Basilicata, terra dei pini loricati che fanno venire in mente gli avi, i nonni di una volta, con volti rugosi, scavati e segnati dal tempo e dal sole, curvi, fermi ad aspettare, ma che rimanevano in casa, in famiglia che non era considerata negativamente patriarcale.
Così Salandra, nome di origine greca tra “andros”, uomo, e “hydor”, acqua: paese dei nonni, paese della famiglia, paese delle origini. Paesaggio “bifronte”: da una parte il bosco di querce e dall’altra i calanchi che digradano verso il torrente Salandrella e si congiungono con gli altri calanchi della vallata. Parole dialettali, alcune derivanti dal latino, come “cra” per dire domani. “Past”, la pasta di varie fogge solitamente preparata dalle nonne che davano un pezzo dell’impasto ai nipoti che imparavano a “cavare” o plasmavano dei tarallini da abbrustolire sulla stufa o su altra fonte di calore. “Pan”, il pane, il cui nome in dialetto è di derivazione latina. Dal pane degli antichi Romani sono derivate anche le forme e le incisioni (che, poi, hanno risentito dell’influenza cristiana) sul pane con riferimenti agli organi sessuali per indicare la fecondità. Il nome “pan” evoca pure il dio Pan, dio dei pastori e della campagna, e il prefisso “pan-” con il significato di “tutto”: come la sacralità, i riti e tutto il lavoro che caratterizzavano il pane nella vita di una volta. Il pane era tagliato dal padre seduto a capo tavola, di solito con il suo coltello a serramanico, in maniera regolare senza far perdere le briciole e la fetta della panella grande era tagliata in due e condivisa tra i figli. Paglia per i sedili delle vecchie sedie e in fondo alle case per gli animali.
“Pagghiar”, i pagliai in campagna, come quelli dipinti da Vincent Van Gogh, e usati anche come ripari o per apporgiarvisi nei momenti di pausa dal lavoro. “Pagliet”, la paglietta, cappello estivo che veniva comprato dagli uomini ai mercati o alle fiere alla bancarella dell’immancabile cappellaio di Ferrandina. Passi pesanti, perché si portavano quasi sempre le scarpe da lavoro. Passeggiate tra sole donne o soli uomini. Pannocchie di “pupud(e)gn” (granturco) che venivano sgranate sull’uscio di casa da nonni e nipoti, con grande gioia dei piccoli. Panni lavati in acqua e cenere e col sapone prodotto dal grasso di maiale e stesi al sole in mezzo alle strade su fili mantenuti da aste di legno tra bambini vocianti e giocosi; quando poi le donne di casa andavano a raccoglierli si facevano aiutare dalle femminucce affinché imparassero. Pannolini in cotone, per i neonati o per il ciclo mestruale, cuciti e lavati a mano. Pantaloni di panno grossolano o velluto a coste per gli uomini e pantaloni corti e tagliati in mezzo al cavallo per i bambini (per far scorrere la pipì). Pastrano, il cappotto a ruota che indossavano gli uomini in inverno e con cui, poi, ci si è travestiti a Carnevale. “Pacchiana”, la donna semplice nelle vesti tradizionali, anche queste usate negli anni ’70 per vestirsi a Carnevale o per farsi le foto in posa e mettendo le arance al posto dei seni e dare volume al corpetto. Padri di famiglia, più temuti che rispettati, e non chiamati “papà” ma “tat” e derivati. Papaveri con cui giocavano i bambini soffiando i petali e usando i pistilli come timbrini sulla fronte o sulle mani.
