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Gioco e salute, gioco è salute

Abstract: Lo sviluppo psicofisico dei bambini passa attraverso il gioco

 

Tra i tanti esperti, la pedagogista Sonia Iozzelli ha puntualizzato: “Il bambino non ha solo bisogni o non ha tanti bisogni ma ha soprattutto diritti, diritti inalienabili e diritti ben dritti” (in un webinar del 22-11-2021). Fondamentalmente i diritti dei bambini sono una decina, dal diritto alla vita al diritto al gioco, fonte di vita per i bambini.

Il gioco è fondamentale nella vita del bambino e nella vita in generale, basti pensare anche alle varie espressioni che si usano nel linguaggio quotidiano come “mettersi in gioco” o “giocarsi il tutto per tutto”. Il filosofo Gadamer scriveva: “Il gioco raggiunge il proprio scopo solo se il giocatore si immerge totalmente in esso” (nel saggio “Verità e metodo”). Il soggetto del gioco, dunque, non è il giocatore ma il gioco stesso, che prende vita attraverso i giocatori. Ad esempio giocare a calcio non significa soltanto tirare una palla, ma anche correrle dietro, “essere giocati” dalle situazioni che si verificano in campo. Perché la vita stessa è gioco. È importante conoscere tutte le dinamiche del gioco per consentire al bambino di provare la libertà nel gioco ed esercitare il suo diritto al gioco (art. 31 Convezione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Si ricordi la filastrocca de “Il diritto al gioco” di Bruno Tognolini, che comincia con “Fammi giocare solo per gioco”.

 

Anche il formatore Ruggiero Russo ribadisce: “Il gioco è un diritto. È una delle funzioni centrali nello sviluppo cognitivo, sociale, emotivo, creativo e motorio dei bambini, tutti fattori che, sommati tra loro, costruiscono la personalità e l’individualità dei bambini e dei giovani: le fondamenta per essere adulti. Gioco e Gioia hanno la stessa radice: essere felice è ciò che ognuno ricerca sin dalla nascita. Il gioco è piacevole (Jocus: esser lieto, scherzo), e a star bene. Per tale motivo per noi insegnanti, formatori, genitori è un’importante occasione educativa da non perdere”. I bambini hanno “bis”ogno di giocare e non di giocattoli o giochi, hanno “bis”ogno di spazi liberi per giocare e non di ludoteche o altri spazi strutturati, hanno “bis”ogno di giocare da bambini, per bambini e con bambini e non di attività organizzate e adultizzate.

 

La psicologa Paola Molina precisa: “Nel primo anno di vita, consideriamo «gioco» l’attività autonoma che il bebè esprime soprattutto attraverso la motricità e la manipolazione di oggetti. Un’attività fondamentale per lo sviluppo psicofisico, perché permette di apprendere in una situazione di sicurezza, a condizione che il piccolo possa sperimentare senza vincoli o suggerimenti esterni. Ruolo dell’adulto è sostenere tale attività”. Fondamentale quello che farà nel primo anno di vita perché potrebbe essere compromesso il suo sviluppo successivo, in particolare quello motorio come si sta riscontrando ultimamente.

 

Sono in aumento i problemi delle capacità motorie e la pigrizia nei bambini anche a causa dello stile di vita cui sono indotti o costretti. Bisogna sottoporre cautamente i bambini a schemi e schermi: la vita non è metaverso, ma poesia di verso in verso (innanzitutto nel senso etimologico di “poesia”, inventare, comporre, produrre, e di “verso”, voltare). Bisogna ripartire con il semplice gioco della palla (con tutti i suoi significati simbolici e psicologici), che sta alla base di molte discipline sportive e al centro di tante attività ludiche differenti. Che sia lanciata, calciata, spostata, passata, rotolata, questo attrezzo attira fin da subito i bambini e sollecita la loro voglia di movimento e divertimento. I bambini hanno diritto al movimento, fonte di emozioni e benessere. Si tenga a mente che la parola “emozione” deriva dal verbo latino “movere”, “muovere”. I bambini vanno lasciati giocare da soli e non continuamente in giochi organizzati o con l’animatore o con qualche istruttore.

