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Vivere la Basilicata da Salandra a…

 

Basilicata, terra dei pini loricati che fanno venire in mente gli avi, i nonni di una volta, con volti rugosi, scavati e segnati dal tempo e dal sole, curvi, fermi ad aspettare, ma che rimanevano in casa, in famiglia che non era considerata negativamente patriarcale.

 

Così Salandra, nome di origine greca tra “andros”, uomo, e “hydor”, acqua: paese dei nonni, paese della famiglia, paese delle origini. Paesaggio “bifronte”: da una parte il bosco di querce e dall’altra i calanchi che digradano verso il torrente Salandrella e si congiungono con gli altri calanchi della vallata. Parole dialettali, alcune derivanti dal latino, come “cra” per dire domani. “Past”, la pasta di varie fogge solitamente preparata dalle nonne che davano un pezzo dell’impasto ai nipoti che imparavano a “cavare” o plasmavano dei tarallini da abbrustolire sulla stufa o su altra fonte di calore. “Pan”, il pane, il cui nome in dialetto è di derivazione latina. Dal pane degli antichi Romani sono derivate anche le forme e le incisioni (che, poi, hanno risentito dell’influenza cristiana) sul pane con riferimenti agli organi sessuali per indicare la fecondità. Il nome “pan” evoca pure il dio Pan, dio dei pastori e della campagna, e il prefisso “pan-” con il significato di “tutto”: come la sacralità, i riti e tutto il lavoro che caratterizzavano il pane nella vita di una volta. Il pane era tagliato dal padre seduto a capo tavola, di solito con il suo coltello a serramanico, in maniera regolare senza far perdere le briciole e la fetta della panella grande era tagliata in due e condivisa tra i figli. Paglia per i sedili delle vecchie sedie e in fondo alle case per gli animali.

 

“Pagghiar”, i pagliai in campagna, come quelli dipinti da Vincent Van Gogh, e usati anche come ripari o per apporgiarvisi nei momenti di pausa dal lavoro. “Pagliet”, la paglietta, cappello estivo che veniva comprato dagli uomini ai mercati o alle fiere alla bancarella dell’immancabile cappellaio di Ferrandina. Passi pesanti, perché si portavano quasi sempre le scarpe da lavoro. Passeggiate tra sole donne o soli uomini. Pannocchie di “pupud(e)gn” (granturco) che venivano sgranate sull’uscio di casa da nonni e nipoti, con grande gioia dei piccoli. Panni lavati in acqua e cenere e col sapone prodotto dal grasso di maiale e stesi al sole in mezzo alle strade su fili mantenuti da aste di legno tra bambini vocianti e giocosi; quando poi le donne di casa andavano a raccoglierli si facevano aiutare dalle femminucce affinché imparassero. Pannolini in cotone, per i neonati o per il ciclo mestruale, cuciti e lavati a mano. Pantaloni di panno grossolano o velluto a coste per gli uomini e pantaloni corti e tagliati in mezzo al cavallo per i bambini (per far scorrere la pipì). Pastrano, il cappotto a ruota che indossavano gli uomini in inverno e con cui, poi, ci si è travestiti a Carnevale. “Pacchiana”, la donna semplice nelle vesti tradizionali, anche queste usate negli anni ’70 per vestirsi a Carnevale o per farsi le foto in posa e mettendo le arance al posto dei seni e dare volume al corpetto. Padri di famiglia, più temuti che rispettati, e non chiamati “papà” ma “tat” e derivati. Papaveri con cui giocavano i bambini soffiando i petali e usando i pistilli come timbrini sulla fronte o sulle mani.

 

Parsimonia in tutto, pure nelle manifestazioni d’affetto. Pantofole ricavate da vecchie scarpe, sostituite poi dalle pianelle (le scendiletto) che erano tenute sotto il letto dagli uomini e venivano prese dai bambini quando i padri tornavano a casa e si dovevano togliere le scarpe. Paure comuni e condivise, a cominciare da quella di perdere i raccolti. Pance semivuote per la miseria generale. Palpebre semiabbassate per stanchezza o riservatezza. Parenti con tutti, anche perché i bambini chiamavano “zii” o “compari” i vicini e gli anziani. Parecchi parenti si chiamavano Peppino e Pinuccio, le varianti del nome Giuseppe, nome presente quasi in ogni famiglia. Anche nella mia famiglia c’erano i mitici Pinuccio, con grande maestria nelle mani (dal guidare ogni mezzo al lavorare il ferro battuto) e di gran compagnia, e zio Peppino. Quest’ultimo era abile in tutto, dal fare il sensale al raccontare storie (altro che i dispositivi audio che si usano ora per far addormentare i bambini!) incantando adulti e bambini, anche con il coniglio che faceva con il fazzoletto da naso attorcigliato alle dita. Pastori che attraversavano il paese con i greggi e i bambini erano sempre incantati alla vista delle mansuete pecore. Parroco, punto di riferimento per tutti e colui che ha segnato la storia di più generazioni è stato don Carlo che aveva sempre caramelle nelle tasche da dare ai bambini. “Paddon”, caciotta dal sapore invitante lavorata amorevolmente – in tarda primavera – tra le mani esperte. Passata di pomodoro messa ad asciugare al sole, poi conservata sotto uno strato di olio. La si prendeva a cucchiaiate per condire le pietanze oppure per spalmarla sulle fette di pane, anticipando l’uso del ketchup. Padovane, le galline ovaiole allevate davanti casa e fatte rientrare la sera, e che si compravano da pulcini alla fiera degli animali.