Parsimonia in tutto, pure nelle manifestazioni d’affetto. Pantofole ricavate da vecchie scarpe, sostituite poi dalle pianelle (le scendiletto) che erano tenute sotto il letto dagli uomini e venivano prese dai bambini quando i padri tornavano a casa e si dovevano togliere le scarpe. Paure comuni e condivise, a cominciare da quella di perdere i raccolti. Pance semivuote per la miseria generale. Palpebre semiabbassate per stanchezza o riservatezza. Parenti con tutti, anche perché i bambini chiamavano “zii” o “compari” i vicini e gli anziani. Parecchi parenti si chiamavano Peppino e Pinuccio, le varianti del nome Giuseppe, nome presente quasi in ogni famiglia. Anche nella mia famiglia c’erano i mitici Pinuccio, con grande maestria nelle mani (dal guidare ogni mezzo al lavorare il ferro battuto) e di gran compagnia, e zio Peppino. Quest’ultimo era abile in tutto, dal fare il sensale al raccontare storie (altro che i dispositivi audio che si usano ora per far addormentare i bambini!) incantando adulti e bambini, anche con il coniglio che faceva con il fazzoletto da naso attorcigliato alle dita. Pastori che attraversavano il paese con i greggi e i bambini erano sempre incantati alla vista delle mansuete pecore. Parroco, punto di riferimento per tutti e colui che ha segnato la storia di più generazioni è stato don Carlo che aveva sempre caramelle nelle tasche da dare ai bambini. “Paddon”, caciotta dal sapore invitante lavorata amorevolmente – in tarda primavera – tra le mani esperte. Passata di pomodoro messa ad asciugare al sole, poi conservata sotto uno strato di olio. La si prendeva a cucchiaiate per condire le pietanze oppure per spalmarla sulle fette di pane, anticipando l’uso del ketchup. Padovane, le galline ovaiole allevate davanti casa e fatte rientrare la sera, e che si compravano da pulcini alla fiera degli animali.
Pavimenti in pietre di fiume o cotto grezzo, difficili da spazzare. Pareti interne inesistenti o, tutt’al più, sostituite da tende fiorate, anche con buchi o rammendate. Panchine solo nella villa comunale perché per assistere alle feste in piazza ci si portava le sedioline da casa oppure si prendevano quelle che erano nelle sedi delle sezioni dei partiti per sedersi in crocchio davanti all’uscio. Pazienza tanta nella cura del “pulvin”, semenzaio che ogni contadino allestiva con cura in fondi di bidoni o altro di riciclato e nell’allevamento del “purk”, maiale “cresciuto” (come si diceva) da molte famiglie per, poi, ucciderlo e non sprecare nulla del suo corpo, dalla cotica (perfino delle orecchie) al grasso. L’uccisione del maiale non era la semplice uccisione di un animale né era ritenuto un atto cruento ma era un rito, una festa, il ritrovo di generazioni e parenti. Era un momento che sembrava rinnovare i tempi preistorici in cui vi era la lotta tra l’uomo e gli animali più grossi di lui. Si univano mitologia e tribalismo. Tutto quello che emerge dalle foto in bianco e nero di Antonio Biasiucci, cultore di fotografia antropologica, che “ha raccontato il rituale del sacrificio del maiale dal punto di vista dell’animale, fra i vapori evanescenti dell’acqua calda che aiuta a estirpare le setole” (cit.).
Come a Salandra, era grosso modo nel resto della Lucania di una volta.
Ronca e ronchetto, tra gli attrezzi usati dai contadini. Rocco, il santo più venerato (rinomata la statua del santo ricca di monili d’oro di Tolve) e Rocco il nome maschile più diffuso in passato. Grandi Rocco Petrone, Rocco Mazzarone, Rocco Scotellaro… Rosamaria, il nome che si attribuiva all’accompagnatrice importuna delle coppiette e Rosabetta il nome della granita a base di neve e caffè o quello che si possedeva in casa. Rocchette di filo nero e filo bianco immancabili in casa per rammendare e rattoppare i pochi indumenti e rocchettoni di più colori nelle sartorie di paese. Rocciosa la tempra dei lucani (ma ospitali e generosi) come la roccia su cui nascono Matera, Castelmezzano, Pietrapertosa e altri paesi e la maestosa statua del Cristo imberbe di Maratea. Rotonda, paese famoso per la sua melanzana rossa che sembra un pomodoro e Rotondella, così chiamata per la sua forma rotonda che richiama quella di Locorotondo in Puglia e che sembra un dolce su cui ha girato, con maestria, la mano del pasticcere con il sac à poche. Rovi con rose canine tra la flora locale. Romiti alcuni paesini e alcuni paesani. Rosone della cattedrale di Matera, uno dei più belli dello stile romanico pugliese, con elementi sacri e pagani, la figura dell’arcangelo S. Michele sopra e quella di Atlante sotto. Rovine ricche della storia della Magna Grecia a Metaponto e lungo la costa ionica. Rostro degli uccelli rapaci tanto cari a Federico II di Svevia a Castel Lagopesole. Rovinosi terremoti o altre calamità naturali che hanno cambiato la morfologia regionale rendendo, per esempio, Craco, un “paese fantasma” in seguito ad una frana o cancellando dalla carta geografica Saponara dopo il sisma del 16 dicembre 1857 e ricostruito, poi, come Grumento Nova.
