpo ma l’integrità della persona (identità, sessualità, personalità…) e che i ragazzi non hanno bisogno di cose e di avere tutto ma hanno bisogno di autorità, autenticità, realtà, verità (atteggiamenti e valori ormai desueti) e anche di criticità (tipiche di ogni età e in particolare di quelle di passaggio) da affrontare e per le quali approntare le proprie risorse.

Oltre all’ipertecnologia delle nuove generazioni, stile di vita indotto dagli adulti e dal mercato, un altro problema emergente è l’ipersessualizzazione. L’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (PACE), il 21 giugno 2016, ha emanato due documenti, su iniziativa del deputato della delegazione moldava, Valeriu Ghiletchi: la Risoluzione 2119/2016 e la Raccomandazione 2092/2016, dall’eloquente titolo “Fighting the over-sexualisation of children”, contro l’ipersessualizzazione dei bambini e degli adolescenti, invitando gli Stati a impegnarsi per combatterla. “I bambini e specialmente le bambine che indossano graziosi vestiti e si truccano e gli adolescenti che si vestono come gli adulti, sono solo alcune delle espressioni visibili della precoce sessualizzazione dei bambini”, ha scritto Ghiletchi nel report. 

Un altro aspetto interessante è quello evidenziato da uno studio anglosassone (pubblicato sulla rivista Human Reproduction nel marzo 2021) che ha esaminato le relazioni genitore-figlio degli adolescenti nati da riproduzione medicalmente assistita (MAR) e quelle degli adolescenti nati da un concepimento naturale (NC). Il campione (basato su ragazzi nati tra il 2000 e il 2002) ha mostrato che le famiglie MAR e NC hanno relazioni genitore-figlio simili in termini di vicinanza e frequenza dei conflitti, tranne per il fatto che le madri MAR riferiscono di essere più vicine ai loro figli rispetto alle madri NC. Un risultato che suggerisce che le difficoltà e lo stress a cui si sono sottoposti i genitori per concepire attraverso il MAR non si sono tradotti in relazioni genitori-figli più difficili durante l’adolescenza. Inoltre, questo studio ha avvalorato che l’adolescenza è un periodo di ansia più per i genitori che per gli adolescenti perché sono i genitori che devono “concepirli” di nuovo nelle “nuove sembianze” di crisalidi che vanno assumendo nella naturale metamorfosi della vita e che il conflitto è fisiologico per crescere e congedarsi dalla fase precedente (come quando si scalpita per venire al mondo). A conferma che i genitori sono un “mezzo di trasporto della vita”: “[…] ogni fanciullo ha un diritto innato alla vita” (art. 6 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). 

Per i genitori e ancor di più per i genitori degli adolescenti non ci sono vademecum ma si possono dare solo indicazioni di vita. Lo psicologo e psicoterapeuta Fabrizio Fantoni richiama: “Occorre che i genitori valutino attentamente le conseguenze dei “sì” troppo facili e degli atteggiamenti sostitutivi verso i figli (“Lascia stare tu, che faccio io”), che non chiedono nulla di tangibile in cambio. Occorre sostenere con forza le esperienze di serio impegno dei ragazzi, a scuola e al di fuori di essa. È un modo concreto per aiutarli a capire che i risultati nella vita dipendono da loro, nel futuro come nel presente”. Bisogna fare cordata con i giovanissimi e i giovani nella scalata della montagna e non solo far vedere loro un documentario sulla bellezza della montagna. Al punto n. 51 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile si legge: “Bambini e giovani uomini e donne sono agenti critici del cambiamento e troveranno nei nuovi obiettivi una piattaforma per incanalare le loro infinite potenzialità per l’attivismo verso la creazione di un mondo migliore”.

Laddove ci sono adolescenti particolarmente turbolenti significa che gli adulti sono lenti, nell’intervenire, nell’interloquire, nell’interagire.

Per non ritrovarsi con adolescenti sconosciuti e scontrosi, inavvicinabili e incontrollabili si faccia attenzione a quello che si fa e si dice con i bambini, a cominciare dalla classica risposta che si dà senza nemmeno volgere un fugace sguardo: “Adesso non ho tempo!”. Ma cos’è il tempo? Il tempo è la vita che si riceve e che si dà, prima che un figlio adulto depresso chieda “Mamma, perché non sono felice?” (come chiede il figlio nel film “La prima cosa bella”). 

