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C’era una volta a Salandra.. e non solo

Ritornare, ricercare, ritrovare, ricordare…

Ricordare è riaprire una finestra del passato, è rimorchiare il passato per agganciarlo al presente e farne un carico di emozioni per andare avanti.

Ricordo è l’ombra sotto cui ci si rinfranca in tempi avversi.

Quasi nel cuore dell’ispido entroterra lucano sorge Salandra, un paese che non c’è bisogno di definire piccolo o paesello o altro, come precisa il paesologo Franco Erminio, perché la parola “paese” ha già in sé l’essenza di un paese. Salandra, paese che si presenta come un Giano bifronte, boschivo da un lato e argilloso e pietroso dall’altro, antico e moderno, che ha dato i natali a operai e a imprenditori… Paese che ne ha passate e superate tante (dai briganti ai terremoti) scrivendo una storia comune di cui essere orgogliosi, come di tutta la storia lucana.

Nascere in un paese allora ricco di storia e storie, di agricoltura e ogni altra forma di cultura, ti fa provare qualcosa di atavico, ancestrale, viscerale, quasi apotropaico, quando ti ritrovi immersa, seppure in maniera fugace, - come il posarsi di una farfalla che, non a caso, è il tuo insetto preferito - nella sua natura che, per quanto deturpata nel tempo e dall’uomo, torna a essere selvaggia e a impossessarsi dei suoi spazi e delle sue creature, anche in seguito all’abbandono crescente delle campagne.

Primo dopoguerra, anno 1921: nascita del maestro e scrittore siciliano Leonardo Sinisgalli, del maestro e narratore lombardo Mario Lodi, del musicista argentino Astor Piazzolla, dell’attore ciociaro Nino Manfredi e della Moto Guzzi a Genova. Il 24 marzo dello stesso anno nasceva mio nonno materno Antonio Leonardo, amante della lettura e della cultura in generale, della musica e in particolare della fisarmonica, del cinema (che, nonostante le ristrettezze, non si è fatto mai mancare né al paese né durante l’emigrazione in Germania dove vide in prima visione il film “La ciociara”) e delle moto, in special modo della rossa Moto Guzzi, sostituita successivamente dalla Vespa arancione e infine da quella rossa, tutti simboli del design italiano. La cultura patriarcale del tempo, purtroppo, che favoriva i primogeniti (altresì portatori del nome del nonno paterno) non gli consentì di continuare gli amati studi che finirono con la classe sesta della scuola popolare, l’unica esistente allora. Ciò, però, non gli impedì di andare oltre lo stereotipo “contadino, scarpe grosse e cervello fino”. Era capace di fare di tutto, per esempio usava ogni sorta di canna di palude per fare le canestre o per utilizzare le proprietà medicamentose delle membrane interne o con quelle più sottili creava lo strumento musicale popolare della “cupa cupa” per far divertire noi tre nipoti nel periodo carnevalesco o per fare i ditali o paradita per proteggere le dita durante la mietitura con la falce. Tra le tante, realizzò con i suoi vestiti dismessi uno spaventapasseri che faceva più paura alle persone che agli uccelli, perché sembrava un personaggio inquietante de “Il Mago di Oz”. Leggeva di tutto, dal romanzetto ad Anton Cechov, si documentava su tutto, comprava gli ultimi trovati di utensileria, si adoperava in tutto, dalla potatura all’apicoltura. Gli aneddoti su di lui si perdono, anche se l’ho perso precocemente, così come erano tanti quelli che raccontava, fra tutti ripeteva quello che riguardava la sua breve esperienza dell’arruolamento nella seconda guerra mondiale quando un commilitone e corregionale, gli chiese di scrivergli (perché analfabeta) una lettera da mandare a casa, ma mio nonno non riusciva a capire il nome del paese dove indirizzarla perché pronunciato velocemente e in un dialetto stretto fin quando venne fuori che si trattava di Episcopia (in provincia di Potenza), che dal quel racconto è entrato nel mio cuore (pur non conoscendolo) tanto da parlarne in un mio testo di geografia della mia scuola elementare e sentirmi palpitare il cuore quando ho visto il cartello stradale andando verso il territorio del Pollino. Una volta, mentre già era sulla sua Vespa per tornarsene a casa sua, sentì qualcosa muoversi nella manica della giacca e, tastando, tirò fuori un topolino come un mago fa uscire un coniglio dal suo cilindro. I nonni di una volta: maestri di storia e geografia, quelle della vita, perché davano contenuto e orientamento alla vita. I nonni non erano baby sitter o sostituti dei genitori o ostacolati nei rapporti con i nipoti o ignorati o chiusi in case di cura, erano nonni.

