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Matera, di passo in passo, di Sasso in Sasso

Il poeta statunitense Jack Kerouac, in uno dei suoi haiku composti tra il 1956 e il 1966, scriveva: “Un fiore /sull’orlo di un dirupo / ammicca al canyon”. A distanza nel tempo e nello spazio questi versi sembrano scritti per Matera, “fiore di pietra”, che si affaccia sul canyon del torrente Gravina, tra fiori di capperi, di rosmarino, orchidee spontanee e altre centinaia di specie floreali.

“Paesaggio”, da “paese”, quella porzione di territorio che si coglie con lo sguardo e per Matera si è usata per la prima volta nel 1993 dall’UNESCO la locuzione “paesaggio culturale”. Perché Matera è paesaggio, culturale, relazionale, emozionale... ma per coglierlo ci vogliono uno sguardo speciale e non superficiale, silenzio, sensibilità. Come per tutta la terra lucana e la gente lucana! Altrimenti non scatta la magia!

Oggi si ricorre addirittura all’intervento chirurgico per cambiare il colore degli occhi, mentre si è miopi o ciechi nel non scorgere tutte le sfumature del bello che ci circonda. Come la meraviglia della luce e delle ombre che cambiano di ora in ora, e a seconda delle condizioni meteorologiche, nei Sassi e che fanno variare il colore della calcarenite. Ogni volta, passeggiando nei Sassi, è la foto che mi chiama e non io che mi fermo a cercare lo scatto.

Matera, città delle cose semplici e belle, dell’amicizia, della fotografia, dell’in-canto, città di cui innamorarsi, in cui innamorarsi: ogni passeggiata o discesa nei Sassi di Matera è una scoperta o analisi non solo archeologica ma soprattutto antropologica. Sembra di rinnovare le emozioni provate, all’arrivo nella città di allora, dalla sorella di Carlo Levi, Luisa, che si aspettava una “città pittoresca” come aveva letto in una guida. I Sassi sono un vero spaccato di storia e umanità, di storia dell’umanità, immagine anche della maternità. Matera è sempre madre, ancor di più per la festa patronale o per altri eventi perché accoglie tutti e prepara il meglio.

Maggio a Matera. Manto di nuvolette che sembrano nocche di mani o “margheritone regine di maggio” in un campo onirico. Materia vivente. Madonna cui è dedicata la cattedrale e che è invocata da chi crede. Magia che si ripete senza alcun trucco. Mare di emozioni lungo onde di ricordi...

Calda serata estiva, chiesa di San Giovanni Battista, una delle più piccole, antiche e particolari chiese della città. Ai piedi del suggestivo Crocifisso ligneo un sublime concerto di archi (con un nuovo contrabbasso costruito dal giovane liutaio presente nel pubblico) e fiati di musiche da Schubert in poi. Le vetuste pietre, che hanno sentito musiche e cori di secolo in secolo, vibrano di rinnovate emozioni all’unisono con i cuori. Matera, città spirituale, musicale, viscerale... sempre Matera!

Sasso Barisano, fine luglio. Concerto sotto il cielo sempre più vellutato del crepuscolo, su un terrazzino che, come in molti casi, è il tetto di una delle vecchie abitazioni sottostanti e sovrapposte tra loro. Gruppo di musicisti di varia formazione e proveniente dalla barocca Lecce, originale e ammaliante rivisitazione delle musiche dei film di Fellini e di brani per bande musicali, malinconica atmosfera mediterranea e orientaleggiante. La forma cava dei Sassi fa da cassa acustica tutt’intorno. Dietro i musicisti, negli anfratti e nei vicoli, si susseguono scene di ogni sorta, tra cui un gruppo di danzatori che prepara una coreografia per chissà quale spettacolo. Qualche rondine vola bassa per far ritorno al suo nido. Matera, “magia senza alcun trucco”, sottofondo da naturale colonna sonora di spontanei set cinematografici in cui non si recita ma si prova forte l’emozione del momento.

“Essere. Respirare. Qui. Adesso. Tutto questo non è grazia?” (il regista Martin Scorsese). Arrivare a fine giornata è grazia, ancor di più dinanzi al panorama di una città storica come Matera, che ha superato ogni disgrazia e dona a chi l’ammira uno stato di grazia, soprattutto al tramonto, quando diventa spettacolare ed emozionante come una Traviata a cielo aperto e fa sempre trasalire di nuove emozioni. Matera e tramonto, patrimonio dell’umanità: i Sassi, dal tramonto in poi, sono un incantevole matrimonio tra il cielo e la terra, ancor di più sotto una coltre di nuvole sfuggevoli e sbuffanti.

Matera, bella signora dall’aurora sino all’ultima ora, quando il cielo si manifesta ancor di più visceralmente e etimologicamente “convesso”, una volta celeste, una splendida cornice che spicca in contrasto con tutte le sfumature del grigio della roccia dei concavi Sassi. La notte è stata inventata per sospendere e sospendersi, sorprendere e sorprendersi, sospirare e sospirarsi, sognare e sognarsi, sollevare e sollevarsi... Come dinanzi alla vista del calar del siderale velluto blu sulla bellezza matura di Matera!

I Sassi di notte: nel letto della terra, sotto il lenzuolo del cielo. Camminare in silenzio, nel buio ovattato, in solitudine, tra strettoie e vicoli ciechi, su pietre lastricate, come i gatti che schizzano da una parte all’altra... Un’esperienza spirituale, “animica”, onirica... La parola “atmosfera” contiene Matera, perché Matera è un’atmosfera.

Frescolina serata invernale. Palazzo Viceconte, uno dei più belli e ricchi di storia, leggende, stanze e sotterranei, su nella Civita. Concerto di musiche di Mozart nella sala affrescata di trompe l’oeil. Gli anziani coniugi, proprietari del palazzo, in prima fila, con le spalle accostate e molto teneri nell’espressione. Pubblico di persone mature, ma anche qualche giovane figlio con i genitori, come variegata nell’età è anche la composizione dell’orchestra. Ogni musicista ha il suo rapporto d’amore con il proprio strumento. Su tutti il pianista solista che suona anche ad occhi chiusi e senza spartito, tutto preso dalle vibrazioni, e rivolge lo sguardo e il sorriso al direttore quando finisce la sua parte... La musica, donna, una delle più belle e coinvolgenti esperienze immersive!

Natale, per quanto reso consumistico, è sempre un’aura nuova, unica, magica, densa di malinconia, nostalgia, poesia, che ti riporta all’infanzia, alle origini, a coloro che se ne sono andati prima, troppo presto. È ancora più speciale in una città presepiale, materna, ieratica come Matera, soprattutto di sera.