“L’acqua piovana, / nelle impronte delle mucche. / Mosche sgomente, / prossime a novembre. / Il chiodo rosso non sopravvivrà al vento. / L’imposta che stride sui cardini e sbatte, / una volta contro il telaio, / una contro il muro. / Qualcuno la sente?” (“La malga deserta” del poeta tedesco Gunter Eich, in “Lo straniero”). Come le immagini color seppia e ricche d’emozioni che si vivono lungo le viuzze dei centri storici dei paesi lucani tristemente in via di spopolamento, come San Mauro Forte seppur ricco, tra l’altro, di palazzi e portali importanti.
La scrittrice Dora Albanese, materana di nascita, scrive nel romanzo “La scordanza”: “A Muggera [nome di fantasia], un piccolo paese della Basilicata, il mondo sembra essersi fermato: le donne alternano le preghiere del rosario alle formule per scacciare il malocchio; gli uomini sono pronti a uccidere per uno sguardo di troppo; nel bosco tra i calanchi, le fattucchiere preparano filtri d’amore”. Alchimia, fantasticheria, magia, scaramanzia e un pizzico che non manca mai di melanconia e nostalgia: la terra di Basilicata e i suoi abitanti lucani, da sempre e per sempre. E già, la Basilicata è terra di scordanza e discordanza.
“Ecco – mi dissi – questo preciso attimo, è gioia. Il silenzio là fuori era così dolce che mi pareva di sentirne il canto; da qualche parte avevo letto che tutto è armonia se solo riusciamo a sentirla, così rimasi in ascolto ed ebbi cura di muovermi, senza spostarlo. Il Silenzio” (da “Il terrazzino dei gerani
timidi” di Anna Marchesini). Silenzio: la dimensione che caratterizza di più il vero lucano e lo stato d’animo che suscitano i paesaggi lucani, come i Sassi di Matera di notte o il santuario della Madonna di Picciano o la salita attraverso il bosco sino all’abbazia di San Michele sui laghi di Monticchio.
Viaggio di ritorno quasi da “sogno di una notte di mezza estate”, come Cenerentola, su una macchina da sogno con tanto di tettuccio panoramico e immancabile musica di sottofondo, lungo la Basentana, principale arteria stradale lucana e anche arteria emozionale lungo la lucanità, perché lungo quella strada ci sono stati tanti viaggi di speranza verso il nord o altri viaggi senza ritorno. Paesi abbarbicati su ridenti colline che di ridente ormai sembrano aver conservato poco, campagne, casolari, iazzi, alberghi (alcuni ancora con le tende appese), sale da ricevimento, stabilimenti, tutto in gran parte abbandonato: quanti progetti e sogni infranti! Intanto giochi a nascondino o a cucù, come con i bambini, con la luna quasi piena e nel cielo ci sono stelle sparute e striature lattiginose che rispecchiano le lacrime che irrorano l’anima come gocce di rugiada e i pensieri che irrorano la mente: un vero sogno di una notte di mezza estate, alimentato dalla tipica malinconia lucana!
“Inutile arrabbiarsi, o forse no. Qualcuno è partito perché altri potessero crescere, perché la terra madre non ha i mezzi per alimentare le speranze di tutti. Ma di chi è il coraggio, di chi resta? O di chi torna?” (dal commento allo spettacolo teatrale “Trapanaterra” del lucano Dino Lopardo). Basilicata: terra che ne ha passate tante e da cui sono passati in tanti, terra che trapana il cuore, terra cui trapanano il cuore e il cielo!