Oltre ad Antonio, Giuseppe, nome che deriva da un verbo ebraico col significato emblematico di “accrescere, aumentare, aggiungere”, era un altro dei nomi di persona più diffusi, presente quasi in ogni famiglia e con tante variazioni, anche al femminile. E così pensi ai tanti parenti con questo nome che hanno puntinato la tua vita, quelli che non hai conosciuto affatto o per poco, perché morti o scomparsi precocemente o tragicamente o in altro modo lontani, quelli che non hai vissuto o non frequentato: dai tre bisnonni, di cui si è sentito solo parlare, al procugino (anche se, all’epoca, ci si riteneva tutti cugini o, comunque, parenti stretti) coetaneo con cui si è cresciuti vicini di casa, insieme alla scuola media, nelle feste di famiglia e in altri momenti importanti. Tra questi due estremi, l’albero genealogico pullulava di Giuseppe: c’era il decano, il cugino paterno diventato poliziotto che, quando tornava in estate al paese, cui è rimasto legato sino all’ultimo, era accolto e circondato, come un gigante buono, da tanti per ascoltarne racconti della vita nella capitale e ricordi della sua giovinezza paesana mai dimenticata. C’era l’altro cugino omonimo di quello precedente e quasi suo coetaneo, abile meccanico, sempre affettuoso, mite, rispettoso, che non faceva mai mancare la sua visita o la sua telefonata, che non dispensava consigli ma solo esempio di vita e che era solito andare a leggere una delle due letture in chiesa quando faceva ritorno in paese. E ancora, c’era il fratello della bisnonna materna, diventato padre di undici figli, abituale nel suo mettersi a sedere, da anziano, davanti al camino o davanti casa, nella bella stagione, vestito nel modo classico del tempo e con il suo atteggiamento austero da vero capofamiglia, sempre con la moglie accanto o di fronte ed entrambi sembravano nella posa in cui ci si metteva per fare le foto da appendere, poi, alle pareti. E tanti, tanti altri parenti. Al di fuori del parentado, in paese c’era un Giuseppe in ogni ruolo o professione. A cominciare dal “medico condotto”, chiamato “don” per riverenza e immortalato nella memoria di tutti quando si affacciava dal suo balcone con la ringhiera in ferro battuto e prospiciente la piazza centrale. A seguire, l’elettrotecnico che si spostava con la vecchia Renault 4 rossa e che con la sua cassetta degli attrezzi sembrava un medico chirurgo, come lo era veramente la sorella, l’altra dottoressa del paese, che aveva fatto nascere decine di bambini nei parti in casa. Il sindacalista e vicesindaco nonché venditore ambulante con il furgone rosso, usato pure per la propaganda elettorale o per organizzare la festa del primo maggio. Nella parte più alta del paese il bottegaio di generi alimentari, fratello del postino. Il falegname, preciso ma lento nelle consegne. Il bravo insegnante, esponente di una delle famiglie in vista. Il tappezziere, denominato “Pippo”. Il fidato aiutante dell’impeccabile sarto. Il chitarrista e cantante amatoriale con il nome d’arte “Ramon” (nome preso dal film “Per un pugno di dollari”) e che aveva fondato con altri il complessino (e non “band”, come si dice ora) “The New Boys”. Il vicino di casa dei miei nonni, somigliante al Mastro Geppetto di Pinocchio, che metteva a riposo nella stalluccia sottoscala il suo asinello, non semplice animale domestico o mezzo di trasporto ma compagnia nella sua lunga vedovanza. L’orefice con un nomignolo tutto suo. Il calzolaio. Il muratore…

Accanto a Giuseppe non poteva mancare il nome di Maria. E si era soliti chiamare le donne con questo nome “zia” o “commara”, anche se non vi era un rapporto di parentela o di frequentazione, ma per rispetto del rapporto di vicinato o dell’età matura o della funzione che svolgeva in paese. E così c’era zia Maria, la sorella del nonno materno che aveva il compito di “vestire” la statua di San Rocco in occasione della processione solenne per la festa patronale e che era esemplare per il suo ordine meticoloso nei cassetti e nelle sue cose. L’altra zia Maria, sorella della bisnonna materna, con cui c’era un doppio legame di sangue, dal lato materno e da quello paterno, perché prima in paese ci si imparentava tutti. Un’altra “zia” Maria, mai sposata e, quindi, senza nipoti, che abitava in una zona appartata del paese che sembrava non essere stata toccata dalla modernità, affacciata sui suggestivi calanchi senza tempo. Minuta, sferruzzava silenziosamente e minuziosamente i suoi più di due minuscoli ferri per fare calze e calzini su commissione (come i calzettoni per i miei fratelli che le commissionava mia nonna). Abitava accanto a una delle zie paterne più care, per cui era diventata una figura familiare, e nella sua casetta monolocale viveva in maniera spartana con suo fratello, anche lui non sposato. Entrambi sembravano personaggi fiabeschi, come quelli che spuntavano dalle casette in fondo al bosco. Il loro aspetto evocava i quadri di Carlo Levi e quell’angolo riposto sembrava la Lucania descritta in “Cristo si è fermato a Eboli”. E, poi, c’era “comma” Maria, punto di riferimento in chiesa, sempre pronta a recitare il Rosario, sposata ma senza figli, materna con tutti anche per la sua fisicità all’Ave Ninchi. Nella scuola elementare c’erano le maestre Maria e le due bidelle quando, appunto, non si parlava di collaboratrici scolastiche né di scuola primaria. Allora i bidelli indossavano grembiuli di un blu più scuro rispetto a quello del grembiule portato dai bambini, erano delle autorità più degli insegnanti, erano la scuola stessa. I corridoi erano lindi e negli angoli c’erano piante di cui si prendevano cura. Quelle due bidelle, essendo molto diverse per fisico e atteggiamento, sembravano la versione femminile delle coppie televisive o cinematografiche che avevano successo in quel periodo, per esempio Gianni e Pinotto, Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi o altri. C’erano Maria, “la grassanese”, sempre capofila nelle processioni, Maria, l’ortolana, con cui era consuetudine scambiarsi il saluto quotidiano e quattro piacevoli chiacchiere, Maria, la moglie del fornaio…

Erano tutti e tutte istituzioni, icone, personaggi “in cerca d’autore” del teatro popolare inscenato nella vita quotidiana. E i bambini li guardavano, apprendevano da loro, li imitavano e si accontentavano del verace spettacolo della variopinta umanità ed erano autenticamente “contenti”. E il paese era comunità viva e vitale, una vera comunità educante secondo il proverbio africano “per educare un bambino serve un intero villaggio”.

Nascere in un posto ti segna e ti segue per tutta la vita in maniera silenziosa e significativa come la linfa irrorata dalle radici. Compaesanità: anche la partenza non cancella il senso di appartenenza, quel senso di paese descritto magistralmente dal grande Cesare Pavese.

“Ma un conto è essere tristi e stanchi, e un altro è perdersi d’animo, facendo della nostalgia uno stato abituale” (cit.). “Nostalgia”, letteralmente “dolore del ritorno al paese, a casa”: farsi prendere dalla nostalgia ma non farsi travolgere, altrimenti si perde l’ardire e l’ardore per il presente.

Scrivere è scoprire, scolpire, scrostare, scrutare... Scrivere, poi, sul proprio paese in cui si è nati e vissuti pochi anni dà un nuovo sapore, un nuovo senso e un nuovo significato al tempo passato. 