 

Pavimenti in pietre di fiume o cotto grezzo, difficili da spazzare. Pareti interne inesistenti o, tutt’al più, sostituite da tende fiorate, anche con buchi o rammendate. Panchine solo nella villa comunale perché per assistere alle feste in piazza ci si portava le sedioline da casa oppure si prendevano quelle che erano nelle sedi delle sezioni dei partiti per sedersi in crocchio davanti all’uscio. Pazienza tanta nella cura del “pulvin”, semenzaio che ogni contadino allestiva con cura in fondi di bidoni o altro di riciclato e nell’allevamento del “purk”, maiale “cresciuto” (come si diceva) da molte famiglie per, poi, ucciderlo e non sprecare nulla del suo corpo, dalla cotica (perfino delle orecchie) al grasso. L’uccisione del maiale non era la semplice uccisione di un animale né era ritenuto un atto cruento ma era un rito, una festa, il ritrovo di generazioni e parenti. Era un momento che sembrava rinnovare i tempi preistorici in cui vi era la lotta tra l’uomo e gli animali più grossi di lui. Si univano mitologia e tribalismo. Tutto quello che emerge dalle foto in bianco e nero di Antonio Biasiucci, cultore di fotografia antropologica, che “ha raccontato il rituale del sacrificio del maiale dal punto di vista dell’animale, fra i vapori evanescenti dell’acqua calda che aiuta a estirpare le setole” (cit.).

 

Come a Salandra, era grosso modo nel resto della Lucania di una volta.

 

Ronca e ronchetto, tra gli attrezzi usati dai contadini. Rocco, il santo più venerato (rinomata la statua del santo ricca di monili d’oro di Tolve) e Rocco il nome maschile più diffuso in passato. Grandi Rocco Petrone, Rocco Mazzarone, Rocco Scotellaro… Rosamaria, il nome che si attribuiva all’accompagnatrice importuna delle coppiette e Rosabetta il nome della granita a base di neve e caffè o quello che si possedeva in casa. Rocchette di filo nero e filo bianco immancabili in casa per rammendare e rattoppare i pochi indumenti e rocchettoni di più colori nelle sartorie di paese. Rocciosa la tempra dei lucani (ma ospitali e generosi) come la roccia su cui nascono Matera, Castelmezzano, Pietrapertosa e altri paesi e la maestosa statua del Cristo imberbe di Maratea. Rotonda, paese famoso per la sua melanzana rossa che sembra un pomodoro e Rotondella, così chiamata per la sua forma rotonda che richiama quella di Locorotondo in Puglia e che sembra un dolce su cui ha girato, con maestria, la mano del pasticcere con il sac à poche. Rovi con rose canine tra la flora locale. Romiti alcuni paesini e alcuni paesani. Rosone della cattedrale di Matera, uno dei più belli dello stile romanico pugliese, con elementi sacri e pagani, la figura dell’arcangelo S. Michele sopra e quella di Atlante sotto. Rovine ricche della storia della Magna Grecia a Metaponto e lungo la costa ionica. Rostro degli uccelli rapaci tanto cari a Federico II di Svevia a Castel Lagopesole. Rovinosi terremoti o altre calamità naturali che hanno cambiato la morfologia regionale rendendo, per esempio, Craco, un “paese fantasma” in seguito ad una frana o cancellando dalla carta geografica Saponara dopo il sisma del 16 dicembre 1857 e ricostruito, poi, come Grumento Nova.

 

“L’acqua piovana, / nelle impronte delle mucche. / Mosche sgomente, / prossime a novembre. / Il chiodo rosso non sopravvivrà al vento. / L’imposta che stride sui cardini e sbatte, / una volta contro il telaio, / una contro il muro. / Qualcuno la sente?” (“La malga deserta” del poeta tedesco Gunter Eich, in “Lo straniero”). Come le immagini color seppia e ricche d’emozioni che si vivono lungo le viuzze dei centri storici dei paesi lucani tristemente in via di spopolamento, come San Mauro Forte seppur ricco, tra l’altro, di palazzi e portali importanti.

La scrittrice Dora Albanese, materana di nascita, scrive nel romanzo “La scordanza”: “A Muggera [nome di fantasia], un piccolo paese della Basilicata, il mondo sembra essersi fermato: le donne alternano le preghiere del rosario alle formule per scacciare il malocchio; gli uomini sono pronti a uccidere per uno sguardo di troppo; nel bosco tra i calanchi, le fattucchiere preparano filtri d’amore”. Alchimia, fantasticheria, magia, scaramanzia e un pizzico che non manca mai di melanconia e nostalgia: la terra di Basilicata e i suoi abitanti lucani, da sempre e per sempre. E già, la Basilicata è terra di scordanza e discordanza.