Natura morta o natura in posa o vita silente (come la si chiama in tedesco e in inglese): quanto cambia in base al modo di denominare, di guardare, di pensare le cose. Come nella vita di tutti i giorni! Vita silente, come quella nei Sassi di Matera quando non ci sono turisti e in tutta la Basilicata in via di spopolamento.

“Danzare con il tempo è accettarne la fugacità e capire che siamo parte di una corrente di nomi che non è iniziata né terminerà con noi. Non smettere di danzare: con gli altri, con te stessa, con te stesso, con il mondo. E con Dio” (lo spagnolo José María Rodríguez Olaizola in “Danzare con il tempo”). Non siamo esseri finiti ma particelle infinitesimali dell’infinito fluttuare del tempo: come Matera, città del tempo e nel tempo!

“Paesaggio” di Baudelaire:

“Io voglio, per comporre castamente le mie egloghe,

coricarmi vicino al cielo, come un astrologo,

e, ascoltare sognando, vicino ai campanili,

i loro inni solenni portati nel vento.

Le due mani sotto il mento, là in alto dalla mia mansarda,

vedrò il cantiere dove si chiacchiera e si canta;

e vedrò camini e campanili, gli alberi maestri della città,

e i grandi cieli che promettono sogni di eternità.

È dolce, fra la nebbia, vedere nascere

la stella nell’azzurro, una lampada alla finestra,

i fiumi di carbone salire al firmamento

e la luna spargere il suo pallido incanto.

Primavera, estate, autunno io vedrò

e quando arriveranno le nevi del monotono inverno

chiuderò con cura tutte le porte e le finestre

per costruirmi nel buio fiabeschi palazzi.

Allora potrò sognare orizzonti bluastri,

e giardini, e zampilli d’acqua sgorganti negli alabastri,

e baci, e uccelli che cantano sera e mattina,

e tutto quello che nell’Idillio c’è di più infantile.

La Rivolta, che invano si scatena alla finestra,

non mi farà levare la fronte dal leggìo;

perché resterò immerso nel piacere

di evocare la Primavera con la mia volontà,

di far sorgere un sole dal mio cuore, e di creare

con i miei pensieri ardenti una tiepida atmosfera”.

Così appare Matera, nel contrasto tra antico e moderno, soprattutto se vista da via Duomo o piazza Duomo, e ancor di più dall’alto della Torre di Iuso, che ti dona una vista migliore di qualsiasi moderno drone.

Matera non è semplicemente una città: era un’isola in mezzo al mare preistorico e continua ad essere un’isola in mezzo a un mare di emozioni fluttuanti.

La narratività dei paesi lucani: da Salandra a San Fele

Paese di una volta…

Pazzo: “pazzo”, un appellativo che si attribuiva spesso a chi usciva dagli schemi, al diverso, allo “scemo” del paese.

Pezzo: pezzo di focaccia o di altra pietanza che si faceva assaggiare ai vicini di casa; o come il pezzo di cuore riservato sempre al paese da cui si era dovuti partire.

Pizzo: pizzi ricamati a mano o lavorati all’uncinetto per il corredo della sposa, quel corredo che ogni ragazza imparava a preparare sognando il suo futuro e la famiglia che avrebbe formato.

Pozzo: i contadini ne creavano di rudimentali quando individuavano una falda o fonte di acqua.

Puzzo: se ne sentivano di ogni tipo, da quella del fumo del camino a quella dello sterco degli animali domestici.

La vita rurale o paesana di una volta era cadenzata dai tempi della casa familiare, della campagna e della natura, dall’aratura e agnellatura alla stagnatura e alla zolfatura… Si viveva intensamente ogni tempo senza fare una corsa contro il tempo e senza dire di non avere tempo, ma impegnandosi e aiutandosi per superare ogni contrattempo pur non essendo tempi facili.

Trapassato prossimo o remoto: tratturi stretti e contorti, che richiamavano il percorso delle budella o dei cunicoli di formicai quasi a sottolineare il rapporto viscerale, intimo con la madre terra. Lungo quei tratturi si passava con l’asino o il mulo sulla cui groppa, al ritorno dalla campagna, si mettevano i sacchi pieni o le fascine e ci si aggrappava alla coda per farsi condurre. Trattori pericolosi e inquinanti, gommati o cingolati, su cui i bambini volevano salire o salivano senza alcun timore o che ammiravano quando erano nell’officina del meccanico dove alcuni maschietti andavano a imparare il mestiere. Traini usati da chi viveva nelle case coloniche del Metapontino per portare al mare famiglia e parenti ospitati. Trasporto di olio, salsiccia e altri prodotti fatti dalle mani amorevoli e laboriose dei genitori e degli altri anziani rimasti in paese e ‘mandati’ dal Sud al Nord. Trasportatore, uno dei mestieri più esercitati e anche ammirati, perché viaggiava in lungo e largo e poi raccontava nuovi mondi da vivere e nuovi modi di vivere. Traballanti impalcature su cui lavoravano fischiettanti muratori con i tipici cappelli fatti di carta, il più delle volte ricavata dai sacchetti di calce o altro materiale. Trabatello arrangiato o preso in prestito per imbiancare con la calce e con l’aiuto di figli o nipoti l’alto soffitto a volta. Trappole per topi in ogni casa per non far annidare i topi nella madia o per non farli arrivare alle forme di formaggio appese per farle stagionare. Tramezzini sconosciuti, perché i panini erano fatti con due fette di pane casereccio e in mezzo frittate o salumi fatti in casa o pecorino dal sapore deciso. ‘Trame’ fitte delle lenzuola grossolane nelle case popolane e ‘trame’ avvincenti dei mitici sceneggiati tratti da romanzi, da Sandokan a Michele Strogoff, che si seguivano in compagnia anche dei vicini di casa o parenti chesi riunivano apposta.