In passato...

Pulire sugli armadi ti fa vedere da un altro punto di vista la tua casa, il tuo ambiente quotidiano e ti fa ritrovare cose dimenticate del passato riposte là sopra per mancanza di spazio. Come bisogna fare di tanto in tanto nella propria vita: rimuovere la polvere e spostare qualche elemento. E ritorni indietro nel tempo!

In passato non c’era la lavatrice ma la levatrice. Non si andava sulla pista ma alla posta. Non c’era il master ma il mastro. Non il virtuale ma le virtù. Non si correva a comprare l’ultimo modello di telefonino ma si correva a rispondere al telefono del vicino. Non le case di riposo per i nonni ma il riposo a casa dei nonni. Non c’era il “coding” per i bambini ma il giocare a fare i conti con i sassolini, le biglie di vetro, i tappi a corona, in dialetto “turturedd”, quel dialetto evocativo, plastico, onomatopeico che non ha nulla a che vedere con i nomi inglesi usati ora. Non c’era bisogno del riciclo perché si rispettava ogni ciclo (altro che ecosostenibilità!). Non il ricorrere al botulino contro le rughe ma al chinino contro la malaria. Non il rifarsi la faccia ma rimetterci la faccia. Non un divano in casa ma, solo per pochi, un bivano come casa. Non c’erano le sale di commiato ma il commiato di tutto il vicinato. Non maschere di bellezza all’argilla ma mani che s’imbrattavano di argilla per farne oggetti necessari per la casa. Non si faceva salotto ma c’era il salotto nella cui stanza non si poteva entrare se non per spolverare o per eventi importanti che non arrivavano mai. Non gatti di razza nutriti con croccantini e crocchette, ma ogni razza di gatto che entrava in casa dal buco quadrato nella porta o nel muro dello stipite della porta e mangiava topi e quello che trovava. Non ci si spalmava la bava di lumaca ma si mangiavano le lumache e ci si leccava baffi e mani nel succhiarle dai gusci senza far caso ad alcun galateo. Non c’era la mamma definita casalinga ma la mamma che aspettava a casa e quando, da piccolini, ci si appoggiava sul suo grembo per addormentarsi, si sentiva l’odore di candeggina dalle sue mani che avevano appena finito di fare il bucato o altre pulizie. Nelle famiglie del passato si pativa la fame, in quelle attuali si patisce spesso la fame d’amore, ascolto e attenzione! In passato c’era quel che c’era perché si era!

La giornalista Luisa Santinello scrive: “E con buona pace di oro e gioielli, non c’è niente di più prezioso del nostro passato. Perché solo guardandoci indietro possiamo davvero andare avanti”. E già, il passato (come il paese nativo o la famiglia d’origine) non si può cancellare, non si cancella. È quel cancello da cui siamo usciti, è quel cancello che, cigolante e arrugginito, rimane socchiuso per poter passare e attingere i ricordi o semplicemente fermarci, ritrovare la nostra dimensione, la nostra infanzia sulla sediolina impagliata nella casa della nonna, lì al solito posto, accanto al camino o alla stufa a legna in ghisa smaltata. Il posto designato a noi e che ci aspetta per darci un po’ di tregua nella corsa del presente.

Girarsi verso il passato, inseguirlo, pensare di rimediare, rimuginare... è come cercare le proprie orme dopo essere passati sul bagnasciuga. Come un ritorno fugace al paese nativo e alle cose di famiglia. Strade dissestate per arrivarci, natura più verdeggiante del solito per le piogge abbondanti o tutto inaridito per la siccità. All’arrivo ragnatele dappertutto, insetti morti, macchie di umido, pareti scrostate (quasi a rappresentare come ci si sente dentro), polvere fitta, porte che si aprono con difficoltà, senso di abbandono... Il passato non è mai come lo si è lasciato o come si continua a coltivarlo nella più profonda memoria perché sono venuti a mancare quelli che lo hanno costruito e custodito con cura, quella cura che non c’è più e che ritrovi solo nella levità e nel tepore delle lacrime che bagnano i ricordi. “Passato” contiene “pasto”, perché è come un pasto: una volta consumato non esiste più com’era, ma rimane e continua a far parte di noi.

Oggi la rimozione definitiva delle cabine telefoniche in città non è solo la rimozione di elementi dell’arredo urbano. È la rimozione di un punto di riferimento, di ricordi, dove si aspettava a lungo e nel frattempo “si attaccava bottone” con gli altri astanti o ci si scontrava con gli immancabili maleducati, ci si riparava dalla pioggia, si faceva finta di parlare per sfuggire alle attenzioni di qualcuno, si facevano scherzi telefonici, si interrompevano bruscamente le conversazioni quando finivano le monete o i gettoni a disposizione: un vero teatrino di vita, vita verace. La loro rimozione, come la rimozione di tanto altro (fontanini, edicole, chioschetti, comode pensiline), è un taglio con il passato, una cesura con la continuità della storia. Chi l’avrebbe mai detto!

Talvolta un bel ricordo è quello che ruminiamo del passato per riempire il nostro stomaco vuoto di belle emozioni presenti.

Allora non ci resta che volgere le spalle al passato e puntare l’obiettivo della macchina fotografica verso nuovi orizzonti, anche se apparentemente aspri e impervi.

Matera, di passo in passo, di Sasso in Sasso

Il poeta statunitense Jack Kerouac, in uno dei suoi haiku composti tra il 1956 e il 1966, scriveva: “Un fiore /sull’orlo di un dirupo / ammicca al canyon”. A distanza nel tempo e nello spazio questi versi sembrano scritti per Matera, “fiore di pietra”, che si affaccia sul canyon del torrente Gravina, tra fiori di capperi, di rosmarino, orchidee spontanee e altre centinaia di specie floreali.

“Paesaggio”, da “paese”, quella porzione di territorio che si coglie con lo sguardo e per Matera si è usata per la prima volta nel 1993 dall’UNESCO la locuzione “paesaggio culturale”. Perché Matera è paesaggio, culturale, relazionale, emozionale... ma per coglierlo ci vogliono uno sguardo speciale e non superficiale, silenzio, sensibilità. Come per tutta la terra lucana e la gente lucana! Altrimenti non scatta la magia!