“Ecco – mi dissi – questo preciso attimo, è gioia. Il silenzio là fuori era così dolce che mi pareva di sentirne il canto; da qualche parte avevo letto che tutto è armonia se solo riusciamo a sentirla, così rimasi in ascolto ed ebbi cura di muovermi, senza spostarlo. Il Silenzio” (da “Il terrazzino dei gerani

timidi” di Anna Marchesini). Silenzio: la dimensione che caratterizza di più il vero lucano e lo stato d’animo che suscitano i paesaggi lucani, come i Sassi di Matera di notte o il santuario della Madonna di Picciano o la salita attraverso il bosco sino all’abbazia di San Michele sui laghi di Monticchio.

 

Viaggio di ritorno quasi da “sogno di una notte di mezza estate”, come Cenerentola, su una macchina da sogno con tanto di tettuccio panoramico e immancabile musica di sottofondo, lungo la Basentana, principale arteria stradale lucana e anche arteria emozionale lungo la lucanità, perché lungo quella strada ci sono stati tanti viaggi di speranza verso il nord o altri viaggi senza ritorno. Paesi abbarbicati su ridenti colline che di ridente ormai sembrano aver conservato poco, campagne, casolari, iazzi, alberghi (alcuni ancora con le tende appese), sale da ricevimento, stabilimenti, tutto in gran parte abbandonato: quanti progetti e sogni infranti! Intanto giochi a nascondino o a cucù, come con i bambini, con la luna quasi piena e nel cielo ci sono stelle sparute e striature lattiginose che rispecchiano le lacrime che irrorano l’anima come gocce di rugiada e i pensieri che irrorano la mente: un vero sogno di una notte di mezza estate, alimentato dalla tipica malinconia lucana!

 

“Inutile arrabbiarsi, o forse no. Qualcuno è partito perché altri potessero crescere, perché la terra madre non ha i mezzi per alimentare le speranze di tutti. Ma di chi è il coraggio, di chi resta? O di chi torna?” (dal commento allo spettacolo teatrale “Trapanaterra” del lucano Dino Lopardo). Basilicata: terra che ne ha passate tante e da cui sono passati in tanti, terra che trapana il cuore, terra cui trapanano il cuore e il cielo! 

 

Filmografia secondo una lucana

 

 

La Basilicata, per quanto misconosciuta, è stata considerata terra di cinema sin dagli anni ’50 del XX secolo, dapprima per i documentari che vi sono stati girati e poi per i film di un certo livello, anche internazionale, girati a Matera e nel suo territorio. 
Etimologicamente “cinema”, abbreviazione di “cinematografo”, deriva dal greco antico “kinema, kinematos”, “movimento” e significa insieme di arti e attività dirette alla produzione di un film.


La Basilicata è atavicamente terra di cinema sia per il significato etimologico sia innanzitutto per essere stata cuore della Magna Grecia, terra di teatro. 
Ha dato i natali agli “esperti” di cinema, come registi, sceneggiatori o critici, Pasquale Festa Campanile, Leonardo Sinisgalli, Gerardo Guerrieri… Le origini familiari ai registi Francis Ford Coppola, Lina Wertmüller… e altri e altro ancora. Fra i tanti aneddoti, è bello ricordare che Sinisgalli contribuì alla sceneggiatura del film “Il cappotto”, uno dei film più riusciti di Alberto Lattuada e una delle migliori interpretazioni di Renato Rascel. 
Io sono nata e cresciuta a Salandra nei tempi in cui c’era il culto del cinema (arrivato sino ai nostri giorni anche con il moderno festival “Storie parallele) e un piccolo cinema locale (con le tipiche sedie diventate “cult”) in cui erano proiettati prevalentemente film per adulti, film porno, film con Bruce Lee, film su Maciste e altri eroi, ma anche film che sono entrati nella storia del cinema. Fra tutti “Cristo si è fermato a Eboli”, durante la cui visione la scena dell’eclissi di sole è stata un’esperienza di cinema tridimensionale ante litteram senza l’uso di visori: in quel momento la piccola sala cinematografica sembrava aprirsi al cielo.


Non solo, in paese c’erano persone che per aspetto o qualche diversità o lavoro svolto erano considerate personaggi con un soprannome che diventava il loro nome d’arte nonché il ruolo da interpretare e soprattutto i bambini erano affascinati o intimoriti dal loro passaggio oppure li burlavano. L’avventuriero “Tarzàn”, il sordomuto “Cecet”, “z’ Rock u sacr-stan”, il venditore “u Napul-tan”…, dal cui passaggio nascevano scene degne dei film del Neorealismo italiano. Per non parlare delle scene della “bersagliera” Gina Lollobrigida sull’asino nei film “Pane, amore e …” che erano ricorrenti nella quotidianità del paese e le baruffe tra moglie e marito al ritorno dalle campagne con l’asinello recalcitrante sembravano degli esilaranti cortometraggi amatoriali cui i bambini potevano assistere gratuitamente di domenica perché era l’unico giorno in cui non si andava a scuola. 