Trasmissioni televisive in bianco e nero e interrotte dall’intervallo Rai con musica d’arpa e paesaggi dei più bei posti italiani (altro che crociere e viaggi organizzati!). Trapezisti e trampolieri ammirati dai bambini negli spettacoli circensi sotto la tenda montata nella piazza centrale del paese e ai quali si andava accompagnati dai papà o dai nonni perché le mamme rimanevano in casa. Tracolla in cuoio - stracolma di lettere, cartoline, biglietti augurali, vaglia (di colore rosa), …- del postino (con il tipico cappello), tanto atteso e rispettato in paese come una figura istituzionale. Tradimenti frequenti ma tenuti nascosti o perdonati. Tramonto non come spettacolo da fotografare, come si fa adesso, ma come punto di riferimento della giornata per smontare dal lavoro nei campi e tornare a casa. Travasi di piante o del vino secondo le lunazioni, “studiate” dai vecchi saggi che con lo stesso metodo cercavano di prevedere il sesso dei nascituri. Travi di legno attaccate dai tarli i cui rumori notturni avvaloravano le leggende sui “monachicchi”. Trambusto in occasione della preparazione del pranzo nuziale, perché si faceva tutto in casa con l’aiuto di donne esperte e facendosi prestare gli utensili necessari. A Salandra, per queste grandi occasioni, c’erano Fastuecch’ (Fausta), la cuoca e Iangiulin (Angelina), che abitava nella Via nuova, “a via nov”, e faceva le paste, “i pezzi dolci”, della sposa, denominate in tempi moderni “sospiri”. Tramestio nelle botteghe, nei mulini. Tradizioni, dapprima abbandonate e ora rispolverate per trasformarle in sagre o altro… Un mondo di vite e di vitalità che non c’è più e che rischia di morire anche nella memoria, perché abbiamo perso l’abitudine di raccontare, richiamare, ricordare, ringraziare.

Salandra, sabato santo: processione della struggente statua dell’Addolorata (la cui espressione di autentico dolore hai ricercato in altre ma mai ritrovato) lungo salite e strettoie del rione Castello, stonature di canti di devozione popolare, suono della banda musicale del paese di lunga tradizione, seguito di paesani residenti e di quelli tornati per l’evento, soliti crocchi di coloro che si fermano apposta per parlare e guardare... Si arriva al Calvario, si risale al paese, ci si saluta, ci si congeda... Pur non facendo più ritorno al paese d’origine ci si immagina ciascuno al proprio posto secondo la propria consuetudine. E tra malinconia e nostalgia forse è meglio non tornare perché molto e molti non ci sono più e sono solo nelle pieghe del cuore, di quel cuore bambino in cui tutto resta più impresso.

Salandra, ultima domenica di maggio, festa della Madonna del Monte, al limitare del bosco. Festa di devozione popolare, nata da una leggenda di apparizione, come tante altre feste mariane. Manti verdeggianti lungo i pendii delle colline, ogni tanto un campo a maggese, qualche maggiolino in volo. Alcune donne che si chiamano Maria, varie manifestazioni di maternità. Ciò che colpisce di più sono le mani: mani che si salutano, mani che fanno il segno della croce, mani che toccano la statua della Madonna richiedendo una grazia, mani che sollevano la statua, mani che soccorrono un’anziana che è caduta inciampando, mani di figli che aiutano genitori con difficoltà di deambulazione, mani di genitori che tengono bimbetti sgambettanti... Lo zoom della macchina digitale si ferma sulla manina sinistra del Bambinello della statua che è infilata sotto il manto, dietro al collo, della Madre Celeste e che rende quella statua, venerata da generazioni di paesani, così plastica, così vera in quel gesto d’amore filiale. Finché ci sarà un intreccio di mani saremo umani e vi sarà un domani!

Santuari mariani in ogni angolo del territorio lucano - da quello sul colle di Picciano (nel territorio di Matera) a quello ai piedi del Monte Pierno (nel territorio di San Fele) -, sorti per leggende o racconti popolari, solitudine, silenzio, sospensione del tempo, sinuose nuvole, sibilo del vento attraverso le foglie degli alberi che ti sussurra nel tuo segreto qualcosa di insondabile, di imperscrutabile. E, immersi in quella sacralità, ci si rivolge alla casa della Madre con il pensiero per la propria madre, per ogni madre, vicina e lontana.

La giornalista Luisa Santinello scrive: “E con buona pace di oro e gioielli, non c’è niente di più prezioso del nostro passato. Perché solo guardandoci indietro possiamo davvero andare avanti”. Il passato (come il paese nativo o la famiglia d’origine) non si può cancellare, non si cancella. È quel cancello da cui siamo usciti, è quel cancello che, cigolante e arrugginito, rimane socchiuso per poter passare e attingere i ricordi o semplicemente fermarci, ritrovare la nostra dimensione, la nostra infanzia sulla sediolina impagliata con il cuscino fatto all’uncinetto nella casa della nonna, lì al solito posto. Il posto designato a noi e che ci aspetta per darci un po’ di tregua nella corsa del presente.

Quando te ne vai dal tuo paese di nascita vorresti che tutto rimanesse immutato e che tutti stessero lì nelle loro case, famiglie, occupazioni, abitudini... perché sono un punto di riferimento nella tua memoria visiva e nella memoria del cuore. E quando vieni a sapere della morte di qualcuno, seppure non imparentato né mai frequentato o salutato, comunque la notizia ti turba perché verrà a mancare la linfa vitale alla comunità paesana e da quella stella morta giungerà solo la luce (fin quando continuerà negli anni luce) nel buio del cielo comune in qualsiasi posto!

I paesi più o meno piccoli, non solo lucani, hanno qualcosa in comune: il cuore storico, il cuore delle persone che vi sono nate e cresciute.

Nascere e crescere in un paese è avere sempre un faro che conserva il suo fascino e mistero, anche se abbandonato (o proprio perché abbandonato).

Paese di nascita: oasi o miraggio nel cammino verso mete ignote e che si allontanano come gli orizzonti ogni volta che si cerca di avvicinarsi. 

Vivere la Basilicata da Salandra a…

 

Basilicata, terra dei pini loricati che fanno venire in mente gli avi, i nonni di una volta, con volti rugosi, scavati e segnati dal tempo e dal sole, curvi, fermi ad aspettare, ma che rimanevano in casa, in famiglia che non era considerata negativamente patriarcale.

 

Così Salandra, nome di origine greca tra “andros”, uomo, e “hydor”, acqua: paese dei nonni, paese della famiglia, paese delle origini. Paesaggio “bifronte”: da una parte il bosco di querce e dall’altra i calanchi che digradano verso il torrente Salandrella e si congiungono con gli altri calanchi della vallata. Parole dialettali, alcune derivanti dal latino, come “cra” per dire domani. “Past”, la pasta di varie fogge solitamente preparata dalle nonne che davano un pezzo dell’impasto ai nipoti che imparavano a “cavare” o plasmavano dei tarallini da abbrustolire sulla stufa o su altra fonte di calore. “Pan”, il pane, il cui nome in dialetto è di derivazione latina. Dal pane degli antichi Romani sono derivate anche le forme e le incisioni (che, poi, hanno risentito dell’influenza cristiana) sul pane con riferimenti agli organi sessuali per indicare la fecondità. Il nome “pan” evoca pure il dio Pan, dio dei pastori e della campagna, e il prefisso “pan-” con il significato di “tutto”: come la sacralità, i riti e tutto il lavoro che caratterizzavano il pane nella vita di una volta. Il pane era tagliato dal padre seduto a capo tavola, di solito con il suo coltello a serramanico, in maniera regolare senza far perdere le briciole e la fetta della panella grande era tagliata in due e condivisa tra i figli. Paglia per i sedili delle vecchie sedie e in fondo alle case per gli animali.