Oggi si ricorre addirittura all’intervento chirurgico per cambiare il colore degli occhi, mentre si è miopi o ciechi nel non scorgere tutte le sfumature del bello che ci circonda. Come la meraviglia della luce e delle ombre che cambiano di ora in ora, e a seconda delle condizioni meteorologiche, nei Sassi e che fanno variare il colore della calcarenite. Ogni volta, passeggiando nei Sassi, è la foto che mi chiama e non io che mi fermo a cercare lo scatto.

Matera, città delle cose semplici e belle, dell’amicizia, della fotografia, dell’in-canto, città di cui innamorarsi, in cui innamorarsi: ogni passeggiata o discesa nei Sassi di Matera è una scoperta o analisi non solo archeologica ma soprattutto antropologica. Sembra di rinnovare le emozioni provate, all’arrivo nella città di allora, dalla sorella di Carlo Levi, Luisa, che si aspettava una “città pittoresca” come aveva letto in una guida. I Sassi sono un vero spaccato di storia e umanità, di storia dell’umanità, immagine anche della maternità. Matera è sempre madre, ancor di più per la festa patronale o per altri eventi perché accoglie tutti e prepara il meglio.

Maggio a Matera. Manto di nuvolette che sembrano nocche di mani o “margheritone regine di maggio” in un campo onirico. Materia vivente. Madonna cui è dedicata la cattedrale e che è invocata da chi crede. Magia che si ripete senza alcun trucco. Mare di emozioni lungo onde di ricordi...

Calda serata estiva, chiesa di San Giovanni Battista, una delle più piccole, antiche e particolari chiese della città. Ai piedi del suggestivo Crocifisso ligneo un sublime concerto di archi (con un nuovo contrabbasso costruito dal giovane liutaio presente nel pubblico) e fiati di musiche da Schubert in poi. Le vetuste pietre, che hanno sentito musiche e cori di secolo in secolo, vibrano di rinnovate emozioni all’unisono con i cuori. Matera, città spirituale, musicale, viscerale... sempre Matera!

Sasso Barisano, fine luglio. Concerto sotto il cielo sempre più vellutato del crepuscolo, su un terrazzino che, come in molti casi, è il tetto di una delle vecchie abitazioni sottostanti e sovrapposte tra loro. Gruppo di musicisti di varia formazione e proveniente dalla barocca Lecce, originale e ammaliante rivisitazione delle musiche dei film di Fellini e di brani per bande musicali, malinconica atmosfera mediterranea e orientaleggiante. La forma cava dei Sassi fa da cassa acustica tutt’intorno. Dietro i musicisti, negli anfratti e nei vicoli, si susseguono scene di ogni sorta, tra cui un gruppo di danzatori che prepara una coreografia per chissà quale spettacolo. Qualche rondine vola bassa per far ritorno al suo nido. Matera, “magia senza alcun trucco”, sottofondo da naturale colonna sonora di spontanei set cinematografici in cui non si recita ma si prova forte l’emozione del momento.

“Essere. Respirare. Qui. Adesso. Tutto questo non è grazia?” (il regista Martin Scorsese). Arrivare a fine giornata è grazia, ancor di più dinanzi al panorama di una città storica come Matera, che ha superato ogni disgrazia e dona a chi l’ammira uno stato di grazia, soprattutto al tramonto, quando diventa spettacolare ed emozionante come una Traviata a cielo aperto e fa sempre trasalire di nuove emozioni. Matera e tramonto, patrimonio dell’umanità: i Sassi, dal tramonto in poi, sono un incantevole matrimonio tra il cielo e la terra, ancor di più sotto una coltre di nuvole sfuggevoli e sbuffanti.

Matera, bella signora dall’aurora sino all’ultima ora, quando il cielo si manifesta ancor di più visceralmente e etimologicamente “convesso”, una volta celeste, una splendida cornice che spicca in contrasto con tutte le sfumature del grigio della roccia dei concavi Sassi. La notte è stata inventata per sospendere e sospendersi, sorprendere e sorprendersi, sospirare e sospirarsi, sognare e sognarsi, sollevare e sollevarsi... Come dinanzi alla vista del calar del siderale velluto blu sulla bellezza matura di Matera!

I Sassi di notte: nel letto della terra, sotto il lenzuolo del cielo. Camminare in silenzio, nel buio ovattato, in solitudine, tra strettoie e vicoli ciechi, su pietre lastricate, come i gatti che schizzano da una parte all’altra... Un’esperienza spirituale, “animica”, onirica... La parola “atmosfera” contiene Matera, perché Matera è un’atmosfera.

Frescolina serata invernale. Palazzo Viceconte, uno dei più belli e ricchi di storia, leggende, stanze e sotterranei, su nella Civita. Concerto di musiche di Mozart nella sala affrescata di trompe l’oeil. Gli anziani coniugi, proprietari del palazzo, in prima fila, con le spalle accostate e molto teneri nell’espressione. Pubblico di persone mature, ma anche qualche giovane figlio con i genitori, come variegata nell’età è anche la composizione dell’orchestra. Ogni musicista ha il suo rapporto d’amore con il proprio strumento. Su tutti il pianista solista che suona anche ad occhi chiusi e senza spartito, tutto preso dalle vibrazioni, e rivolge lo sguardo e il sorriso al direttore quando finisce la sua parte... La musica, donna, una delle più belle e coinvolgenti esperienze immersive!

Natale, per quanto reso consumistico, è sempre un’aura nuova, unica, magica, densa di malinconia, nostalgia, poesia, che ti riporta all’infanzia, alle origini, a coloro che se ne sono andati prima, troppo presto. È ancora più speciale in una città presepiale, materna, ieratica come Matera, soprattutto di sera.