E così man mano mi sono sempre più appassionata ai film annotando e commentando le frasi più significative.


“Non bisogna avere paura di lasciare, perché tutto quello che conta non ci lascia mai” (dal film “Mine vaganti”). “Lasciare” significa letteralmente “allentare”: sciogliamo i legacci di quello che non conta e sleghiamoci a quello che al nostro cuore qualcosa racconta. “Non farti mai dire dagli altri chi devi amare e chi devi odiare. Sbaglia per conto tuo, sempre” (la nonna nel film “Mine vaganti”). Sempre meglio essere sbagliati agli occhi degli altri, ma essere se stessi. Essere “mine vaganti”: non fare quello che si aspettano gli altri, resistere alle convenzioni sociali, rompere gli schemi, scombinare tutto, sconvolgere i piani, sorridere quando si sta male, sorridere quando dentro si vorrebbe morire. Essere se stessi, essere liberi, essere felici!


“Non sono più la tua bambina, ma sei tu che devi capire che sei mio padre” (da un film). Molti figli si ritrovano a essere genitori dei propri genitori o orfani di genitori vivi, a causa dell’incompetenza genitoriale. La genitorialità dovrebbe essere la massima espressione dell’adultità. Facciamo attenzione anche al fenomeno dei baby-genitori o dei genitori-nonni. 


“Negli ultimi giorni, mi hanno insegnato a non fidarmi di nessuno, ma sono contenta di non aver imparato la lezione. A volte gli altri sono come uno specchio, che ci definisce e ci dice come siamo fatti. E ogni volta che rifletto, capisco sempre più che mi piaccio così come sono” (dal film “Un bacio romantico”). Se io non mi fido degli altri, gli altri non si fidano di me ed io non sarei me!
“La scelta è solo tua, non si vive per accontentare gli altri” (dal film “Alice in Wonderland”). Scegliere di vivere, sciogliere la vita!


“Non so, all’inizio sono un po’ rigido. Ma dopo che ho iniziato, mi dimentico qualunque cosa ed è come se... come se sparissi. Come se dentro avessi un fuoco. Come se volassi. Sono un uccello. Sono... elettricità. Già, elettricità” (dal film “Billy Elliot”). La vita è elettricità: come fili, facciamoci percorrere da essa e colleghiamoci agli altri per sentirci vibrare della stessa corrente.
“Un giorno le acque si ritireranno e il sole tornerà a splendere” (da un film di don Camillo e Peppone). Un giorno qualcuno asciugherà le nostre lacrime, in particolare quelle più recondite, e la nostra vita tornerà a splendere.


“Beh, ci sono persone convinte di non meritare l’amore. Loro si allontanano in silenzio dentro spazi vuoti, cercando di chiudere le brecce al passato” (dal film “Into the wild - Nelle terre selvagge”). Dopo uno smarrimento, l’amore è avvicinarsi in silenzio dentro spazi vuoti cercando di chiudere le brecce al passato. 
“Vuoi sapere cosa sei? Sei diversamente emotiva!” (dal film “Il cacciatore di ex”). Sempre meglio essere diversamente emotivi perché vivi!
“E così io adesso, ogni tanto, dico alle persone che voglio bene, anche se loro mi guardano e non capiscono, ma io glielo dico lo stesso: «Meno male che ci sei!»” (dal film “Meno male che ci sei”). Dire o manifestare in altro modo il proprio amore per l’altro in qualsiasi relazione, da quella genitoriale a quella educativa, da quella amicale a quella sentimentale: quel che conta è amare e far sentire amato l’altro. Altrimenti che amore è?


“Si dice che col tempo le ferite guariscono, ma alcune ferite, come quelle d’amore, col tempo diventano profonde, sempre più profonde” (dal film “Non dire mai addio”). Talvolta alcune ferite diventano più profonde affinché nuove forme d’amore vi mettano le radici.
“Voglio che tu sia un padre vero per mio figlio. Se non puoi, me ne prenderò cura da sola e farò in modo che lui cresca in modo diverso” (dal film “La parte degli angeli”). Non è sufficiente che un padre sia padre, ma è necessario che sia un padre vero. Questo dipende anche dalla donna che gli sta accanto, che lo deve trattare così dal concepimento e anche in caso di eventuale separazione/divorzio e non ridurlo, agli occhi dei figli e degli altri, solo come colui che deve versare l’assegno di mantenimento o tenere i figli durante i fine-settimana.


“Sapessi come è facile essere felici, sapessi come è facile amare quello che già hai. Ama quello che hai già!” (dal film “La voce dell’amore”). La felicità è nel cogliere il già.
“La vita di cui dispongo si è formata nelle viscere di colei che adesso muore. Questa stessa persona, nel momento in cui si accomiata dal mondo, mette la sua vita nelle mie mani. Mi dà la sua vita così come, a suo tempo, mi ha dato la mia” (il figlio nel momento del trapasso della madre nel film “Sangue”). La vita è continuamente dare, dall’inizio sino alla fine: è l’unica spiegazione da dare e da darsi, in qualunque evento, bello o brutto che sia!