 

“Pagghiar”, i pagliai in campagna, come quelli dipinti da Vincent Van Gogh, e usati anche come ripari o per apporgiarvisi nei momenti di pausa dal lavoro. “Pagliet”, la paglietta, cappello estivo che veniva comprato dagli uomini ai mercati o alle fiere alla bancarella dell’immancabile cappellaio di Ferrandina. Passi pesanti, perché si portavano quasi sempre le scarpe da lavoro. Passeggiate tra sole donne o soli uomini. Pannocchie di “pupud(e)gn” (granturco) che venivano sgranate sull’uscio di casa da nonni e nipoti, con grande gioia dei piccoli. Panni lavati in acqua e cenere e col sapone prodotto dal grasso di maiale e stesi al sole in mezzo alle strade su fili mantenuti da aste di legno tra bambini vocianti e giocosi; quando poi le donne di casa andavano a raccoglierli si facevano aiutare dalle femminucce affinché imparassero. Pannolini in cotone, per i neonati o per il ciclo mestruale, cuciti e lavati a mano. Pantaloni di panno grossolano o velluto a coste per gli uomini e pantaloni corti e tagliati in mezzo al cavallo per i bambini (per far scorrere la pipì). Pastrano, il cappotto a ruota che indossavano gli uomini in inverno e con cui, poi, ci si è travestiti a Carnevale. “Pacchiana”, la donna semplice nelle vesti tradizionali, anche queste usate negli anni ’70 per vestirsi a Carnevale o per farsi le foto in posa e mettendo le arance al posto dei seni e dare volume al corpetto. Padri di famiglia, più temuti che rispettati, e non chiamati “papà” ma “tat” e derivati. Papaveri con cui giocavano i bambini soffiando i petali e usando i pistilli come timbrini sulla fronte o sulle mani.

 

Parsimonia in tutto, pure nelle manifestazioni d’affetto. Pantofole ricavate da vecchie scarpe, sostituite poi dalle pianelle (le scendiletto) che erano tenute sotto il letto dagli uomini e venivano prese dai bambini quando i padri tornavano a casa e si dovevano togliere le scarpe. Paure comuni e condivise, a cominciare da quella di perdere i raccolti. Pance semivuote per la miseria generale. Palpebre semiabbassate per stanchezza o riservatezza. Parenti con tutti, anche perché i bambini chiamavano “zii” o “compari” i vicini e gli anziani. Parecchi parenti si chiamavano Peppino e Pinuccio, le varianti del nome Giuseppe, nome presente quasi in ogni famiglia. Anche nella mia famiglia c’erano i mitici Pinuccio, con grande maestria nelle mani (dal guidare ogni mezzo al lavorare il ferro battuto) e di gran compagnia, e zio Peppino. Quest’ultimo era abile in tutto, dal fare il sensale al raccontare storie (altro che i dispositivi audio che si usano ora per far addormentare i bambini!) incantando adulti e bambini, anche con il coniglio che faceva con il fazzoletto da naso attorcigliato alle dita. Pastori che attraversavano il paese con i greggi e i bambini erano sempre incantati alla vista delle mansuete pecore. Parroco, punto di riferimento per tutti e colui che ha segnato la storia di più generazioni è stato don Carlo che aveva sempre caramelle nelle tasche da dare ai bambini. “Paddon”, caciotta dal sapore invitante lavorata amorevolmente – in tarda primavera – tra le mani esperte. Passata di pomodoro messa ad asciugare al sole, poi conservata sotto uno strato di olio. La si prendeva a cucchiaiate per condire le pietanze oppure per spalmarla sulle fette di pane, anticipando l’uso del ketchup. Padovane, le galline ovaiole allevate davanti casa e fatte rientrare la sera, e che si compravano da pulcini alla fiera degli animali.

 

Pavimenti in pietre di fiume o cotto grezzo, difficili da spazzare. Pareti interne inesistenti o, tutt’al più, sostituite da tende fiorate, anche con buchi o rammendate. Panchine solo nella villa comunale perché per assistere alle feste in piazza ci si portava le sedioline da casa oppure si prendevano quelle che erano nelle sedi delle sezioni dei partiti per sedersi in crocchio davanti all’uscio. Pazienza tanta nella cura del “pulvin”, semenzaio che ogni contadino allestiva con cura in fondi di bidoni o altro di riciclato e nell’allevamento del “purk”, maiale “cresciuto” (come si diceva) da molte famiglie per, poi, ucciderlo e non sprecare nulla del suo corpo, dalla cotica (perfino delle orecchie) al grasso. L’uccisione del maiale non era la semplice uccisione di un animale né era ritenuto un atto cruento ma era un rito, una festa, il ritrovo di generazioni e parenti. Era un momento che sembrava rinnovare i tempi preistorici in cui vi era la lotta tra l’uomo e gli animali più grossi di lui. Si univano mitologia e tribalismo. Tutto quello che emerge dalle foto in bianco e nero di Antonio Biasiucci, cultore di fotografia antropologica, che “ha raccontato il rituale del sacrificio del maiale dal punto di vista dell’animale, fra i vapori evanescenti dell’acqua calda che aiuta a estirpare le setole” (cit.).

 

Come a Salandra, era grosso modo nel resto della Lucania di una volta.

 

Ronca e ronchetto, tra gli attrezzi usati dai contadini. Rocco, il santo più venerato (rinomata la statua del santo ricca di monili d’oro di Tolve) e Rocco il nome maschile più diffuso in passato. Grandi Rocco Petrone, Rocco Mazzarone, Rocco Scotellaro… Rosamaria, il nome che si attribuiva all’accompagnatrice importuna delle coppiette e Rosabetta il nome della granita a base di neve e caffè o quello che si possedeva in casa. Rocchette di filo nero e filo bianco immancabili in casa per rammendare e rattoppare i pochi indumenti e rocchettoni di più colori nelle sartorie di paese. Rocciosa la tempra dei lucani (ma ospitali e generosi) come la roccia su cui nascono Matera, Castelmezzano, Pietrapertosa e altri paesi e la maestosa statua del Cristo imberbe di Maratea. Rotonda, paese famoso per la sua melanzana rossa che sembra un pomodoro e Rotondella, così chiamata per la sua forma rotonda che richiama quella di Locorotondo in Puglia e che sembra un dolce su cui ha girato, con maestria, la mano del pasticcere con il sac à poche. Rovi con rose canine tra la flora locale. Romiti alcuni paesini e alcuni paesani. Rosone della cattedrale di Matera, uno dei più belli dello stile romanico pugliese, con elementi sacri e pagani, la figura dell’arcangelo S. Michele sopra e quella di Atlante sotto. Rovine ricche della storia della Magna Grecia a Metaponto e lungo la costa ionica. Rostro degli uccelli rapaci tanto cari a Federico II di Svevia a Castel Lagopesole. Rovinosi terremoti o altre calamità naturali che hanno cambiato la morfologia regionale rendendo, per esempio, Craco, un “paese fantasma” in seguito ad una frana o cancellando dalla carta geografica Saponara dopo il sisma del 16 dicembre 1857 e ricostruito, poi, come Grumento Nova.