Natura morta o natura in posa o vita silente (come la si chiama in tedesco e in inglese): quanto cambia in base al modo di denominare, di guardare, di pensare le cose. Come nella vita di tutti i giorni! Vita silente, come quella nei Sassi di Matera quando non ci sono turisti e in tutta la Basilicata in via di spopolamento.

“Danzare con il tempo è accettarne la fugacità e capire che siamo parte di una corrente di nomi che non è iniziata né terminerà con noi. Non smettere di danzare: con gli altri, con te stessa, con te stesso, con il mondo. E con Dio” (lo spagnolo José María Rodríguez Olaizola in “Danzare con il tempo”). Non siamo esseri finiti ma particelle infinitesimali dell’infinito fluttuare del tempo: come Matera, città del tempo e nel tempo!

“Paesaggio” di Baudelaire:

“Io voglio, per comporre castamente le mie egloghe,

coricarmi vicino al cielo, come un astrologo,

e, ascoltare sognando, vicino ai campanili,

i loro inni solenni portati nel vento.

Le due mani sotto il mento, là in alto dalla mia mansarda,

vedrò il cantiere dove si chiacchiera e si canta;

e vedrò camini e campanili, gli alberi maestri della città,

e i grandi cieli che promettono sogni di eternità.

È dolce, fra la nebbia, vedere nascere

la stella nell’azzurro, una lampada alla finestra,

i fiumi di carbone salire al firmamento

e la luna spargere il suo pallido incanto.

Primavera, estate, autunno io vedrò

e quando arriveranno le nevi del monotono inverno

chiuderò con cura tutte le porte e le finestre

per costruirmi nel buio fiabeschi palazzi.

Allora potrò sognare orizzonti bluastri,

e giardini, e zampilli d’acqua sgorganti negli alabastri,

e baci, e uccelli che cantano sera e mattina,

e tutto quello che nell’Idillio c’è di più infantile.

La Rivolta, che invano si scatena alla finestra,

non mi farà levare la fronte dal leggìo;

perché resterò immerso nel piacere

di evocare la Primavera con la mia volontà,

di far sorgere un sole dal mio cuore, e di creare

con i miei pensieri ardenti una tiepida atmosfera”.

Così appare Matera, nel contrasto tra antico e moderno, soprattutto se vista da via Duomo o piazza Duomo, e ancor di più dall’alto della Torre di Iuso, che ti dona una vista migliore di qualsiasi moderno drone.

Matera non è semplicemente una città: era un’isola in mezzo al mare preistorico e continua ad essere un’isola in mezzo a un mare di emozioni fluttuanti.

La narratività dei paesi lucani: da Salandra a San Fele

Paese di una volta…

Pazzo: “pazzo”, un appellativo che si attribuiva spesso a chi usciva dagli schemi, al diverso, allo “scemo” del paese.

Pezzo: pezzo di focaccia o di altra pietanza che si faceva assaggiare ai vicini di casa; o come il pezzo di cuore riservato sempre al paese da cui si era dovuti partire.

Pizzo: pizzi ricamati a mano o lavorati all’uncinetto per il corredo della sposa, quel corredo che ogni ragazza imparava a preparare sognando il suo futuro e la famiglia che avrebbe formato.

Pozzo: i contadini ne creavano di rudimentali quando individuavano una falda o fonte di acqua.

Puzzo: se ne sentivano di ogni tipo, da quella del fumo del camino a quella dello sterco degli animali domestici.

La vita rurale o paesana di una volta era cadenzata dai tempi della casa familiare, della campagna e della natura, dall’aratura e agnellatura alla stagnatura e alla zolfatura… Si viveva intensamente ogni tempo senza fare una corsa contro il tempo e senza dire di non avere tempo, ma impegnandosi e aiutandosi per superare ogni contrattempo pur non essendo tempi facili.

Trapassato prossimo o remoto: tratturi stretti e contorti, che richiamavano il percorso delle budella o dei cunicoli di formicai quasi a sottolineare il rapporto viscerale, intimo con la madre terra. Lungo quei tratturi si passava con l’asino o il mulo sulla cui groppa, al ritorno dalla campagna, si mettevano i sacchi pieni o le fascine e ci si aggrappava alla coda per farsi condurre. Trattori pericolosi e inquinanti, gommati o cingolati, su cui i bambini volevano salire o salivano senza alcun timore o che ammiravano quando erano nell’officina del meccanico dove alcuni maschietti andavano a imparare il mestiere. Traini usati da chi viveva nelle case coloniche del Metapontino per portare al mare famiglia e parenti ospitati. Trasporto di olio, salsiccia e altri prodotti fatti dalle mani amorevoli e laboriose dei genitori e degli altri anziani rimasti in paese e ‘mandati’ dal Sud al Nord. Trasportatore, uno dei mestieri più esercitati e anche ammirati, perché viaggiava in lungo e largo e poi raccontava nuovi mondi da vivere e nuovi modi di vivere. Traballanti impalcature su cui lavoravano fischiettanti muratori con i tipici cappelli fatti di carta, il più delle volte ricavata dai sacchetti di calce o altro materiale. Trabatello arrangiato o preso in prestito per imbiancare con la calce e con l’aiuto di figli o nipoti l’alto soffitto a volta. Trappole per topi in ogni casa per non far annidare i topi nella madia o per non farli arrivare alle forme di formaggio appese per farle stagionare. Tramezzini sconosciuti, perché i panini erano fatti con due fette di pane casereccio e in mezzo frittate o salumi fatti in casa o pecorino dal sapore deciso. ‘Trame’ fitte delle lenzuola grossolane nelle case popolane e ‘trame’ avvincenti dei mitici sceneggiati tratti da romanzi, da Sandokan a Michele Strogoff, che si seguivano in compagnia anche dei vicini di casa o parenti chesi riunivano apposta.