Il gioco in età dello sviluppo soddisfa il bisogno di piacere di figli, alunni e giovani atleti, ma soprattutto li aiuta a strutturare la personalità e sviluppare competenze, anche attraverso l’esperienza di piccole frustrazioni e la sperimentazione del limite. La relazione con adulti consapevoli di questi aspetti ha un valore preventivo nei confronti di future condotte pericolose per la crescita della persona” (cit.). Il gioco dei e per i bambini non né è un semplice gioco né semplice divertimento né tantomeno un passatempo: è diritto al gioco, libertà di gioco, salute in gioco, regole del gioco, gioco di vita, vita in gioco. È gioia di giorno in giorno sulla giostra della vita. È nella natura stessa dell’infanzia, nello ius naturale dell’infanzia. Gli adulti, genitori e educatori, dovrebbero osservare e preservare di più i bambini che giocano e intervenire e interferire di meno.

 

Il gioco dei bambini è una dimensione speciale (per questo bisogna specificare “dei bambini”) perché, tra i tanti aspetti, nel gioco si costruisce la persona e la personalità di quelli che saranno gli adulti di domani. Genitori e educatori devono, perciò, fare molta attenzione a giochi e giocattoli proposti, ai loro interventi, alla loro presenza o meno e ad altre sfumature non irrilevanti.

 

Il gioco è fondamentale perché suscita, stimola, sviluppa: G come gioia, gestione delle emozioni e delle situazioni; I come intelligenze, intenzionalità, immagini e immaginazione, inibizioni superate, incontro; O come originalità, osservazione, orientamento, organizzazione, opportunità; C come creatività, costruzione, capacità, corpo e corporeità, condivisione, conoscenza, confidenza, consapevolezza, conduzione di un’esperienza; O come obiettivi, ordine mentale, organizzazione, inoltre il bambino sperimenta che la sua onnipotenza ha dei limiti e prova invece l’onnipotenza della fantasia, del pensiero. Non a caso il gioco è un diritto riconosciuto nell’art. 31 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, non a chiusura degli altri diritti ma perché ingloba tutti gli altri.

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro spiega: “Togliete il gioco all’infanzia e avrete tolto l’infanzia al mondo. Ma anche gli adulti dovrebbero tenere a mente che non c’è saggezza senza la sapienza del gioco. […] Bambini e ragazzi hanno bisogno di adulti che provino piacere nel trasmettere la loro sapienza del gioco. Una sapienza che è stata costruita nel tempo attraverso un’infinità di ore trascorse in lieta compagnia tra grandi e piccoli”. Il gioco non è giocattoli o cose ma cultura e storia del gioco, relazioni intragenerazionali e intergenerazionali, situazioni, sviluppo (contrario di inviluppo), salute. Il gioco, perciò, merita rispetto e tutela.

Lo psicologo e psicomotricista Giuseppe Nicolodi rimarca: “Non giochi intelligenti ma modo intelligente di stare vicino al bambino perché il bambino sa già giocare da sé. Ha bisogno dell’adulto che sappia fare l’adulto” (in un webinar del 6 novembre 2020). Si ribadisce che i bambini hanno il bisogno vitale e il diritto essenziale al gioco e non a giocattoli (ancor meno quelli digitali) o a giochi predefiniti (intelligenti, tecnologici, didattici, montessoriani...) dagli adulti. Essere adulti è essere vicini ai bambini ma al tempo stesso delineare i confini oltre i quali non possono andare per il loro “ben-essere”.

 

Sui giocattoli il pedagogista Daniele Novara sostiene: “Un monitor non consente di vivere vere esperienze sensoriali. Si possono scegliere i tradizionali giochi di società, la palla, la dama o gli scacchi, i birilli... che, necessitando di più partecipanti, favoriscono la condivisione con fratelli e sorelle o con amici invitati a casa. La scelta è infinita. Assolutamente consigliati i giocattoli che stimolano la creatività, in primis i mattoncini per le costruzioni”. Per i bambini giocare non deve significare giocare liberamente e fare quello che più aggrada, averla sempre vinta, distruggere i giocattoli per vederci dentro, ma sperimentare la libertà, le regole del gioco, le emozioni. Il gioco è vita, vitalità, esercizio di vita, per il bambino è sostanza del diritto innato alla vita (art. 6 Convenzione).