 

 

Dire e dare educazione oggi

 

 

Oggi non regna la maleducazione ma la diseducazione o ineducazione.

«Siamo precipitati in tempi orribili / Il mondo è diventato troppo decadente e malvagio. / La politica è sempre più corrotta / I giovani non rispettano più i loro genitori»: […] traduzione di un’iscrizione caldea del… 3800 a.C. Che fanno ben 5.819 anni fa! Insomma, lo «scontro generazionale» non è un’invenzione di questi nostri tempi depravati, ma fa propriamente parte, da sempre, delle relazioni tra persone di diversa età, e in particolare tra genitori e figli. Ridurre queste dinamiche nostalgicamente a «buoni» (gli adulti, i genitori) e «cattivi» (i giovani, i figli), da una parte coglie certamente un problema, o meglio una fatica che è soprattutto educativa; ma dall’altra ci priva di tutta la ricchezza e la dinamicità della vita. Che evolve più negli scarti anche improvvisi o dolorosi che nella ripetizione assuefatta e meccanica. Dove le radici sono fondamentali, ma l’albero deve crescere e portare nuovi frutti a ogni stagione” (fra Fabio Scarsato, esperto di problematiche giovanili). Attualmente lo scontro generazionale sembra abissale perché da una parte mancano gli adulti e/o dall’altra parte i ragazzi, i giovani tanto in senso fisico quanto in senso metaforico. L’educazione è sempre stata ed è un impegno finalizzato a “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera” (art. 29 lettera d Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), è un passaggio dal vecchio al nuovo, è una “traduzione della tradizione”, nel senso che bisogna trasmettere i valori conquistati e trasmessi da altri e i principi della vita alle nuove generazioni in base alle esigenze personali e alle circostanze attuali. Tutto ciò comporta fatica e tempo e, per questo, molti si arrendono.

«Maestro non è chi dice “fai così”, ma chi dice “fai con me così”»: a scriverlo non è solo don Bosco, ma un ateo, Gilles Deleuze, uno dei più famosi pensatori del XX secolo. Ancora una volta la luce è puntata sugli adulti: genitori ed educatori che, nel loro modo concreto di amare e di lavorare, testimoniano ai figli la verità della vita. Un compito tanto affascinante quanto arduo” (il teologo Angelo Scola). Nell’educazione si è sempre avuto e si ha sempre più bisogno di autenticità, esempio, intelligenza (“leggere dentro”), operosità, umiltà. Ogni educando ha bisogno di amore, emozioni, incontro, orizzonti, univocità.

L’educazione è come un viaggio in cui sono fondamentali conoscenza, comprensione, consapevolezza. È quanto si ricava anche dall’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia in cui “si parte” dallo sviluppo del fanciullo e “si arriva” al rispetto per l’ambiente naturale.

Il filosofo Silvano Petrosino scrive: “L’essere del vivente è inseparabile dalla forza che, sollecitandolo a uscire da sé, lo apre all’altro: il singolo vivente non può continuare a vivere e persistere per sé se non si apre all’altro, se non si orienta all’altro, se non va verso l’altro. Ciò che si impone come vita e nella vita è dunque la sorprendente e inarrestabile forza della relazione; tutto ciò che vive, proprio per affermarsi e diffondersi come vivente, deve entrare in relazione con l’altro, deve muoversi all’interno di un’infinita trama di mutue relazioni: da questo punto di vista non è scorretto intendere i termini “vita” e “relazione” come veri e propri sinonimi”. Vita e relazione, il binomio che è scopo dell’educazione e che è responsabilità degli adulti e, di certo, col mondo digitale (e con quanto accaduto durante la pandemia da Covid-19) non si tiene conto della sinonimia tra vita e relazione. Sinonimia tra vita e relazione che si ricava altresì dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, sin dal Preambolo.

Secondo alcuni psicologi e altri esperti, alcune locuzioni coniate e usate durante l’emergenza sanitaria da coronavirus sono state inadeguate perché hanno aumentato la negatività nelle e tra le persone e soprattutto nei bambini e nei ragazzi. Per esempio non si sarebbe dovuto parlare di “distanziamento sociale” ma “distanziamento fisico”, non di “didattica a distanza” ma di “didattica della vicinanza” e così di seguito. L’educazione, la formazione, lo sviluppo della personalità, le relazioni, la preparazione al e del futuro passano anche attraverso il linguaggio e la cura delle parole, di ogni singola parola.