Trasmissioni televisive in bianco e nero e interrotte dall’intervallo Rai con musica d’arpa e paesaggi dei più bei posti italiani (altro che crociere e viaggi organizzati!). Trapezisti e trampolieri ammirati dai bambini negli spettacoli circensi sotto la tenda montata nella piazza centrale del paese e ai quali si andava accompagnati dai papà o dai nonni perché le mamme rimanevano in casa. Tracolla in cuoio - stracolma di lettere, cartoline, biglietti augurali, vaglia (di colore rosa), …- del postino (con il tipico cappello), tanto atteso e rispettato in paese come una figura istituzionale. Tradimenti frequenti ma tenuti nascosti o perdonati. Tramonto non come spettacolo da fotografare, come si fa adesso, ma come punto di riferimento della giornata per smontare dal lavoro nei campi e tornare a casa. Travasi di piante o del vino secondo le lunazioni, “studiate” dai vecchi saggi che con lo stesso metodo cercavano di prevedere il sesso dei nascituri. Travi di legno attaccate dai tarli i cui rumori notturni avvaloravano le leggende sui “monachicchi”. Trambusto in occasione della preparazione del pranzo nuziale, perché si faceva tutto in casa con l’aiuto di donne esperte e facendosi prestare gli utensili necessari. A Salandra, per queste grandi occasioni, c’erano Fastuecch’ (Fausta), la cuoca e Iangiulin (Angelina), che abitava nella Via nuova, “a via nov”, e faceva le paste, “i pezzi dolci”, della sposa, denominate in tempi moderni “sospiri”. Tramestio nelle botteghe, nei mulini. Tradizioni, dapprima abbandonate e ora rispolverate per trasformarle in sagre o altro… Un mondo di vite e di vitalità che non c’è più e che rischia di morire anche nella memoria, perché abbiamo perso l’abitudine di raccontare, richiamare, ricordare, ringraziare.

Salandra, sabato santo: processione della struggente statua dell’Addolorata (la cui espressione di autentico dolore hai ricercato in altre ma mai ritrovato) lungo salite e strettoie del rione Castello, stonature di canti di devozione popolare, suono della banda musicale del paese di lunga tradizione, seguito di paesani residenti e di quelli tornati per l’evento, soliti crocchi di coloro che si fermano apposta per parlare e guardare... Si arriva al Calvario, si risale al paese, ci si saluta, ci si congeda... Pur non facendo più ritorno al paese d’origine ci si immagina ciascuno al proprio posto secondo la propria consuetudine. E tra malinconia e nostalgia forse è meglio non tornare perché molto e molti non ci sono più e sono solo nelle pieghe del cuore, di quel cuore bambino in cui tutto resta più impresso.

Salandra, ultima domenica di maggio, festa della Madonna del Monte, al limitare del bosco. Festa di devozione popolare, nata da una leggenda di apparizione, come tante altre feste mariane. Manti verdeggianti lungo i pendii delle colline, ogni tanto un campo a maggese, qualche maggiolino in volo. Alcune donne che si chiamano Maria, varie manifestazioni di maternità. Ciò che colpisce di più sono le mani: mani che si salutano, mani che fanno il segno della croce, mani che toccano la statua della Madonna richiedendo una grazia, mani che sollevano la statua, mani che soccorrono un’anziana che è caduta inciampando, mani di figli che aiutano genitori con difficoltà di deambulazione, mani di genitori che tengono bimbetti sgambettanti... Lo zoom della macchina digitale si ferma sulla manina sinistra del Bambinello della statua che è infilata sotto il manto, dietro al collo, della Madre Celeste e che rende quella statua, venerata da generazioni di paesani, così plastica, così vera in quel gesto d’amore filiale. Finché ci sarà un intreccio di mani saremo umani e vi sarà un domani!

Santuari mariani in ogni angolo del territorio lucano - da quello sul colle di Picciano (nel territorio di Matera) a quello ai piedi del Monte Pierno (nel territorio di San Fele) -, sorti per leggende o racconti popolari, solitudine, silenzio, sospensione del tempo, sinuose nuvole, sibilo del vento attraverso le foglie degli alberi che ti sussurra nel tuo segreto qualcosa di insondabile, di imperscrutabile. E, immersi in quella sacralità, ci si rivolge alla casa della Madre con il pensiero per la propria madre, per ogni madre, vicina e lontana.

La giornalista Luisa Santinello scrive: “E con buona pace di oro e gioielli, non c’è niente di più prezioso del nostro passato. Perché solo guardandoci indietro possiamo davvero andare avanti”. Il passato (come il paese nativo o la famiglia d’origine) non si può cancellare, non si cancella. È quel cancello da cui siamo usciti, è quel cancello che, cigolante e arrugginito, rimane socchiuso per poter passare e attingere i ricordi o semplicemente fermarci, ritrovare la nostra dimensione, la nostra infanzia sulla sediolina impagliata con il cuscino fatto all’uncinetto nella casa della nonna, lì al solito posto. Il posto designato a noi e che ci aspetta per darci un po’ di tregua nella corsa del presente.

Quando te ne vai dal tuo paese di nascita vorresti che tutto rimanesse immutato e che tutti stessero lì nelle loro case, famiglie, occupazioni, abitudini... perché sono un punto di riferimento nella tua memoria visiva e nella memoria del cuore. E quando vieni a sapere della morte di qualcuno, seppure non imparentato né mai frequentato o salutato, comunque la notizia ti turba perché verrà a mancare la linfa vitale alla comunità paesana e da quella stella morta giungerà solo la luce (fin quando continuerà negli anni luce) nel buio del cielo comune in qualsiasi posto!

I paesi più o meno piccoli, non solo lucani, hanno qualcosa in comune: il cuore storico, il cuore delle persone che vi sono nate e cresciute.

Nascere e crescere in un paese è avere sempre un faro che conserva il suo fascino e mistero, anche se abbandonato (o proprio perché abbandonato).

Paese di nascita: oasi o miraggio nel cammino verso mete ignote e che si allontanano come gli orizzonti ogni volta che si cerca di avvicinarsi. 

Vivere la Basilicata da Salandra a…

 

Basilicata, terra dei pini loricati che fanno venire in mente gli avi, i nonni di una volta, con volti rugosi, scavati e segnati dal tempo e dal sole, curvi, fermi ad aspettare, ma che rimanevano in casa, in famiglia che non era considerata negativamente patriarcale.