“A volte lo smarrito deve essere ritrovato, altre volte lo smarrito deve ritrovare se stesso” (dal film “The rebound - Ricomincio dall’amore”). Amare e amarsi: aiutare e aiutarsi a ritrovarsi.
“Ma io non sono un’estranea, ci siamo visti già tre volte!” (dal film “Solo un padre”). “Estraneo” è chi è fuori o di fuori: chi o come si definisce chi lo è e chi non lo è più? Solo il cuore!
Dal film “Ti va di ballare?” con Antonio Banderas: “L’amore è universale: lo cerchiamo in modi diversi, lo sentiamo in canzoni differenti”. Amore fa rima con tutte le cose belle della nostra vita che finiscono in -ore: ardore, cantore, ispiratore, motore, salvatore.
Dal film “Connie e Carla”: “La vita è come una vetrata scorrevole, non sai mai qual è il lato aperto - E sbatti contro il vetro”. La vita è imprevedibile ed anche per questo è bella. A volte possono pure prevalere le cose spiacevoli, ma come diceva Rosanna Benzi, chiusa in un polmone d’acciaio, bisogna continuare a “votare” per la vita.


Dal film “Anime in delirio”: “Nella matematica ci si perde raramente, nella vita spesso, nell’amore sempre. In matematica 2 + 2 è sempre 4”. In amore 2 + 2 è l’infinito di emozioni.


Dal film “L’uomo di casa” con Tommy Lee Jones: “La gomma è l’elemento più sintomatico della cultura occidentale. Quando uno mastica la gomma non si vedono le sue espressioni”. Anziché masticare la gomma americana, dovremmo masticare di più la nostra bella cultura italiana.


Dal film tv “Amore e magia”: “Il cuore di una donna è come il cristallo, trasparente e tanto fragile”. Non sempre il cuore di una qualsiasi donna è così, ma quello di una mamma, come Maria ai piedi della Croce, sì!
“Qualsiasi cosa tu faccia, sarà insignificante ma è importante che tu la faccia, perché nessun altro la farà” (dal film “Remember me”). Anche se sdentato, come quello di un neonato, o stentato, come quello di un uomo affaticato, non facciamo mancare un nostro sorriso, perché è e sarà unico.


“Che strano: quando sorridi si apre una parentesi!” (da un film). Apriamoci agli altri in un sorriso, seppure triste o fugace, purché sincero e vero. Quel sorriso potrà diventare uno scrigno di ricordi ed emozioni da custodire e cullare nel tempo, oltre il tempo! Come i ricordi lucani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Schizzi di Basilicata

Giovanni Pascoli, in una lettera del 1911, su Matera annotava: “Delle città in cui sono stato Matera è quella che mi sorride di più quella che vedo meglio ancora attraverso un velo di poesia”. Citazione riportata sui gradini di una scala che si affaccia sul Sasso Caveoso e che è diventata così un altro scorcio da fotografare, ma cui non tutti danno senso o attenzione. La Basilicata è come la Matera descritta da Pascoli: tutto sembra sorridere, anche se amaramente, attraverso un velo di poesia che rende tutto opalescente.

 

Carlo Levi nel suo bistrattato “Cristo si è fermato a Eboli”: “[…] quella che è la virtù prima e antichissima di queste terre: l’ospitalità; la virtù per cui i contadini aprono la porta all’ignoto forestiero, senza chiedergli il suo nome, e lo invitano a mangiare il loro scarso pane; di cui tutti i paesi si contendono la palma, fieri ognuno di essere il più amichevole e aperto al viandante straniero, che, forse, è un dio travestito”. L’ospitalità è un tratto saliente della lucanità. In passato si invitava a sedersi alla propria frugale tavola offrendo un tozzo di pane e formaggio, oggi si organizzano sagre in cui si offrono i prodotti locali, tra cui la sagra del pecorino, da decenni, a Filiano a settembre.

 

Ancora in “Cristo si è fermato a Eboli” si legge: “Quelle terre si sono andate progressivamente impoverendo; le foreste sono state tagliate, i fiumi si sono fatti torrenti, gli animali si sono diradati, invece degli alberi, dei prati e dei boschi, ci si è ostinati a coltivare il grano in terre inadatte. Non ci sono capitali, non c’è industria, non c’è risparmio, non ci sono scuole, l’emigrazione è diventata impossibile, le tasse sono insopportabili e sproporzionate: e dappertutto regna la malaria. Tutto ciò è in buona parte il risultato delle buone intenzioni e degli sforzi dello Stato, di uno Stato che non sarà mai quello dei contadini, e che per essi ha creato soltanto miseria e deserto”. Situazione di impoverimento di popolazione e conseguentemente di vitalità che è peggiorata nel tempo e che è stata rappresentata a Salandra in occasione dell’evento culturale “Storie parallele”, a settembre 2023, con la collocazione di 131 letti di ospedale in piazza San Rocco, 131 come i comuni lucani.