La consulente educativa Silvia Iaccarino riferisce: “Recentemente [gennaio 2019], anche la AAP (American Academy of Pediatrics), massima istituzione a livello mondiale in merito alla salute ed al benessere globale dei bambini, ha espresso in modo netto e chiaro alcune linee guida rispetto alla scelta di giochi e giocattoli per bambini, sconsigliando vivamente quelli tecnologici e gli schermi ed evidenziando l’importanza di oggetti che sostengano la relazione tra pari; tra adulti e bambini; il movimento; la fantasia e l’immaginazione; il gioco di ruolo e di finzione”. I bambini hanno bisogno di toccare, manipolare, smontare, rompere, sperimentare e sperimentarsi.

I bambini devono essere resi soggetti dei loro diritti ogni giorno nella quotidianità e non solo nella giornata internazionale in cui sono coinvolti in attività “adulto-centrate” o “docente-centrate” da fotografare e mostrare nei social o altre sedi. I bambini devono poter giocare liberamente e spontaneamente con meno giochi strutturati o guidati o giochi didattici (la cui denominazione è già opinabile) o altro proposto (o addirittura imposto) e condotto da genitori e insegnanti.

 

Il sano gioco da bambini ha anche una valenza preventiva di disturbi e dipendenze che si manifestano dall’età adolescenziale in poi, tra cui le dipendenze da gioco. Il gioco d’azzardo con conseguente ludopatia, oltre ad avere seri effetti neurologici, è contrario ad alcuni principi fondamentali della Costituzione, perché provoca inibizione dello svolgimento della personalità (art. 2 Cost.), limitazione del pieno sviluppo della persona umana (art. 3 comma 2 Cost.), impedimento della capacità lavorativa e di concorrere al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 comma 2 Cost.), minaccia all’unità familiare (art. 29 comma 2 Cost.), alla tutela della salute (art. 32 Cost.), alla tutela del risparmio (art. 47 Cost.).

La personalità del fanciullo è sacra […]. Perché possa svolgere le sue attività di gioco e di lavoro, il fanciullo ha bisogno di convenienti rapporti umani; nonché di spazi, di tempi, di mezzi, di materiali e strumenti idonei alla sua età ed adatti alle sue condizioni fisiche e psichiche” (dagli artt. 1 e 2 della Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro, Roma 1967). Bambini: realmente e metaforicamente, non da far esibire o performare su un palco per il saggio di fine anno o in foto sui social per mostrare agli altri quanto siano belli, bravi e buoni, ma accompagnarli al parco per osservarli mentre giocano tra pari imparando le regole della vita.

Il diritto dei bambini alla musica

“La musica riveste un ruolo cruciale soprattutto nei contesti educativi, agendo come potente strumento di sviluppo cognitivo, emotivo e sociale. Emotivamente, aiuta a riconoscere e gestire le emozioni, migliorando l’autostima e offrendo un canale per affrontare lo stress. Socialmente, promuove competenze di collaborazione e comunicazione, insegnando il valore del lavoro di squadra e del rispetto reciproco. Infatti la musica agisce come ponte culturale, favorendo l’inclusione e la comprensione interculturale. Infine, stimola la creatività e l’espressione personale, offrendo un’opportunità per esplorare e sviluppare il talento artistico” (cit.). L’importanza della musica è universalmente riconosciuta, ancor di più per lo sviluppo dei bambini. Non a caso nella locuzione “pieno e armonioso sviluppo della personalità del fanciullo” (Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) si usa un termine musicale derivato da “armonia”.

“Negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia la musica svolge un ruolo determinante, ma spesso mancano le competenze specifiche degli insegnanti e il materiale didattico specifico. Una buona programmazione musicale è il primo passo per riuscire a far musica in modo piacevole e produttivo” (cit.). La musica a scuola, sin con bambini piccolissimi, fa: Muovere, Unire, Sorridere, Intraprendere, Conoscere, Attivare. Come rimarcato altresì nella normativa sul cosiddetto “sistema integrato 0-6”.