Le persone dimenticano ciò che hai detto, ciò che hai fatto ma non dimenticano come li hai fatti sentire” (la poetessa afroamericana Maya Angelou). Educazione (in particolare quella che si dice sentimentale o emotiva, in realtà l’educazione già in sé è tale) è co-involgimento, avvolgimento reciproco, attivare i sensi per suscitare sentimenti (intelligenza emotiva), esprimere e imprimere la vita, ricordando che “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri” (dalla Carta di Ottawa per la Promozione della Salute, 1986). Genitori e insegnanti, perciò, devono preoccuparsi di meno dei mezzi da fornire, del tempo che passa e fagocita ogni cosa, degli obiettivi a lungo termine, ma occuparsi del momento, del qui e ora.

L’educazione è come l’edificazione: bisogna scavare in profondità per dare fondamenta solide alla casa che si deve reggere da sola e accogliere ogni vita; poi si costruiscono i piani superiori, i muri esterni, i divisori e così di seguito. Ciò richiede gradualità, sollevamento di pesi (perché educare è allevare che ha lo stesso significato di sollevare), sofferenza, ovvero “pathos”, in altri termini “passione educativa” e anche compassione da ambo i soggetti, educatore e educando. Perché educazione è dialettica, relazione, emozione, azione e reazione, sorprendersi e comprendersi a vicenda. Indicazioni e indici normativi si possono leggere anche nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, tra cui l’art. 27 in cui la locuzione “sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale” del par. 1 dà un’idea delle dimensioni coinvolte nel processo educativo.

Il filosofo Martin Buber scriveva: “Ogni persona è in attesa di conferme, rinforzi e risposte che permettono all’uomo di esistere e che possono venirgli soltanto da un altro essere umano”. Educazione: conferme rinforzi e risposte che si scambiano due esseri umani lungo l’impervio cammino della stessa umanità.

Nell’educazione non si deve usare il dito indice per imporre o rimproverare o minacciare additando, ma per attirare a sé il figlio o l’educando. L’educazione deve essere una seduzione oltre che conduzione. In tal modo si esplica il vero e giusto senso dell’autorità genitoriale o adulta, dal latino “auctor”, “colui che accresce, che fa prosperare”.

Il pedagogista Daniele Novara precisa: “La vita infantile è diversa da quella adulta ed è popolata dal pensiero magico e da figure che progressivamente scompaiono. Occorre, quindi, accettare i passaggi con serenità e sicurezza, dando fiducia ai figli e mantenendo sempre un atteggiamento positivo verso di loro”. I bambini chiedono agli adulti poche ed essenziali cose: silenzio, sguardo, semplicità, sincerità, sensibilità. I bambini non hanno bisogno di educazione emozionale e affettiva ma, piuttosto, sono essi stessi gli educatori della necessaria rieducazione degli adulti distratti o inariditi.

Insegnare al figlio (o a un bambino in generale) ad andare in bicicletta è stimolargli l’autonomia, la coordinazione motoria, l’equilibrio, mettere le rotelle alla bicicletta e adeguare l’altezza del sellino nel momento opportuno, sostenerlo da dietro e assumere da lui una certa distanza, costruire un ricordo comune. È metafora dell’educazione.

L’educazione è utile e necessaria, è funzione umana: serve a edificare vite e a editare storie.

 

Diritto all’istruzione, diritto al futuro

 

“L’economia culturale crea occupazione e contribuisce al benessere delle comunità, all’autostima individuale e alla qualità della vita” (Irina Bokova, politica bulgara, in funzione di Direttore Generale dell’UNESCO, novembre 2013). Nell’art. 4 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si parla congiuntamente di “diritti economici, sociali e culturali”. I diritti culturali sono scritti per ultimo non perché siano ultimi, ma perché obiettivo ultimo. I diritti culturali non si esauriscono nell’istruzione che ne è solo la base, ma sono una continua costruzione della persona e dell’umanità.