 

“L’acqua piovana, / nelle impronte delle mucche. / Mosche sgomente, / prossime a novembre. / Il chiodo rosso non sopravvivrà al vento. / L’imposta che stride sui cardini e sbatte, / una volta contro il telaio, / una contro il muro. / Qualcuno la sente?” (“La malga deserta” del poeta tedesco Gunter Eich, in “Lo straniero”). Come le immagini color seppia e ricche d’emozioni che si vivono lungo le viuzze dei centri storici dei paesi lucani tristemente in via di spopolamento, come San Mauro Forte seppur ricco, tra l’altro, di palazzi e portali importanti.

La scrittrice Dora Albanese, materana di nascita, scrive nel romanzo “La scordanza”: “A Muggera [nome di fantasia], un piccolo paese della Basilicata, il mondo sembra essersi fermato: le donne alternano le preghiere del rosario alle formule per scacciare il malocchio; gli uomini sono pronti a uccidere per uno sguardo di troppo; nel bosco tra i calanchi, le fattucchiere preparano filtri d’amore”. Alchimia, fantasticheria, magia, scaramanzia e un pizzico che non manca mai di melanconia e nostalgia: la terra di Basilicata e i suoi abitanti lucani, da sempre e per sempre. E già, la Basilicata è terra di scordanza e discordanza.

“Ecco – mi dissi – questo preciso attimo, è gioia. Il silenzio là fuori era così dolce che mi pareva di sentirne il canto; da qualche parte avevo letto che tutto è armonia se solo riusciamo a sentirla, così rimasi in ascolto ed ebbi cura di muovermi, senza spostarlo. Il Silenzio” (da “Il terrazzino dei gerani

timidi” di Anna Marchesini). Silenzio: la dimensione che caratterizza di più il vero lucano e lo stato d’animo che suscitano i paesaggi lucani, come i Sassi di Matera di notte o il santuario della Madonna di Picciano o la salita attraverso il bosco sino all’abbazia di San Michele sui laghi di Monticchio.

 

Viaggio di ritorno quasi da “sogno di una notte di mezza estate”, come Cenerentola, su una macchina da sogno con tanto di tettuccio panoramico e immancabile musica di sottofondo, lungo la Basentana, principale arteria stradale lucana e anche arteria emozionale lungo la lucanità, perché lungo quella strada ci sono stati tanti viaggi di speranza verso il nord o altri viaggi senza ritorno. Paesi abbarbicati su ridenti colline che di ridente ormai sembrano aver conservato poco, campagne, casolari, iazzi, alberghi (alcuni ancora con le tende appese), sale da ricevimento, stabilimenti, tutto in gran parte abbandonato: quanti progetti e sogni infranti! Intanto giochi a nascondino o a cucù, come con i bambini, con la luna quasi piena e nel cielo ci sono stelle sparute e striature lattiginose che rispecchiano le lacrime che irrorano l’anima come gocce di rugiada e i pensieri che irrorano la mente: un vero sogno di una notte di mezza estate, alimentato dalla tipica malinconia lucana!

 

“Inutile arrabbiarsi, o forse no. Qualcuno è partito perché altri potessero crescere, perché la terra madre non ha i mezzi per alimentare le speranze di tutti. Ma di chi è il coraggio, di chi resta? O di chi torna?” (dal commento allo spettacolo teatrale “Trapanaterra” del lucano Dino Lopardo). Basilicata: terra che ne ha passate tante e da cui sono passati in tanti, terra che trapana il cuore, terra cui trapanano il cuore e il cielo! 

 

Filmografia secondo una lucana

 

 

La Basilicata, per quanto misconosciuta, è stata considerata terra di cinema sin dagli anni ’50 del XX secolo, dapprima per i documentari che vi sono stati girati e poi per i film di un certo livello, anche internazionale, girati a Matera e nel suo territorio. 
Etimologicamente “cinema”, abbreviazione di “cinematografo”, deriva dal greco antico “kinema, kinematos”, “movimento” e significa insieme di arti e attività dirette alla produzione di un film.


La Basilicata è atavicamente terra di cinema sia per il significato etimologico sia innanzitutto per essere stata cuore della Magna Grecia, terra di teatro. 
Ha dato i natali agli “esperti” di cinema, come registi, sceneggiatori o critici, Pasquale Festa Campanile, Leonardo Sinisgalli, Gerardo Guerrieri… Le origini familiari ai registi Francis Ford Coppola, Lina Wertmüller… e altri e altro ancora. Fra i tanti aneddoti, è bello ricordare che Sinisgalli contribuì alla sceneggiatura del film “Il cappotto”, uno dei film più riusciti di Alberto Lattuada e una delle migliori interpretazioni di Renato Rascel. 
Io sono nata e cresciuta a Salandra nei tempi in cui c’era il culto del cinema (arrivato sino ai nostri giorni anche con il moderno festival “Storie parallele) e un piccolo cinema locale (con le tipiche sedie diventate “cult”) in cui erano proiettati prevalentemente film per adulti, film porno, film con Bruce Lee, film su Maciste e altri eroi, ma anche film che sono entrati nella storia del cinema. Fra tutti “Cristo si è fermato a Eboli”, durante la cui visione la scena dell’eclissi di sole è stata un’esperienza di cinema tridimensionale ante litteram senza l’uso di visori: in quel momento la piccola sala cinematografica sembrava aprirsi al cielo.