Gli esperti Emiliano Toso e Tea Baldini sottolineano la polivalenza della musica sin dal concepimento: “La gravidanza è un periodo unico e delicato nella vita di una donna, caratterizzato da notevoli cambiamenti fisici ed emotivi. La musica può essere d’aiuto poiché fornisce un ambiente tranquillo e rilassante, aiutando a ridurre lo stress e l’ansia che possono essere associati a questo momento. Numerosi studi dimostrano che la musica può avere un effetto positivo anche sullo sviluppo fetale. Il battito cardiaco e i ritmi respiratori del feto possono sincronizzarsi con la musica, un processo che può favorire il loro sviluppo. Alcuni studi suggeriscono anche che l’esposizione alla musica prima della nascita può migliorare le capacità di apprendimento e di memoria del bambino. Inoltre, la musica in gravidanza offre un’opportunità unica per rafforzare il legame tra madre e figlio. Quindi, può essere visto non solo come un beneficio per lo sviluppo del bambino, ma anche come uno strumento per migliorare la salute emotiva e mentale della madre”. “Fare musica” per i bambini è importante anche per la costruzione della propria “identità musicale o sonora” e non (o non solo) per imparare a suonare uno strumento.

Le esperte musicali Alessia Cominato e Cristina De Cillia spiegano: “L’identità sonora rappresenta in qualche modo la nostra storia, il nostro bagaglio musicale fatto di tutte quelle musiche, quei suoni, quei rumori, quei movimenti che ci accompagnano fin da quando eravamo nella pancia della nostra mamma. […] L’idea di andare alla ricerca della propria identità sonora rappresenta prima di tutto un tentativo di ascolto della propria persona e di espressione di ciò che risiede in noi. […] Prendersi cura del proprio “sé musicale” significa essere pronti a scoprire ciò che di musicale c’è in noi, prendersi il tempo per comprendere le nostre emozioni in relazione alla musica, ascoltare i nostri ritmi e creare uno spazio musicale su misura per noi”. Educare alla musica e, quindi, sviluppare l’identità sonora di un bambino lo abitua, tra l’altro, ad ascoltare e ascoltarsi e al rispetto. Si favorisce l’esercizio di vari diritti dei bambini di cui nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in primis l’ascolto.

L’ascolto è un’arte, una scuola di vita, in cui ognuno impara ad ascoltare innanzitutto se stesso per, poi, ascoltare l’altro. È quella scuola in cui la famiglia impara a farsi famiglia, l’uno in ascolto dell’altro. Così in famiglia si mettono in atto gli articoli 12 (ascolto), 13 (libertà di espressione) e 14 (libertà di pensiero e coscienza) della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. “L’ascolto - inteso come capacità di uscire da se stessi per accogliere la persona dell’altro nella sua totalità - è un’abilità umana preziosa, sempre più necessaria nella moderna socialità così come nella quotidianità delle nostre aule scolastiche. La capacità di ascolto di sé e dell’altro, che si sviluppa poi nella capacità di attenzione, approfondimento, riflessione, richiede percorsi educativi specifici in cui la musica rappresenta un tassello fondamentale, in quanto fortemente attrattiva, giocosa, divertente, emozionante” (cit.). La voce, il principale mezzo di comunicazione umana, il personale strumento musicale: sin dal grembo i futuri genitori fanno di tutto per far sentire la propria voce al nascituro e stanno in silenzio per percepire ogni movimento o vibrazione che provenga dal feto. Dopo, però, si trascura di dare voce ai bambini e di fare silenzio con e per i bambini. E uno dei loro segnali di disagio per farsi ascoltare è il mutismo selettivo.

“Fare musica con le mamme in dolce attesa, i neonati, i bambini, gli adolescenti e gli adulti, permettere loro di esprimersi attraverso essa, significa formare “persone musicali” capaci di ascoltare, condividere ed emozionarsi. Con la musica la persona vive su di sé la scansione del tempo, il sapersi muovere all’interno di uno spazio condiviso, il rispetto di se stesso, del proprio ruolo e di quello degli altri. In questo senso la musica ci permette di contemplare le mille sfaccettature della persona” (cit.). “Fare musica” con i bambini è dare loro del tempo e darsi tempo con i bambini, dare contenuto al tempo (da quello psicologico a quello cronologico). Bisogna sì rivolgersi a esperti ma, in particolare a scuola, non bisogna fare di ogni proposta pedagogica un progetto didattico.