La cultura non è solo istruzione ma anche disostruzione mentale e costruzione sociale, astrazione, estrazione…è passato, presente, futuro. È questo il salto di qualità di cui dovrebbe essere artefice la scuola e non adeguarsi alla distruzione che si opera intorno.
“La Convenzione ONU “on the Rights of the Child – CRC”, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991, riconosce infatti che i bambini, le bambine e gli adolescenti sono titolari di diritti civili, sociali, politici, culturali ed economici. Nonostante i progressi compiuti fino ad oggi, però, ancora molti fanciulli in tutto il mondo continuano a vivere in condizioni di estrema povertà, sono esposti a violenze, abusi e sfruttamento, o sono privati dell’accesso all’istruzione. Quest’ultima è un diritto fondamentale e un mezzo essenziale per permettere ai bambini di raggiungere il loro pieno potenziale” (cit.). I diritti dei bambini sono violati anche nei Paesi più ricchi dove pure il diritto all’istruzione non è adeguatamente tutelato, per esempio edilizia non a misura di bambino, attività didattiche calate dall’altro, classi-pollaio e tante altre situazioni.


La testimonianza di Hanan Al Hroub, maestra elementare in un campo profughi: “[…] insegno ai bambini che l’unica arma buona è la conoscenza, l’unico nemico l’ignoranza”. L’art. 39 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia recita: “Gli Stati parti adotteranno ogni appropriata misura al  fine  di assicurare il recupero fisico e psicologico ed il reinserimento sociale di un fanciullo vittima di qualsiasi forma di negligenza, di sfruttamento o di sevizie, di tortura o di qualsiasi altra forma di trattamento o punizione crudele, inumana o degradante, o di conflitto armato. Tale recupero e reinserimento avrà luogo in un ambiente che favorisca la salute, il rispetto di sé e la dignità del fanciullo”. L’istruzione è uno dei migliori mezzi di recupero e reinserimento per bambini e ragazzi deprivati o a rischio, basti vedere le iniziative di istruzione nei carceri minorili. 


Nell’art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è disciplinato il diritto all’istruzione e nel par. 2 si specifica: “L’istruzione deve mirare al pieno sviluppo della personalità umana e al rafforzamento dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. È disciplinato in uno degli ultimi articoli della Dichiarazione perché l’istruzione è di supporto e suffragio agli altri diritti. Di questo si dovrebbe tener conto nelle scelte politiche che dovrebbero investire di più e prioritariamente nell’istruzione. 
Nell’art. 28 lettera c Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “[…] rendere l’istruzione superiore accessibile a tutti sulla base delle capacità con ogni mezzo opportuno”.  E i mezzi opportuni per rendere concreto ciò sono vari. “L’allenamento al problem solving, l’educazione alle scelte decisionali, la cooperazione tra pari, il fallire per poi correggere e la partecipazione a storie di vita vissuta sono tutte pratiche che rendono gli adolescenti più autonomi, più consapevoli delle proprie capacità, più fiduciosi nel futuro e più resilienti, tutte caratteristiche che aiutano non poco, sia nella prosecuzione futura degli studi universitari che nell’affrontare il mondo del lavoro” (Addolorata Mazzotta, dirigente scolastica). 
Da notare che nella Costituzione si parla di istruzione nell’art. 30, relativo ai genitori, e negli articoli 33 e 34, relativi alla scuola; i tre articoli sono inseriti nella Parte I “Diritti e doveri dei cittadini” e sotto il Titolo II “Rapporti etico-sociali”, per sottolineare la centralità dell’istruzione nella formazione del cittadino e nella vita quotidiana e i differenti (e non diversi) e complementari ruoli della famiglia e della scuola. Inoltre, l’istruzione è una delle attività o funzioni che più rispecchiano l’art. 4 della Costituzione, perché concorre al progresso materiale o spirituale della società.