Non solo, in paese c’erano persone che per aspetto o qualche diversità o lavoro svolto erano considerate personaggi con un soprannome che diventava il loro nome d’arte nonché il ruolo da interpretare e soprattutto i bambini erano affascinati o intimoriti dal loro passaggio oppure li burlavano. L’avventuriero “Tarzàn”, il sordomuto “Cecet”, “z’ Rock u sacr-stan”, il venditore “u Napul-tan”…, dal cui passaggio nascevano scene degne dei film del Neorealismo italiano. Per non parlare delle scene della “bersagliera” Gina Lollobrigida sull’asino nei film “Pane, amore e …” che erano ricorrenti nella quotidianità del paese e le baruffe tra moglie e marito al ritorno dalle campagne con l’asinello recalcitrante sembravano degli esilaranti cortometraggi amatoriali cui i bambini potevano assistere gratuitamente di domenica perché era l’unico giorno in cui non si andava a scuola. 


E così man mano mi sono sempre più appassionata ai film annotando e commentando le frasi più significative.


“Non bisogna avere paura di lasciare, perché tutto quello che conta non ci lascia mai” (dal film “Mine vaganti”). “Lasciare” significa letteralmente “allentare”: sciogliamo i legacci di quello che non conta e sleghiamoci a quello che al nostro cuore qualcosa racconta. “Non farti mai dire dagli altri chi devi amare e chi devi odiare. Sbaglia per conto tuo, sempre” (la nonna nel film “Mine vaganti”). Sempre meglio essere sbagliati agli occhi degli altri, ma essere se stessi. Essere “mine vaganti”: non fare quello che si aspettano gli altri, resistere alle convenzioni sociali, rompere gli schemi, scombinare tutto, sconvolgere i piani, sorridere quando si sta male, sorridere quando dentro si vorrebbe morire. Essere se stessi, essere liberi, essere felici!


“Non sono più la tua bambina, ma sei tu che devi capire che sei mio padre” (da un film). Molti figli si ritrovano a essere genitori dei propri genitori o orfani di genitori vivi, a causa dell’incompetenza genitoriale. La genitorialità dovrebbe essere la massima espressione dell’adultità. Facciamo attenzione anche al fenomeno dei baby-genitori o dei genitori-nonni. 


“Negli ultimi giorni, mi hanno insegnato a non fidarmi di nessuno, ma sono contenta di non aver imparato la lezione. A volte gli altri sono come uno specchio, che ci definisce e ci dice come siamo fatti. E ogni volta che rifletto, capisco sempre più che mi piaccio così come sono” (dal film “Un bacio romantico”). Se io non mi fido degli altri, gli altri non si fidano di me ed io non sarei me!
“La scelta è solo tua, non si vive per accontentare gli altri” (dal film “Alice in Wonderland”). Scegliere di vivere, sciogliere la vita!


“Non so, all’inizio sono un po’ rigido. Ma dopo che ho iniziato, mi dimentico qualunque cosa ed è come se... come se sparissi. Come se dentro avessi un fuoco. Come se volassi. Sono un uccello. Sono... elettricità. Già, elettricità” (dal film “Billy Elliot”). La vita è elettricità: come fili, facciamoci percorrere da essa e colleghiamoci agli altri per sentirci vibrare della stessa corrente.
“Un giorno le acque si ritireranno e il sole tornerà a splendere” (da un film di don Camillo e Peppone). Un giorno qualcuno asciugherà le nostre lacrime, in particolare quelle più recondite, e la nostra vita tornerà a splendere.


“Beh, ci sono persone convinte di non meritare l’amore. Loro si allontanano in silenzio dentro spazi vuoti, cercando di chiudere le brecce al passato” (dal film “Into the wild - Nelle terre selvagge”). Dopo uno smarrimento, l’amore è avvicinarsi in silenzio dentro spazi vuoti cercando di chiudere le brecce al passato. 
“Vuoi sapere cosa sei? Sei diversamente emotiva!” (dal film “Il cacciatore di ex”). Sempre meglio essere diversamente emotivi perché vivi!
“E così io adesso, ogni tanto, dico alle persone che voglio bene, anche se loro mi guardano e non capiscono, ma io glielo dico lo stesso: «Meno male che ci sei!»” (dal film “Meno male che ci sei”). Dire o manifestare in altro modo il proprio amore per l’altro in qualsiasi relazione, da quella genitoriale a quella educativa, da quella amicale a quella sentimentale: quel che conta è amare e far sentire amato l’altro. Altrimenti che amore è?


“Si dice che col tempo le ferite guariscono, ma alcune ferite, come quelle d’amore, col tempo diventano profonde, sempre più profonde” (dal film “Non dire mai addio”). Talvolta alcune ferite diventano più profonde affinché nuove forme d’amore vi mettano le radici.
“Voglio che tu sia un padre vero per mio figlio. Se non puoi, me ne prenderò cura da sola e farò in modo che lui cresca in modo diverso” (dal film “La parte degli angeli”). Non è sufficiente che un padre sia padre, ma è necessario che sia un padre vero. Questo dipende anche dalla donna che gli sta accanto, che lo deve trattare così dal concepimento e anche in caso di eventuale separazione/divorzio e non ridurlo, agli occhi dei figli e degli altri, solo come colui che deve versare l’assegno di mantenimento o tenere i figli durante i fine-settimana.


“Sapessi come è facile essere felici, sapessi come è facile amare quello che già hai. Ama quello che hai già!” (dal film “La voce dell’amore”). La felicità è nel cogliere il già.
“La vita di cui dispongo si è formata nelle viscere di colei che adesso muore. Questa stessa persona, nel momento in cui si accomiata dal mondo, mette la sua vita nelle mie mani. Mi dà la sua vita così come, a suo tempo, mi ha dato la mia” (il figlio nel momento del trapasso della madre nel film “Sangue”). La vita è continuamente dare, dall’inizio sino alla fine: è l’unica spiegazione da dare e da darsi, in qualunque evento, bello o brutto che sia!


“A volte lo smarrito deve essere ritrovato, altre volte lo smarrito deve ritrovare se stesso” (dal film “The rebound - Ricomincio dall’amore”). Amare e amarsi: aiutare e aiutarsi a ritrovarsi.
“Ma io non sono un’estranea, ci siamo visti già tre volte!” (dal film “Solo un padre”). “Estraneo” è chi è fuori o di fuori: chi o come si definisce chi lo è e chi non lo è più? Solo il cuore!
Dal film “Ti va di ballare?” con Antonio Banderas: “L’amore è universale: lo cerchiamo in modi diversi, lo sentiamo in canzoni differenti”. Amore fa rima con tutte le cose belle della nostra vita che finiscono in -ore: ardore, cantore, ispiratore, motore, salvatore.
Dal film “Connie e Carla”: “La vita è come una vetrata scorrevole, non sai mai qual è il lato aperto - E sbatti contro il vetro”. La vita è imprevedibile ed anche per questo è bella. A volte possono pure prevalere le cose spiacevoli, ma come diceva Rosanna Benzi, chiusa in un polmone d’acciaio, bisogna continuare a “votare” per la vita.