 

Cesare Pavese, che può essere considerato l’antesignano della paesologia: “Queste dure colline che han fatto il mio corpo / e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio / di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla. / L’ho incontrata, una sera: una macchia più chiara / sotto le stelle ambigue, nella foschia d’estate. / Era intorno il sentore di queste colline / più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò / come uscisse da queste colline, una voce più netta / e aspra insieme, una voce di tempi perduti” (dalla prima raccolta di poesie “Lavorare stanca”). La Basilicata è terra di dure colline, quelle su cui hanno costruito ridenti paesi, santuari, casolari,iazzi…

 

Come il santuario della Madonna di Picciano e l’annesso monastero di monaci benedettini olivetani, su un colle nel territorio materano, a 440 metri sul livello del mare, circondato da un piccolo bosco: il silenzio, il leggero vento che sembra il soffio di Dio, i monaci con la tonaca bianca danno un’atmosfera di spiritualità che colpisce anche chi non è credente. Come il piccolo colle del Calvario all’ingresso di Salandra, dove in un passato ormai remoto si ammassavano frotte di bambini durante la predica del Sabato Santo, proclamata dal predicatore appositamente invitato dal parroco e tanto atteso dai fedeli.

 

La storia della Basilicata è scritta nelle zolle di terra. I lucani hanno avuto sempre un rapporto viscerale con la terra, dalla lavorazione della terracotta a Grottole alle cantine infossate e coperte di terra a Pietragalla, i palmenti, che sembrano casette di folletti o dei Puffi.

 

Basilicata, terra in cui il sole d’estate la rende ancora più suggestiva. Il sole che si riflette sulle tipiche casette bianche di Pisticci, sulle caratteristiche case a schiera del centro storico di Ferrandina, sui ciottoli levigati dei torrenti siccitosi, che filtra attraverso la fitta vegetazione del Bosco Magnano e fa rilucere l’acqua del torrente Peschiera che scende nella cascatella…

 

“Dolce cielo celeste / dipinto di azzurro tenero / e voi verdi monti e voi / valli e boschi, nuvole / che là, verso l’orizzonte /navigate lente, e tu sole vicino / al tramonto che spandi questa luce / d’oro nell’aria, e ogni cosa fai tiepida / del tuo calore, e tu aria che muovi / i miei capelli e spiri sulle mie / guance e le pagine volti dispettosa del quaderno ove scrivo” (dalla raccolta “Cieli celesti” del poeta Claudio Damiani). La Basilicata: cielo di colori intensi e di tutte le sfumature. Come il cielo che sembra lambire la statua del Cristo sul monte San Biagio a Maratea o il pino loricato sul Pollino.

 

Lo scrittore Francesco Serafino, nativo di Ferrandina, ci accompagna in un percorso lungo un qualsiasi paese lucano: “Le stradine anguste del centro storico e le case intonacate a calce sprigionavano tanto calore, che i panni stesi al sole, sui fili di acciaio inveicolati su carrucole di ferro fra muri di edifici opposti o fra pertiche di legno a forma di forcella sulle pareti degli edifici, si asciugavano rapidamente sprigionando nell’aria un fresco odore di sapone di Marsiglia”. In passato tutto era angusto: le stradine, le case, le finestre, il tavolo da cucina (la “buffetta”, fatta rudimentalmente di tavole di legno), le scarpe, … Non c’era, però, angustia di tempo che si aveva sempre per gli altri o per mettere su una festicciola al suono dell’organetto o di altro strumento popolare.

 

La scrittrice materana Mariolina Venezia nel romanzo “Maltempo”: “Oggi voglio raccontarvi una storia. La storia di una terra forte, energica, magnetica. E dei suoi figli. Che vivono nella precarietà senza lamentarsi. Studiando, conoscendo, amando. Di un treno che quando arriva da queste parti tira dritto. Di un amore sempre tradito. Perché voi, discendenti dei briganti, di emigranti, di contadini, siete le sue energie rinnovabili. Perché voi, oggi, avete capito che andarsene non è un privilegio, come vi hanno fatto credere. È una fregatura”. 

 

La Basilicata, “terra forte, energica, magnetica”, che ha generato tanti lucani forti, energici e magnetici, come il noto personaggio televisivo Imma Tataranni, nato dalla penna di Mariolina Venezia.

 

Ancora la Venezia: “Dopo aver maledetto le strade e le ferrovie, i paesaggi aspri e l’accento ancora più aspro dei suoi abitanti, era rimasto conquistato dalla sua lentezza inesorabile, dalla sua mancanza di fronzoli e dal suo cuore preistorico. […] i modi bruschi e le colline scabre, gli sbalzi di umore e di temperatura, quella sensazione di essere contemporaneamente ai confini e nella culla del mondo”. Basilicata: ai confini e nella culla del mondo meridionale e mediterraneo, in cui ci sente confinati ma anche cullati.

 

“Oh, erbose radure! Oh, primaverili in eterno, paesaggi sconfinati dell’anima! In voi, benché siate da tanto tempo disseccati dalla siccità mortale della vita terrestre, in voi gli uomini possono ancora voltolarsi, come giovani puledri nel trifoglio nuovo del mattino, e per qualche fuggevole istante sentire su di loro la fresca rugiada della vita immortale” (Herman Melville nel romanzo “Moby Dick”). Basilicata: regione di paesaggi sconfinati dell’anima. Come i laghi di Monticchio sovrastati dall’abbazia di San Michele Arcangelo e che sembrano incantati, ancor di più quando vi si specchiano candide nuvole ovattate.