L’insegnante, “colui che lascia un segno”, pertanto, dovrebbe essere lui stesso “segnato” nel vero senso di sentirsi chiamato a fare questo “mestiere”, parola che etimologicamente deriva da “ministro, servo”. E l’insegnamento è il servizio pubblico per eccellenza.
Oltre alla Costituzione italiana, alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, riferimenti all’istruzione, e precisamente richiami all’istruzione di qualità, si rinvengono in molte fonti internazionali, tra cui l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile nel cui Obiettivo 4 si prevede quanto di “bello” (che deriva da “buono”) si possa preparare per le nuove generazioni: “Costruire e potenziare le strutture dell’istruzione che siano sensibili ai bisogni dell’infanzia, alle disabilità e alla parità di genere e predisporre ambienti dedicati all’apprendimento che siano sicuri, non violenti e inclusivi per tutti”.
Fra i tanti bisogna porre attenzione a quanto si legge nella Carta di Ottawa per la promozione della salute (1986) sotto la rubrica “I prerequisiti per la salute”: “Le condizioni e le risorse fondamentali per la salute sono la pace, l’abitazione, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l'equità. Il miglioramento dei livelli di salute deve essere saldamente basato su questi prerequisiti fondamentali”. 


Nell’Obiettivo 1 dell’Agenda di Seoul: obiettivi per lo sviluppo dell’educazione all’arte (2010) si prescrive: “Garantire che l’educazione all’arte sia accessibile come componente fondamentale e sostenibile di un rinnovamento dell’istruzione”.
In queste fonti l’istruzione è associata alla salute e all’arte, tra le peculiarità più umane, che rendono persona l’essere umano e, perciò, l’istruzione è più di un diritto e di un dovere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sociologia giuridica della vita di coppia

 

 

Sintesi: Cosa significa amare? Significa vedere una persona, una situazione per ciò che sono
realmente
Abstract: L’articolo indaga le dinamiche sotterranee che consentono ai due di fare coppia, di
essere coppia

 

Si tende a parlare della coppia soprattutto “in negativo”, ovvero crisi della coppia, sostegno alla
coppia in crisi, terapia di coppia, oppure aggettivandola, come coppia genitoriale, eterosessuale,
omosessuale, aperta o altro. Occorrerebbe, forse, una maggiore consapevolezza della dimensione
della coppia, anche per distinguerne le varie fasi e per vivere in maniera fisiologica l’avvento delle
crisi che non possono mancare, e consapevolezza pure che le crisi di coppia e la conflittualità
esacerbata causano elevati costi economici, psicologici e sociali.
Innanzitutto bisogna partire dalla concezione dell’amore che non è un sentimento né punto di
arrivo o un obiettivo cui mirare ma l’orizzonte comune e, come l’orizzonte, cambia di volta in
volta. “Cosa significa amare? Significa vedere una persona, una situazione per ciò che sono
realmente, non per come le immaginate. E dare a quella persona e a quella situazione la risposta che
merita” (padre Anthony De Mello, psicoterapeuta indiano). Non innamorarsi della propria idea di
amore riflessa nell’immagine di qualcuno, ma dell’identità dell’altro riflettente amore. Così
nell’amore di coppia, così nell’amore genitoriale, in caso contrario non è amore ma dipendenza
affettiva o peggio (che portano, in casi estremi, allo stalking o a forme di violenza).


Cerimonia nuziale: i due guardano con emozione, si guardano con commozione. Cerimonia ha lo
stesso significato etimologico di sacrificio: “fare cosa sacra”. Quale sacrificio migliore se non
l’amore? Il matrimonio è una continua cerimonia, “atto, azione, pratica sacra”, e non qualcosa a
termine “tanto, poi, ci si può separare”. Non si sta o si vive con una persona o ci si sposa per una
presunta questione di età avanzata, per timore della solitudine, per aspettative altrui, perché ci si
dispiace di lasciare l’altro prima del matrimonio di cui non si è più convinti, perché l’altro più o
meno piace, per sogni infantili, per progetti fasulli, per “chiodo schiaccia chiodo” o altro ancora. La
vita di coppia e in coppia è una scelta, una scelta determinata ma non mirata, una “continua” scelta
dell’altro e “contigua” all’altro, frutto del leggere innanzitutto in se stessi e nel separare la parte
migliore dalla peggiore, dell’eleggere il bene per sé e per l’altro (dal significato etimologico di
“scegliere”), senza trascurare le conseguenze evidenti o latenti nelle vite delle altre persone, a
cominciare dai bambini. Il matrimonio (o una convivenza stabile) non è una “sistemazione” ma
dell’amore un “sistema d’azione”: non è un gioco di parole ma come fare della vita in due uno dei
più bei giochi di vita.
“Il matrimonio è creare una terza persona” (dal film drammatico “The danish girl”). Il
matrimonio è un percorso: coppia coniugale, famiglia, coppia genitoriale, eventuali figli. Passaggi
da tenere presenti e distinti in ogni momento, anche e soprattutto nei casi di conflittualità.
Metamorfosi i cui passaggi si evincono pure dai tre articoli del codice civile letti durante il rito del
matrimonio, gli articoli 143, 144 e 147. La vita coniugale è una staffetta o corsa ad ostacoli, le cui
“regole del gioco” sono scritte prevalentemente negli articoli del codice civile letti, non a caso,
durante il rito del matrimonio.