 

Così Salandra, nome di origine greca tra “andros”, uomo, e “hydor”, acqua: paese dei nonni, paese della famiglia, paese delle origini. Paesaggio “bifronte”: da una parte il bosco di querce e dall’altra i calanchi che digradano verso il torrente Salandrella e si congiungono con gli altri calanchi della vallata. Parole dialettali, alcune derivanti dal latino, come “cra” per dire domani. “Past”, la pasta di varie fogge solitamente preparata dalle nonne che davano un pezzo dell’impasto ai nipoti che imparavano a “cavare” o plasmavano dei tarallini da abbrustolire sulla stufa o su altra fonte di calore. “Pan”, il pane, il cui nome in dialetto è di derivazione latina. Dal pane degli antichi Romani sono derivate anche le forme e le incisioni (che, poi, hanno risentito dell’influenza cristiana) sul pane con riferimenti agli organi sessuali per indicare la fecondità. Il nome “pan” evoca pure il dio Pan, dio dei pastori e della campagna, e il prefisso “pan-” con il significato di “tutto”: come la sacralità, i riti e tutto il lavoro che caratterizzavano il pane nella vita di una volta. Il pane era tagliato dal padre seduto a capo tavola, di solito con il suo coltello a serramanico, in maniera regolare senza far perdere le briciole e la fetta della panella grande era tagliata in due e condivisa tra i figli. Paglia per i sedili delle vecchie sedie e in fondo alle case per gli animali.

 

“Pagghiar”, i pagliai in campagna, come quelli dipinti da Vincent Van Gogh, e usati anche come ripari o per apporgiarvisi nei momenti di pausa dal lavoro. “Pagliet”, la paglietta, cappello estivo che veniva comprato dagli uomini ai mercati o alle fiere alla bancarella dell’immancabile cappellaio di Ferrandina. Passi pesanti, perché si portavano quasi sempre le scarpe da lavoro. Passeggiate tra sole donne o soli uomini. Pannocchie di “pupud(e)gn” (granturco) che venivano sgranate sull’uscio di casa da nonni e nipoti, con grande gioia dei piccoli. Panni lavati in acqua e cenere e col sapone prodotto dal grasso di maiale e stesi al sole in mezzo alle strade su fili mantenuti da aste di legno tra bambini vocianti e giocosi; quando poi le donne di casa andavano a raccoglierli si facevano aiutare dalle femminucce affinché imparassero. Pannolini in cotone, per i neonati o per il ciclo mestruale, cuciti e lavati a mano. Pantaloni di panno grossolano o velluto a coste per gli uomini e pantaloni corti e tagliati in mezzo al cavallo per i bambini (per far scorrere la pipì). Pastrano, il cappotto a ruota che indossavano gli uomini in inverno e con cui, poi, ci si è travestiti a Carnevale. “Pacchiana”, la donna semplice nelle vesti tradizionali, anche queste usate negli anni ’70 per vestirsi a Carnevale o per farsi le foto in posa e mettendo le arance al posto dei seni e dare volume al corpetto. Padri di famiglia, più temuti che rispettati, e non chiamati “papà” ma “tat” e derivati. Papaveri con cui giocavano i bambini soffiando i petali e usando i pistilli come timbrini sulla fronte o sulle mani.

 

Parsimonia in tutto, pure nelle manifestazioni d’affetto. Pantofole ricavate da vecchie scarpe, sostituite poi dalle pianelle (le scendiletto) che erano tenute sotto il letto dagli uomini e venivano prese dai bambini quando i padri tornavano a casa e si dovevano togliere le scarpe. Paure comuni e condivise, a cominciare da quella di perdere i raccolti. Pance semivuote per la miseria generale. Palpebre semiabbassate per stanchezza o riservatezza. Parenti con tutti, anche perché i bambini chiamavano “zii” o “compari” i vicini e gli anziani. Parecchi parenti si chiamavano Peppino e Pinuccio, le varianti del nome Giuseppe, nome presente quasi in ogni famiglia. Anche nella mia famiglia c’erano i mitici Pinuccio, con grande maestria nelle mani (dal guidare ogni mezzo al lavorare il ferro battuto) e di gran compagnia, e zio Peppino. Quest’ultimo era abile in tutto, dal fare il sensale al raccontare storie (altro che i dispositivi audio che si usano ora per far addormentare i bambini!) incantando adulti e bambini, anche con il coniglio che faceva con il fazzoletto da naso attorcigliato alle dita. Pastori che attraversavano il paese con i greggi e i bambini erano sempre incantati alla vista delle mansuete pecore. Parroco, punto di riferimento per tutti e colui che ha segnato la storia di più generazioni è stato don Carlo che aveva sempre caramelle nelle tasche da dare ai bambini. “Paddon”, caciotta dal sapore invitante lavorata amorevolmente – in tarda primavera – tra le mani esperte. Passata di pomodoro messa ad asciugare al sole, poi conservata sotto uno strato di olio. La si prendeva a cucchiaiate per condire le pietanze oppure per spalmarla sulle fette di pane, anticipando l’uso del ketchup. Padovane, le galline ovaiole allevate davanti casa e fatte rientrare la sera, e che si compravano da pulcini alla fiera degli animali.

 

Pavimenti in pietre di fiume o cotto grezzo, difficili da spazzare. Pareti interne inesistenti o, tutt’al più, sostituite da tende fiorate, anche con buchi o rammendate. Panchine solo nella villa comunale perché per assistere alle feste in piazza ci si portava le sedioline da casa oppure si prendevano quelle che erano nelle sedi delle sezioni dei partiti per sedersi in crocchio davanti all’uscio. Pazienza tanta nella cura del “pulvin”, semenzaio che ogni contadino allestiva con cura in fondi di bidoni o altro di riciclato e nell’allevamento del “purk”, maiale “cresciuto” (come si diceva) da molte famiglie per, poi, ucciderlo e non sprecare nulla del suo corpo, dalla cotica (perfino delle orecchie) al grasso. L’uccisione del maiale non era la semplice uccisione di un animale né era ritenuto un atto cruento ma era un rito, una festa, il ritrovo di generazioni e parenti. Era un momento che sembrava rinnovare i tempi preistorici in cui vi era la lotta tra l’uomo e gli animali più grossi di lui. Si univano mitologia e tribalismo. Tutto quello che emerge dalle foto in bianco e nero di Antonio Biasiucci, cultore di fotografia antropologica, che “ha raccontato il rituale del sacrificio del maiale dal punto di vista dell’animale, fra i vapori evanescenti dell’acqua calda che aiuta a estirpare le setole” (cit.).