Dal film “Anime in delirio”: “Nella matematica ci si perde raramente, nella vita spesso, nell’amore sempre. In matematica 2 + 2 è sempre 4”. In amore 2 + 2 è l’infinito di emozioni.


Dal film “L’uomo di casa” con Tommy Lee Jones: “La gomma è l’elemento più sintomatico della cultura occidentale. Quando uno mastica la gomma non si vedono le sue espressioni”. Anziché masticare la gomma americana, dovremmo masticare di più la nostra bella cultura italiana.


Dal film tv “Amore e magia”: “Il cuore di una donna è come il cristallo, trasparente e tanto fragile”. Non sempre il cuore di una qualsiasi donna è così, ma quello di una mamma, come Maria ai piedi della Croce, sì!
“Qualsiasi cosa tu faccia, sarà insignificante ma è importante che tu la faccia, perché nessun altro la farà” (dal film “Remember me”). Anche se sdentato, come quello di un neonato, o stentato, come quello di un uomo affaticato, non facciamo mancare un nostro sorriso, perché è e sarà unico.


“Che strano: quando sorridi si apre una parentesi!” (da un film). Apriamoci agli altri in un sorriso, seppure triste o fugace, purché sincero e vero. Quel sorriso potrà diventare uno scrigno di ricordi ed emozioni da custodire e cullare nel tempo, oltre il tempo! Come i ricordi lucani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Schizzi di Basilicata

Giovanni Pascoli, in una lettera del 1911, su Matera annotava: “Delle città in cui sono stato Matera è quella che mi sorride di più quella che vedo meglio ancora attraverso un velo di poesia”. Citazione riportata sui gradini di una scala che si affaccia sul Sasso Caveoso e che è diventata così un altro scorcio da fotografare, ma cui non tutti danno senso o attenzione. La Basilicata è come la Matera descritta da Pascoli: tutto sembra sorridere, anche se amaramente, attraverso un velo di poesia che rende tutto opalescente.

 

Carlo Levi nel suo bistrattato “Cristo si è fermato a Eboli”: “[…] quella che è la virtù prima e antichissima di queste terre: l’ospitalità; la virtù per cui i contadini aprono la porta all’ignoto forestiero, senza chiedergli il suo nome, e lo invitano a mangiare il loro scarso pane; di cui tutti i paesi si contendono la palma, fieri ognuno di essere il più amichevole e aperto al viandante straniero, che, forse, è un dio travestito”. L’ospitalità è un tratto saliente della lucanità. In passato si invitava a sedersi alla propria frugale tavola offrendo un tozzo di pane e formaggio, oggi si organizzano sagre in cui si offrono i prodotti locali, tra cui la sagra del pecorino, da decenni, a Filiano a settembre.

 

Ancora in “Cristo si è fermato a Eboli” si legge: “Quelle terre si sono andate progressivamente impoverendo; le foreste sono state tagliate, i fiumi si sono fatti torrenti, gli animali si sono diradati, invece degli alberi, dei prati e dei boschi, ci si è ostinati a coltivare il grano in terre inadatte. Non ci sono capitali, non c’è industria, non c’è risparmio, non ci sono scuole, l’emigrazione è diventata impossibile, le tasse sono insopportabili e sproporzionate: e dappertutto regna la malaria. Tutto ciò è in buona parte il risultato delle buone intenzioni e degli sforzi dello Stato, di uno Stato che non sarà mai quello dei contadini, e che per essi ha creato soltanto miseria e deserto”. Situazione di impoverimento di popolazione e conseguentemente di vitalità che è peggiorata nel tempo e che è stata rappresentata a Salandra in occasione dell’evento culturale “Storie parallele”, a settembre 2023, con la collocazione di 131 letti di ospedale in piazza San Rocco, 131 come i comuni lucani.

 

Cesare Pavese, che può essere considerato l’antesignano della paesologia: “Queste dure colline che han fatto il mio corpo / e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio / di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla. / L’ho incontrata, una sera: una macchia più chiara / sotto le stelle ambigue, nella foschia d’estate. / Era intorno il sentore di queste colline / più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò / come uscisse da queste colline, una voce più netta / e aspra insieme, una voce di tempi perduti” (dalla prima raccolta di poesie “Lavorare stanca”). La Basilicata è terra di dure colline, quelle su cui hanno costruito ridenti paesi, santuari, casolari,iazzi…

 

Come il santuario della Madonna di Picciano e l’annesso monastero di monaci benedettini olivetani, su un colle nel territorio materano, a 440 metri sul livello del mare, circondato da un piccolo bosco: il silenzio, il leggero vento che sembra il soffio di Dio, i monaci con la tonaca bianca danno un’atmosfera di spiritualità che colpisce anche chi non è credente. Come il piccolo colle del Calvario all’ingresso di Salandra, dove in un passato ormai remoto si ammassavano frotte di bambini durante la predica del Sabato Santo, proclamata dal predicatore appositamente invitato dal parroco e tanto atteso dai fedeli.

 

La storia della Basilicata è scritta nelle zolle di terra. I lucani hanno avuto sempre un rapporto viscerale con la terra, dalla lavorazione della terracotta a Grottole alle cantine infossate e coperte di terra a Pietragalla, i palmenti, che sembrano casette di folletti o dei Puffi.

 

Basilicata, terra in cui il sole d’estate la rende ancora più suggestiva. Il sole che si riflette sulle tipiche casette bianche di Pisticci, sulle caratteristiche case a schiera del centro storico di Ferrandina, sui ciottoli levigati dei torrenti siccitosi, che filtra attraverso la fitta vegetazione del Bosco Magnano e fa rilucere l’acqua del torrente Peschiera che scende nella cascatella…

 

“Dolce cielo celeste / dipinto di azzurro tenero / e voi verdi monti e voi / valli e boschi, nuvole / che là, verso l’orizzonte /navigate lente, e tu sole vicino / al tramonto che spandi questa luce / d’oro nell’aria, e ogni cosa fai tiepida / del tuo calore, e tu aria che muovi / i miei capelli e spiri sulle mie / guance e le pagine volti dispettosa del quaderno ove scrivo” (dalla raccolta “Cieli celesti” del poeta Claudio Damiani). La Basilicata: cielo di colori intensi e di tutte le sfumature. Come il cielo che sembra lambire la statua del Cristo sul monte San Biagio a Maratea o il pino loricato sul Pollino.