“Diventare una carne sola” non è tanto un fatto fisico quanto una dimensione spirituale: vivere nella
stessa sfera d’amore pervasivo e effondente. Questa la vera e auspicata sublimazione della coppia.
Lo studioso gesuita Giovanni Cucci scrive: “La testimonianza di una sposa indiana, che qui
riportiamo, può apparire lontana dalla mentalità occidentale, eppure rivela una verità preziosa, più
volte emersa in queste pagine. L’impegno può generare un amore capace di dare stabilità alla
relazione, consentendo alla coppia di provare una soddisfazione che dura nel tempo: «Noi basiamo
il nostro matrimonio sull’impegno rappresentato dalle promesse matrimoniali, non sui sentimenti.
Altrove, dove il matrimonio si basa sui sentimenti, cosa succede quando questi diminuiscono? Non
ti resta niente per tenere il matrimonio unito»” (in “La coppia e la sfida del tempo”, ottobre 2016). I
“segreti” della durata di un matrimonio sono altresì quegli obblighi indicati dall’art. 143 comma 2
cod. civ.. Ogni coppia ha un proprio equilibrio, ma è anche vero che la bilancia non può avere i
piatti in perfetto equilibrio né tantomeno un piatto che pende sempre da una parte: i piatti devono
oscillare nella ricerca dell’equilibrio ogni giorno. È un equilibrio con l’altro non per cercarlo
nell’altro, ma dopo averlo trovato in se stessi per donarselo reciprocamente: fare coppia, essere
coppia. Anche questo il senso dell’essere coniugi, etimologicamente “uniti dal giogo”: il carro si
porta avanti insieme.


Dagli artt. 143 e 144 cod. civ. si ricava una “dimensione domestica” della coppia e della
famiglia, come base e cemento della vita personale e interpersonale e la cui mancanza è spesso
causa di incomprensioni, allontanamenti e crisi. Dimensione domestica che si concretizza in
piccoli gesti: stare di più in casa, dedicarsi alle pulizie, non programmare necessariamente week end
o vacanze fuori che possono essere più stressanti del lavoro quotidiano, ritrovarsi a tavola solo in
due e non con ospiti. Anziché confidarsi con altri, bisognerebbe comunicare di più nella coppia, nel
bene e nel male.


“Devi aprire tu. Ci hai portati in questo rifugio che hai costruito per noi contro i tornado. Ma ora la
tempesta è finita. So che hai paura di spalancare la porta, ma non posso farlo io per te. Non sarebbe
la stessa cosa. Sono tua moglie e qui c’è tua figlia. Stiamo dalla tua parte. Vinci la paura, te ne
prego. Non credere ai rumori di acqua e vento che ti picchiano nella testa. Basta con le maschere
antigas, basta col buio, l’isolamento, l’immobilità. Fuori forse ci sono già il sole e l’azzurro che ci
aspettano. Usa quella chiave. Puoi farlo. Devi farlo” (dal film “Take shelter”). Quello che ci si
dovrebbe dire in una coppia dopo una tempesta di qualsiasi natura. La vita di coppia dovrebbe
essere così: pur non avendo gli stessi interessi, gli intenti da perseguire e i passaggi da seguire
dovrebbero essere gli stessi, altrimenti ci si perde di vista come spesso succede. L’amore non è un
compromesso con l’altro, né una gabbia con l’altro o dell’altro. La coppia non diventi cappio: non è
solo un gioco di parole, ma per alcuni diventa vita in gioco.