 

Come a Salandra, era grosso modo nel resto della Lucania di una volta.

 

Ronca e ronchetto, tra gli attrezzi usati dai contadini. Rocco, il santo più venerato (rinomata la statua del santo ricca di monili d’oro di Tolve) e Rocco il nome maschile più diffuso in passato. Grandi Rocco Petrone, Rocco Mazzarone, Rocco Scotellaro… Rosamaria, il nome che si attribuiva all’accompagnatrice importuna delle coppiette e Rosabetta il nome della granita a base di neve e caffè o quello che si possedeva in casa. Rocchette di filo nero e filo bianco immancabili in casa per rammendare e rattoppare i pochi indumenti e rocchettoni di più colori nelle sartorie di paese. Rocciosa la tempra dei lucani (ma ospitali e generosi) come la roccia su cui nascono Matera, Castelmezzano, Pietrapertosa e altri paesi e la maestosa statua del Cristo imberbe di Maratea. Rotonda, paese famoso per la sua melanzana rossa che sembra un pomodoro e Rotondella, così chiamata per la sua forma rotonda che richiama quella di Locorotondo in Puglia e che sembra un dolce su cui ha girato, con maestria, la mano del pasticcere con il sac à poche. Rovi con rose canine tra la flora locale. Romiti alcuni paesini e alcuni paesani. Rosone della cattedrale di Matera, uno dei più belli dello stile romanico pugliese, con elementi sacri e pagani, la figura dell’arcangelo S. Michele sopra e quella di Atlante sotto. Rovine ricche della storia della Magna Grecia a Metaponto e lungo la costa ionica. Rostro degli uccelli rapaci tanto cari a Federico II di Svevia a Castel Lagopesole. Rovinosi terremoti o altre calamità naturali che hanno cambiato la morfologia regionale rendendo, per esempio, Craco, un “paese fantasma” in seguito ad una frana o cancellando dalla carta geografica Saponara dopo il sisma del 16 dicembre 1857 e ricostruito, poi, come Grumento Nova.

 

“L’acqua piovana, / nelle impronte delle mucche. / Mosche sgomente, / prossime a novembre. / Il chiodo rosso non sopravvivrà al vento. / L’imposta che stride sui cardini e sbatte, / una volta contro il telaio, / una contro il muro. / Qualcuno la sente?” (“La malga deserta” del poeta tedesco Gunter Eich, in “Lo straniero”). Come le immagini color seppia e ricche d’emozioni che si vivono lungo le viuzze dei centri storici dei paesi lucani tristemente in via di spopolamento, come San Mauro Forte seppur ricco, tra l’altro, di palazzi e portali importanti.

La scrittrice Dora Albanese, materana di nascita, scrive nel romanzo “La scordanza”: “A Muggera [nome di fantasia], un piccolo paese della Basilicata, il mondo sembra essersi fermato: le donne alternano le preghiere del rosario alle formule per scacciare il malocchio; gli uomini sono pronti a uccidere per uno sguardo di troppo; nel bosco tra i calanchi, le fattucchiere preparano filtri d’amore”. Alchimia, fantasticheria, magia, scaramanzia e un pizzico che non manca mai di melanconia e nostalgia: la terra di Basilicata e i suoi abitanti lucani, da sempre e per sempre. E già, la Basilicata è terra di scordanza e discordanza.

“Ecco – mi dissi – questo preciso attimo, è gioia. Il silenzio là fuori era così dolce che mi pareva di sentirne il canto; da qualche parte avevo letto che tutto è armonia se solo riusciamo a sentirla, così rimasi in ascolto ed ebbi cura di muovermi, senza spostarlo. Il Silenzio” (da “Il terrazzino dei gerani

timidi” di Anna Marchesini). Silenzio: la dimensione che caratterizza di più il vero lucano e lo stato d’animo che suscitano i paesaggi lucani, come i Sassi di Matera di notte o il santuario della Madonna di Picciano o la salita attraverso il bosco sino all’abbazia di San Michele sui laghi di Monticchio.

 

Viaggio di ritorno quasi da “sogno di una notte di mezza estate”, come Cenerentola, su una macchina da sogno con tanto di tettuccio panoramico e immancabile musica di sottofondo, lungo la Basentana, principale arteria stradale lucana e anche arteria emozionale lungo la lucanità, perché lungo quella strada ci sono stati tanti viaggi di speranza verso il nord o altri viaggi senza ritorno. Paesi abbarbicati su ridenti colline che di ridente ormai sembrano aver conservato poco, campagne, casolari, iazzi, alberghi (alcuni ancora con le tende appese), sale da ricevimento, stabilimenti, tutto in gran parte abbandonato: quanti progetti e sogni infranti! Intanto giochi a nascondino o a cucù, come con i bambini, con la luna quasi piena e nel cielo ci sono stelle sparute e striature lattiginose che rispecchiano le lacrime che irrorano l’anima come gocce di rugiada e i pensieri che irrorano la mente: un vero sogno di una notte di mezza estate, alimentato dalla tipica malinconia lucana!

 

“Inutile arrabbiarsi, o forse no. Qualcuno è partito perché altri potessero crescere, perché la terra madre non ha i mezzi per alimentare le speranze di tutti. Ma di chi è il coraggio, di chi resta? O di chi torna?” (dal commento allo spettacolo teatrale “Trapanaterra” del lucano Dino Lopardo). Basilicata: terra che ne ha passate tante e da cui sono passati in tanti, terra che trapana il cuore, terra cui trapanano il cuore e il cielo!