 

“A fianco del campo di grano che dà nutrimento che gli uomini rispettosamente coltivano e lavorano cui il sudore del loro lavoro e, se bisogna, il sangue dei loro corpi sacrificano, a fianco del campo del pane quotidiano lasciano però gli uomini fiorire il bel fiordaliso. Nessuno lo ha piantato, nessuno lo ha innaffiato, indifeso cresce in libertà e con serena fiducia che la vita sotto il vasto cielo gli si lasci” (il tedesco Dietrich Bonhoeffer). Dai tempi degli antichi Romani la terra lucana (confinante con la terra pugliese) è stata sempre coltivata a campi di grano con sudore e anche sangue dei frequenti incidenti sul lavoro, prima i contadini cadevano dai muli o dai cavalli e avevano incidenti con gli attrezzi di lavoro, ora capita che siano travolti dai trattori.

 

“È una notte bellissima d’estate. / Nelle alte case stanno / spalancati i balconi / del vecchio borgo / sulla vasta piazza. / In quell’ampio rettangolo deserto, / panchine di pietra, evonimi [arbusti], acacie / disegnano in simmetria / le nere ombre sulla bianca arena. / Allo zenit, la luna, e sulla torre / col quadrante alla luce l’orologio. / In questo vecchio borgo vado a zonzo / solo, come un fantasma” (il poeta spagnolo Antonio Machado in “Notte d’estate”). Soli come fantasmi, paesi fantasmi, fra tutti Campomaggiore vecchio con la sua utopia irrealizzata come tanti sogni e progetti lucani.

 

Il regista potentino Antonello Faretta descrive così Craco vecchio, “[…] un luogo abbandonato. Un paese diventato fantasma in seguito ad una grande frana cinquant’anni fa. […] carcassa disgregata che un tempo era stata comunità”. La Basilicata rischia di essere abbandonata come Craco e diventare disgregata (anche per il progetto di macroregioni) e dimenticata come le sue pagine di storia.

 

“Luce a una finestra. Una donna è sveglia / in quest’ora immobile. / Noi che lavoriamo così abbiamo lavorato spesso / in solitudine. Ho dovuto immaginarla / intenta a ricucirsi la pelle come io ricucio la mia / anche se / con un punto / diverso. / Alba dopo alba, questa mia vicina / si consuma come una candela / trascina il copriletto per la casa buia / fino al suo letto buio” (la poetessa statunitense Adrienne Rich nella poesia “Notte bianca”). Luce a una finestra, una donna sveglia, ricucirsi la pelle: un’immagine che evoca tante mamme lucane che hanno visto figli partire per le due guerre mondiali, per lavoro o per altro e non tornare più. Come la mamma di Rocco Scotellaro, Francesca Armento, che andò a riprenderlo morto a soli 30 anni in quel di Portici. E proprio Scotellaro, sull’emigrazione, nella poesia “C’era l’America”, quasi gridava: “C’era l’America bella, lontana del padre mio che aveva vent’anni. Il padre mio poté spezzarsi il cuore. America qua, America là, dov’è più l’America del padre mio?”.

 

L’attore e scrittore Antonio Petrocelli, nativo di Montalbano Jonico: “Addio boschi, querceti silenti, margherite dal lungo stelo, colline fatali per chi non riesce a dimenticarle; addio cipressi [...]. Addio. Ho un appuntamento: non so dove e con chi, ma me ne vado lo stesso”. Alcuni lucani sono nati o nascono con il desiderio di andarsene non si sa dove o con chi, ma comunque andare via. Sì, perché il lucano è segnato sin dalla nascita da malinconia che diventa, poi, nostalgia, uno stato d’animo tutto meridionale che in dialetto è chiamato “a’pucundria”. Come quella che si prova alla vista dei tramonti quando sono ammantati da bruma, come alla Diga di San Giuliano o guardando dal Muraglione di Salandra verso il Monte Croccia.

 

Con la speranza che, dopo i bei tramonti, ci siano altre belle e nuove albe per la Basilicata e la sua gente!

Incanto dell’estate a Matera

 

 

Matera, Madonna della Bruna, maternità celeste che si coniuga con quella terrena, mani tra cui quelle che lavorano la cartapesta, masse, materialità e materialismo, munificenza di emozioni e di colori, miti...