Coppia, da “attaccare, legare, congiungere”: così si cade e ci si rialza insieme. La mancanza di
comunicazione, alla lunga, causa la lacerazione della relazione. Il filosofo francese Jacques Maritain
richiamava: “Non bisogna confondere amare con cercare di piacere”. “Amare” ha lo stesso numero
di lettere e iniziale e finale come “avere”, perché amare è avere in sé e con sé tutto quello di cui si
ha bisogno e non il piacere effimero o il possesso fisico: questo dovrebbe essere il progetto di una
relazione d’amore e l’orientamento dell’educazione sentimentale da trasmettere non solo agli
eventuali figli ma alle nuove generazioni in generale.


“Solo, dunque, finché morte non mi separi. Questo è il prezzo, suppongo, che si deve pagare a
questo mondo per aver voluto essere libero. È caro o a buon mercato, mi domando? Dovrei ridere o
piangere? Chi lo sa! Ad ogni modo, non me ne sono mai crucciato, finché ero in vita. E ora è troppo
tardi per fare i conti. Ma forse ci si può domandare se libertà e solitudine non vanno mano nella
mano a questo mondo, così come appare, se si vuole rimanere un essere umano” (lo scrittore
svedese Bjorn Larsson). Così nella coppia bisogna conservare sempre uno spazio di libertà e
solitudine: fondersi ma non confondersi, appartenersi ma non possedersi. Resistere fa parte
dell’esistere, del coesistere con gli altri, dell’insistere avverso le difficoltà. Stare insieme è una
continua “elezione”, non una continua condanna: così la vita di coppia.


“Prendimi per mano e insegnami ad imparare di nuovo quello che ho disimparato [...] prendimi per
mano e dimostrami che non è finita” (cit.). Abbandonarsi all’altro e sperare in altro: anche questo è
prestare e prestarsi assistenza nella coppia (art. 143 comma 2 cod. civ.), sino a rivolgersi ad una
figura professionale, se e quando necessario e non a ogni piè sospinto. Perché delegare ogni
situazione o problema ad altri farebbe venir meno la propria dimensione personale e interpersonale.
Dopo uno smarrimento, l’amore è avvicinarsi in silenzio dentro spazi vuoti cercando di chiudere le
brecce al passato. “Coppia” è diverso da “paio”: è quell’unione, quel legame in cui anche se si
perde uno, c’è l’altro che rimane, aspetta chi si smarrisce o lo va a cercare.
“Arriveremo con quanto di prezioso abbiamo, le molte ferite della nostra storia. Le ferite ci hanno
scavato. Ci hanno costretto a prendere distanza dalla ricchezza esteriore. La realtà più preziosa che
abbiamo è un cuore che è capace di amare. Le ferite ci hanno messo in contatto con il nostro cuore”
(lo scrittore Bruno Ferrero). Quando in una coppia non ci si comunica più le reciproche ferite ma ci
si accanisce a procurarsene altre, non resta altro che andare via attraverso quella feritoia aperta nel
cuore per amore di se stessi e della vita, che è sempre più bella e nuova rispetto allo sprecarsi o
ripiegarsi in un amore finito.


“Gli ultimi momenti di un essere amato possono essere l’occasione per spingersi il più lontano
possibile insieme a quella persona, in un’intimità e in una profondità in certi casi mai raggiunte
prima – per la psicologa e psicanalista francese Marie de Hennezel –. Si crede di conoscere tutto
dell’altro, ed ecco che si scopre ciò che non si sarebbe mai sospettato, emergono tesori di umanità.
Nonostante le piaghe della malattia, l’essere umano ha ancora qualcosa da trasmettere” (in “Morire
a occhi aperti”, 2014). La morte, fisica o interiore, nella vita di coppia è una delle situazioni più
importanti in cui accostarsi all’altro, mettersi alla sua scuola, concretizzare ripetutamente e
strenuamente l’assistenza morale e materiale (art. 143 comma 2 cod. civ.), vivere la formula “finché
morte non ci separi” espressa durante la celebrazione del matrimonio concordatario.


Coppia, coniugio: continuare ad abbracciarsi, a sentirsi e mantenersi uniti, nonostante i
cambiamenti, oltre i turbamenti, negli essenziali ed esistenziali momenti. Una coppia non è fertile
se genera figli, ma genera se è fertile d’amore e vita: questo è “fare l’amore”, questo è il distintivo
della coppia.