La musica realizza molti principi costituzionali, dalla democrazia (art. 1 Cost.) alla pace (art. 11) e, soprattutto, lo sviluppo della cultura e la tutela del patrimonio storico e artistico (art. 9). Anche la nuova disposizione dell’art. 9, “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, può essere applicata alla musica giacché esistono paesaggi sonori, la musicalità di tutta la natura e la sonorità di ogni essere e di ogni oggetto.

E si può dire che la musica è un diritto dei bambini, perché favorisce l’atmosfera di felicità, amore e comprensione (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), stimola lo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale del fanciullo (art. 27 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e contribuisce al diritto al riposo, allo svago, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età ed a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica (art. 31 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Fondamenti al diritto alla musica si trovano altresì nel decalogo dei diritti naturali di Gianfranco Zavalloni e nella Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (Bologna 2011).

Nelle “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione” (2012) nel campo di esperienza “Immagini, suoni, colori” relativo alla scuola dell’infanzia si legge: “La musica è un’esperienza universale che si manifesta in modi e generi diversi, tutti di pari dignità, carica di emozioni e ricca di tradizioni culturali. Il bambino, interagendo con il paesaggio sonoro, sviluppa le proprie capacità cognitive e relazionali, impara a percepire, ascoltare, ricercare e discriminare i suoni all’interno di contesti di apprendimento significativi. Esplora le proprie possibilità sonoro-espressive e simbolico-rappresentative, accrescendo la fiducia nelle proprie potenzialità. L’ascolto delle produzioni sonore personali lo apre al piacere di fare musica e alla condivisione di repertori appartenenti a vari generi musicali”.

Nei successivi paragrafi delle Indicazioni nazionali, nella disciplina di musica per la scuola primaria si legge: “La musica, componente fondamentale e universale dell’esperienza umana, offre uno spazio simbolico e relazionale propizio all’attivazione di processi di cooperazione e socializzazione, all’acquisizione di strumenti di conoscenza, alla valorizzazione della creatività e della partecipazione, allo sviluppo del senso di appartenenza a una comunità, nonché all’interazione fra culture diverse”.

Sicuramente la musica garantisce il benessere e la salute dei bambini. “La tecnologia è uno strumento da gestire in modo appropriato senza abusi: sono diversi, infatti, gli effetti che gli psichiatri stanno osservando negli ultimi anni e in particolare tra i giovani causati da un eccessivo e smodato utilizzo del digitale. Uno tra essi è il disturbo del sonno, che ha ripercussioni sulla memoria e sulla capacità di concentrarsi; tra gli effetti estremi c’è l’isolamento sociale” (comunicato Progetto Itaca, gennaio 2024). Anziché mettere in mano ai figli precocemente e inadeguatamente dispositivi digitali, i genitori dovrebbero dare loro strumenti musicali o materiale di recupero o di riciclo o altro da manipolare per stimolare l’uso delle mani e suscitare emozioni.

L’educatore (e anche il genitore) deve agire come l’arrangiatore musicale: organizzare e valorizzare il tema musicale composto da altri. L’educazione è mediazione come si ricava anche dalla Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura.

La vita è un concerto che comporta prove e riprove, accordature del proprio strumento e accordature con gli altri strumenti. Resilienza: armeggiare dentro di sé, arpeggiare con le proprie corde. “Il bambino possiede in lui importanti risorse. Esse si rivelano se egli può dialogare, essere ascoltato con affetto e rispetto, essere difeso. […] questa “resilienza” che permette al bambino di ricostruirsi” (dalla Carta del Bureau International Catholique de l’Enfance, Parigi, giugno 2007).

Fantasia, speranza, esultanza, esuberanza: i bambini hanno gli strumenti per superare e far superare ogni momento brutto e agli adulti tocca semplicemente guardarli e ascoltarli e i bambini stessi sono degli strumenti musicali.