Fresca serata estiva che fa venire in mente il ponentino che soffia tra i resti dell’antica Roma, come per esempio in una pizzeria all’aperto nei presi della Piramide Cestia. Ai piedi del massiccio rupestre della chiesetta di S. Maria de Idris, scoglio che ricorda il mare che fu, presentazione di una mostra pittorica e fotografica su Matera e il suo territorio. Pittura e fotografia, tra le arti che rappresentano di più questa piccola città eterna. Il critico d’arte Enzo Varricchio che spende parole altisonanti per l’evento e al di là del momento. Su tutto predomina la cosiddetta “Superluna del Cervo” che all’orizzonte, con il suo giallo ambra, spunta da una scanalatura della Murgia e sembra un pulcino che esce dal guscio schiuso e man mano cresce nel cielo di cobalto, malinconia e indifferente ai numerosi scatti degli astanti. Matera è miracolo, proprio nel senso di mirabile, di cosa da mirare. Non è un’oleografia ma certamente è una litografia nell’anima di ogni poeta, di ogni artista, di ogni sognatore.

Centralissima strada di passeggio e passaggio di gruppi di turisti. Un uomo, visibilmente ultraottantenne, gobbo, magrissimo tanto che i pantaloni gli svolazzano attorno alle gambe, pantaloni tenuti stretti da una cinta fin sopra l’ombelico, scarpe non di buona fattura e più grandi dei piedi, va a fare la grama spesa quotidiana piuttosto lestamente e torna indietro da dove si è avviato. Sembra una farfalla alla fine del suo volo. Un’immagine autentica della vita che arranca, che si arrampica in mezzo a un mondo sempre più artefatto, patinato, giovanilistico, giullare. Mare lontano ma all’orizzonte dei pensieri. Matera i cui Sassi al tramonto richiamano Marte, il pianeta rosso. Macaoni in volo. Mici e micetti, tra cui uno nero vellutato tra vasi di piante sui gradini di una casa a piano terra. Musica in strada, in particolare le percussioni suonate da un ragazzo dalla pelle nera. Movimenti di ogni sorta. Melanconia (che suona meglio di malinconia) come sottofondo. Mani di artigiani che danno vita alla materia morta del tufo o altro. Morta la cultura rurale e popolare di una volta. Moto sussultorio dell’anima. Mappa interiore come le viscere della terra. Musa ispiratrice la vita stessa. Magnificenza dell’arte e della libertà di essere!

Ricordo di un’estate che fu: Metti Matera, concerto dei New Trolls alla presenza di più generazioni.

Esplosione di emozioni con “Quella carezza della sera” (con un testo attuale e denso di nostalgia).

Perché Matera è una carezza di sera, carezza delle luci, carezza del cibo, carezza degli incontri che ancora caratterizzano la vita meridionale…

Altra serata estiva dall’arietta gradevole. “Notte bianca del libro e delle idee”: pochi presenti, passi intensi letti, parole e pensieri di ogni sorta, prevalenza del binomio “cultura e cura”, pessimismo palesato ... Non è uno specchio del Sud?

Musei, “case delle Muse”, mostre tra vasi e vasetti di argilla e bracciali e braccialetti a “armilla”; moltitudini di turisti (di un effimero turismo di massa), tra cui uno straniero che porta al guinzaglio un pappagallino da cui si fa beccare il labbro; meravigliose famiglie con 2 o 3 figli al seguito, numero sempre più raro; mélange di colori nella tela del cielo al tramonto sotto cui si baciano coppiette meravigliate come se stessero in una Venezia su un mare preistorico; manufatti di ogni tipo su bancarelle in vari angoli; miscellanea di emozioni; “mindfulness” allo stato puro. Vivere in una città turistica come Matera ti permette di viaggiare pur non allontanandoti dalla città. Un turista romagnolo, dopo averti chiesto un’informazione, ti mostra le foto di ritrovamenti di tombe antiche e scheletri integri nella provincia di Ravenna. Senti parlare delle sponde più o meno caratteristiche del lago di Varese. Ti si avvicina e si siede un anziano medico con un cognome tipicamente materano, in pensione e nato nel 1928 come tua nonna materna e il grande Piero Angela, che ti racconta i suoi studi universitari a Bologna, della storica via Zamboni e di un incontro con Vittorio Gassman (e mentre ascolti ti sembra di vederlo passare nelle mitiche scene del film “Il sorpasso”). In una sala affrescata di trompe-l’oeil di un palazzo signorile, un quartetto giapponese, con costumi e calzature giapponesi, esegue un concerto che riproduce suoni della natura e del cosmo con fisarmoniche e con lo shō, strumento giapponese parente di quello cinese. E tanto altro e tanti altri e così vaghi emozionalmente su e giù per l’Italia e avanti e indietro dall’Oriente!

Alla vista del complesso rupestre della Madonna dell’Idris all’imbrunire, una turista vibrante di emozioni fa una videochiamata per condividere quanto provato ed esclama: “Guarda che meraviglia!”. Matera (ancor di più di sera e con la luna: che dire dell’ultima luna piena d’estate?) suscita meraviglia in chi conserva la meraviglia nello sguardo di quegli occhi su cui non sono calate le cataratte dell’ovvio, del grande, dell’uguale, del mondano, del materiale…

L’estate esalta Matera, la sua bellezza, ogni bellezza, facendo provare sensazioni a fior di pelle.

Come quel refrigerio che si prova sin nell’anima nella Casa Cava, uno degli emblemi di Matera: come il cuore che è una casa cava pronta ad accogliere tutto e tutti.