 

Lo scrittore Francesco Serafino, nativo di Ferrandina, ci accompagna in un percorso lungo un qualsiasi paese lucano: “Le stradine anguste del centro storico e le case intonacate a calce sprigionavano tanto calore, che i panni stesi al sole, sui fili di acciaio inveicolati su carrucole di ferro fra muri di edifici opposti o fra pertiche di legno a forma di forcella sulle pareti degli edifici, si asciugavano rapidamente sprigionando nell’aria un fresco odore di sapone di Marsiglia”. In passato tutto era angusto: le stradine, le case, le finestre, il tavolo da cucina (la “buffetta”, fatta rudimentalmente di tavole di legno), le scarpe, … Non c’era, però, angustia di tempo che si aveva sempre per gli altri o per mettere su una festicciola al suono dell’organetto o di altro strumento popolare.

 

La scrittrice materana Mariolina Venezia nel romanzo “Maltempo”: “Oggi voglio raccontarvi una storia. La storia di una terra forte, energica, magnetica. E dei suoi figli. Che vivono nella precarietà senza lamentarsi. Studiando, conoscendo, amando. Di un treno che quando arriva da queste parti tira dritto. Di un amore sempre tradito. Perché voi, discendenti dei briganti, di emigranti, di contadini, siete le sue energie rinnovabili. Perché voi, oggi, avete capito che andarsene non è un privilegio, come vi hanno fatto credere. È una fregatura”. 

 

La Basilicata, “terra forte, energica, magnetica”, che ha generato tanti lucani forti, energici e magnetici, come il noto personaggio televisivo Imma Tataranni, nato dalla penna di Mariolina Venezia.

 

Ancora la Venezia: “Dopo aver maledetto le strade e le ferrovie, i paesaggi aspri e l’accento ancora più aspro dei suoi abitanti, era rimasto conquistato dalla sua lentezza inesorabile, dalla sua mancanza di fronzoli e dal suo cuore preistorico. […] i modi bruschi e le colline scabre, gli sbalzi di umore e di temperatura, quella sensazione di essere contemporaneamente ai confini e nella culla del mondo”. Basilicata: ai confini e nella culla del mondo meridionale e mediterraneo, in cui ci sente confinati ma anche cullati.

 

“Oh, erbose radure! Oh, primaverili in eterno, paesaggi sconfinati dell’anima! In voi, benché siate da tanto tempo disseccati dalla siccità mortale della vita terrestre, in voi gli uomini possono ancora voltolarsi, come giovani puledri nel trifoglio nuovo del mattino, e per qualche fuggevole istante sentire su di loro la fresca rugiada della vita immortale” (Herman Melville nel romanzo “Moby Dick”). Basilicata: regione di paesaggi sconfinati dell’anima. Come i laghi di Monticchio sovrastati dall’abbazia di San Michele Arcangelo e che sembrano incantati, ancor di più quando vi si specchiano candide nuvole ovattate.

 

“A fianco del campo di grano che dà nutrimento che gli uomini rispettosamente coltivano e lavorano cui il sudore del loro lavoro e, se bisogna, il sangue dei loro corpi sacrificano, a fianco del campo del pane quotidiano lasciano però gli uomini fiorire il bel fiordaliso. Nessuno lo ha piantato, nessuno lo ha innaffiato, indifeso cresce in libertà e con serena fiducia che la vita sotto il vasto cielo gli si lasci” (il tedesco Dietrich Bonhoeffer). Dai tempi degli antichi Romani la terra lucana (confinante con la terra pugliese) è stata sempre coltivata a campi di grano con sudore e anche sangue dei frequenti incidenti sul lavoro, prima i contadini cadevano dai muli o dai cavalli e avevano incidenti con gli attrezzi di lavoro, ora capita che siano travolti dai trattori.

 

“È una notte bellissima d’estate. / Nelle alte case stanno / spalancati i balconi / del vecchio borgo / sulla vasta piazza. / In quell’ampio rettangolo deserto, / panchine di pietra, evonimi [arbusti], acacie / disegnano in simmetria / le nere ombre sulla bianca arena. / Allo zenit, la luna, e sulla torre / col quadrante alla luce l’orologio. / In questo vecchio borgo vado a zonzo / solo, come un fantasma” (il poeta spagnolo Antonio Machado in “Notte d’estate”). Soli come fantasmi, paesi fantasmi, fra tutti Campomaggiore vecchio con la sua utopia irrealizzata come tanti sogni e progetti lucani.

 

Il regista potentino Antonello Faretta descrive così Craco vecchio, “[…] un luogo abbandonato. Un paese diventato fantasma in seguito ad una grande frana cinquant’anni fa. […] carcassa disgregata che un tempo era stata comunità”. La Basilicata rischia di essere abbandonata come Craco e diventare disgregata (anche per il progetto di macroregioni) e dimenticata come le sue pagine di storia.

 

“Luce a una finestra. Una donna è sveglia / in quest’ora immobile. / Noi che lavoriamo così abbiamo lavorato spesso / in solitudine. Ho dovuto immaginarla / intenta a ricucirsi la pelle come io ricucio la mia / anche se / con un punto / diverso. / Alba dopo alba, questa mia vicina / si consuma come una candela / trascina il copriletto per la casa buia / fino al suo letto buio” (la poetessa statunitense Adrienne Rich nella poesia “Notte bianca”). Luce a una finestra, una donna sveglia, ricucirsi la pelle: un’immagine che evoca tante mamme lucane che hanno visto figli partire per le due guerre mondiali, per lavoro o per altro e non tornare più. Come la mamma di Rocco Scotellaro, Francesca Armento, che andò a riprenderlo morto a soli 30 anni in quel di Portici. E proprio Scotellaro, sull’emigrazione, nella poesia “C’era l’America”, quasi gridava: “C’era l’America bella, lontana del padre mio che aveva vent’anni. Il padre mio poté spezzarsi il cuore. America qua, America là, dov’è più l’America del padre mio?”.

 

L’attore e scrittore Antonio Petrocelli, nativo di Montalbano Jonico: “Addio boschi, querceti silenti, margherite dal lungo stelo, colline fatali per chi non riesce a dimenticarle; addio cipressi [...]. Addio. Ho un appuntamento: non so dove e con chi, ma me ne vado lo stesso”. Alcuni lucani sono nati o nascono con il desiderio di andarsene non si sa dove o con chi, ma comunque andare via. Sì, perché il lucano è segnato sin dalla nascita da malinconia che diventa, poi, nostalgia, uno stato d’animo tutto meridionale che in dialetto è chiamato “a’pucundria”. Come quella che si prova alla vista dei tramonti quando sono ammantati da bruma, come alla Diga di San Giuliano o guardando dal Muraglione di Salandra verso il Monte Croccia.

 

Con la speranza che, dopo i bei tramonti, ci siano altre belle e nuove albe per la Basilicata e la sua gente!