Volgere lo sguardo e tendere l’orecchio come richiede la vita e ogni forma di vita. 

La famiglia è… quel che è

Sintesi: Fare famiglia non vuol dire solo costruire un nido d’amore

Abstract: L’articolo ci ricorda che la famiglia è la scuola dell’alterità e dell’altruità

Papa Giovanni Paolo II, nel Discorso ai giovani della diocesi di Roma, il 18 marzo 1989, diceva: “La crisi della famiglia è la crisi della persona e delle persone. Sono le persone che pagano per questa crisi; sono le persone che la causano e che la pagano; le donne, i mariti, i bambini, la società”. In passato la famiglia era un sogno, oggi sembra essere diventata un incubo tanto che, solo per esempio, il neuropsichiatra infantile Giovanni Francesco Visci è arrivato ad affermare che “uccide più la famiglia che la mafia” (in un webinar del 23/11/2021). Si fa presto a dire e dirsi famiglia, a metter su famiglia, però quello che si è detto e fatto si vedrà solo nella vita dei figli. I genitori trascurano che la salute non è solo quella fisica ma è uno stato di benessere su cui incide ogni gesto, ogni parola e anche quello che non si fa.

La famiglia deve (o dovrebbe) comportarsi come ci si comporta in caso di terremoto: innanzitutto, metaforicamente, dovrebbe vivere in un’abitazione antisismica e conoscere le procedure di evacuazione; in caso di sisma ci si aiuta a mettersi in salvo dando priorità ai bambini o altri soggetti fragili; e, nell’eventualità di casa lesionata o crollata, si recupera quello che è possibile per ricominciare in un’altra sistemazione abitativa. La famiglia è il primo anello di “child safeguarding”, di tutela del bambino, invece sempre più spesso accade il contrario perché provoca traumi ai bambini, disastra la loro vita.

Il pedagogista Domenico Simeone precisa: “La fragilità dei legami affettivi, la mancanza di politiche sociali adeguate a favore della famiglia, la difficoltà di conciliare vita familiare e lavorativa sono sfide che ci invitano a ridare valore alla relazione e all’incontro autentico, perché la famiglia rimane […] l’ambito fondamentale “dell’umanizzazione della persona”, il luogo privilegiato della cura degli affetti e dell’educazione”. La famiglia è falda acquifera, è faro di riferimento. La falda, però, può essere inquinata e il faro può essere spento e questo, metaforicamente, significa che è soggetta all’intervento dall’esterno o che ha bisogno dell’intervento esterno.

Secondo il sociologo Francesco Belletti: “[…] fare famiglia non vuol dire solo costruire un nido d’amore in cui potersi rifugiare, ma, soprattutto, testimoniare al mondo la propria felicità personale. […] Del resto, anche Ermanno Olmi, in una scena per me indimenticabile dell’Albero degli zoccoli [1978], mostra una coppia di giovani sposi, di ritorno dal viaggio di nozze, che porta con sé un bambino orfano, che diventerà subito il loro primo figlio, fin dai primi giorni della loro nuova vita di coppia: generato e portato alla vita da loro, non in forza di un vincolo di sangue, ma grazie alla capacità di allargare da subito la loro storia d’amore a chi ne aveva bisogno. E oggi tanta parte di umanità ha nelle proprie storie e nei propri desideri un bisogno disperato di famiglie

accoglienti, capaci di accoglierli nel proprio cerchio d’amore” (in un articolo del 24/6/2022). Se si comprendesse il significato profondo e fecondo dell’amore che non si limita al pronunciare “Ti amo” ci sarebbero meno crisi personali e di coppia.

Cerchiamo di non concentrare l’intera vita familiare intorno alle richieste del bambino. È certamente importante dare ai più piccoli l’attenzione di cui hanno bisogno, ma senza dimenticarci che in famiglia ognuno ha delle esigenze e che anche i bisogni altrui vanno considerati, soprattutto se ci sono altri bambini all’interno del nucleo familiare” (un’équipe di esperti). La famiglia non è fatta solo di figli ma di fili, di legami, di relazioni che vanno curate di giorno in giorno, altrimenti scattano dinamiche perverse e incontrollabili (dal non parlarsi più al non riconoscersi più). Da notare che nel codice civile si usano espressioni significative quali “interesse della famiglia” (art. 143 comma 2), “bisogni della famiglia” (art. 143 comma 3), “esigenze della famiglia” (art. 144).

Il pedagogista Daniele Novara richiama: “Inutili le sgridate, le insistenze, i comandi, le urla… atteggiamenti che spingono i piccoli o a spaventarsi o, al contrario, a opporsi. Molto meglio essere pratici, concreti e organizzativi. Far vedere come si mettono a posto i giochi dopo che si è giocato, come si sistemano i libri nella libreria, dove si ripongono lo spazzolino da denti o l’asciugamano in bagno”. Si è passati dai padri padroni che, per esempio, si facevano togliere le scarpe ai figli tiranni serviti e riveriti. Famiglia è fare per l’altro, fare insieme, fare per amore e con amore, è gratuità, quotidianità, ferialità. Non si deve trasmettere che si fa qualcosa solo dietro compenso, solo per obbligo, che fare e darsi da fare è un peso e tutto questo passa attraverso l’esempio e anche attraverso la comunicazione non verbale. Uno dei verbi più usati in famiglia, nei riti domestici è “preparare”: preparare il corredino per il nascituro, preparare il pranzo, il caffè, lo zaino per la scuola e così via. Etimologicamente “preparare” deriva dalla radice “par” che sarebbe la stessa di “parte”, “paio”; “pari”, “parenti”, “partorire” e altre ancora: tutto ciò che caratterizza e costituisce la famiglia. La famiglia ha il compito di preparare la vita e alla vita. “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera” (dalla lettera d dell’art. 29 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Famiglia: fuoco dell’amore, fervore nel cuore, fermento nel darsi e dare, fremiti di emozioni. Questo il senso di parentela e affinità: tutt’altro che le rimpatriate e le tavolate in certe occasioni dovute o nelle cosiddette feste comandate.

“In Africa c’è una società con la famiglia estesa. Questa estensione porta il bambino ad apprezzare la vita comunitaria. Quando i bambini si trovano insieme senza i genitori e anche per molto tempo, c’è una filosofia di gruppo che li sostiene soprattutto quando trovano possibilità di giocare, di cantare e di mangiare” (cit.). Se si acquisisse la consapevolezza che l’educazione è compito

comunitario e avviene a livello comunitario perché ogni relazione è educativa, si eviterebbero deleghe educative, contese tra genitori/educatori e si potrebbero prevenire conflitti e atteggiamenti asociali o antisociali dei giovani. Quella comunità che è richiamata tre volte nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (Preambolo, art. 5 e art. 23).

La parola “famiglia” contiene “maglia”: la famiglia sia maglia che avvolge e non maglio che colpisce. Famiglia: fatica nel quotidiano (fatica nell’affrontare le situazioni, nel custodire le relazioni), fantasia nell’andare avanti (nelle soluzioni, nelle emozioni). La famiglia è, nel bene e nel male, tessuto di affetti e memorie e, pertanto, può subire strappi e usura del tempo e ha bisogno di ricuciture, “toppe” o altro rimedio.

L’altro: accorgersi, accostarsi, accomodarsi nel suo cuore, accollarsi i suoi pesi, allontanarsi insieme in volo in cieli più sereni. È questo uno degli aspetti del dovere di assistenza in famiglia ai sensi degli artt. 143 comma 2, 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.. La famiglia nasce dall’incontro con l’altro, è la culla dell’altro da sé.

La fisiologia dell’adolescenza

Abstract: L’articolo analizza la situazione degli adolescenti evidenziando la necessità di un atteggiamento adeguato degli adulti nei loro confronti, adulti che devono essere tali

Sugli adolescenti di oggi si leggono notizie allarmanti: “La fotografia che ci troviamo ad osservare è quella che ritrae una realtà in cui le ragazze ed i ragazzi che vivono nel nostro Paese “stanno male”. Il malessere delle giovani generazioni è diffuso, si esprime in diversi modi, ma riguarda tutte le sfere dell’esistenza, coinvolge le diverse fasce d’età, i ragazzi e le ragazze che vivono nelle grandi città e quelli che vivono nelle città di provincia. […] Mettendo insieme i dati e le riflessioni dei numerosi operatori coinvolti nella stesura del 13° Rapporto CRC, abbiamo di fronte una realtà complessa, in cui però emerge chiaramente la difficoltà che hanno sia i ragazzi che le famiglie a gestire tale complessità. Gli adulti non riescono a fornire appieno risposte adeguate ed essere sempre quei punti di riferimento di cui invece i ragazzi/e avrebbero bisogno in ogni ambito della loro vita. Le figure genitoriali sono oggi spesso impreparate ad affrontare le sfide legate alle varie fasi di crescita, disorientate e lasciate sole. La scuola è spesso percepita lontana, i giovani che hanno difficoltà faticano a chiedere aiuto e trovare risposte in tale contesto, anche perché non avvertono la presenza di un sistema attorno a loro. Ma anche gli insegnanti si sentono soli” (dalla Premessa del 13° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, novembre 2023).

È quanto scrive anche, tra gli altri, la giornalista Giulia Cananzi: “Una recente ricerca dell’Istat rileva che sono raddoppiati negli ultimi due anni gli adolescenti insoddisfatti della vita o che accusano una sofferenza mentale. Potremmo addurre mille motivazioni per cercare di spiegare tanto disagio, ma un punto fondamentale è capire se c’è un modo di rispondere, e possibilmente prevenire, a quella che sembra una deriva aggressiva in costante aumento, senza perdere i ragazzi e tutelando la collettività” (dicembre 2023).

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro, quale esperto dell’età evolutiva (e non solo) centra, invece, la sua riflessione sulle caratteristiche degli adolescenti e non su fatti e dati: “I ragazzi e le ragazze, quelli che oggi chiamiamo adolescenti e vivono in un ambiente profondamente mutato e soggetto ad apparenti o reali cambiamenti sempre più rapidi nel giro di una stessa generazione, non hanno subìto in profondità una mutazione nel senso che la biologia dà a questo termine. Abbiamo documentazioni provenienti da un passato più o meno remoto che dimostrano come certi comportamenti che oggi ci affascinano o ci preoccupano negli adolescenti nostri contemporanei, fossero ben presenti da sempre. Da questa documentazione risulta con tutta evidenza che quella che oggi chiamiamo ‘adolescenza’ sarebbe stata meglio chiamarla ‘l’età di Parsifal’, da parsi, puro, e fal, folle. È l’età dei folli puri, non quella alla quale pensavano gli psichiatri dell’Ottocento quando hanno coniato il termine ebefrenia mettendo una pietra tombale sulla bella follia dei ragazzi”.

L’adolescenza è una fase fisiologica e gli adulti devono fare in modo di non renderla patologica con le loro ansie (soprattutto di inadeguatezza) o interventi sbagliati.

Fulvio Scaparro aggiunge: “Se gli adolescenti sono costretti a mostrare un volto non gradevole, questo è in parte da considerarsi un aspetto fisiologico della crescita e della ricerca di un’identità ma molto è anche dovuto all’adulto smemorato, immemore perfino della propria adolescenza. Quando si specchiano l’uno nell’altro non si piacciono: il giovane non ama quell’‘anziano’ che gli si propone come modello, l’anziano disconosce la paternità o la maternità di quel giovane che gli sta di fronte. In comune hanno spesso solo l’arroganza. Non si ha più voglia di giocare, di esplorarsi, di corteggiarsi. Entrambi si pietrificano in rigide maschere. Visto dal punto di vista del ragazzo, entrare nella società dei grandi vuol dire, allora, pietrificarsi in una delle innumerevoli maschere possibili, quella del cattivo, del bravo figliolo, del duro, del sottomesso, del malato, del violento, del tossicodipendente, del fumatore… La pietrificazione è l’opposto del dialogo fertile, riduce la vita a un tragico teatro di marionette. Uno dei sintomi di questa pietrificazione del ruolo e del rapporto tra adulto e adolescente è quel giovanilismo ridicolo e tragico che spesso gli adulti – purtroppo proprio quelli che hanno funzioni e ruoli formativi – mettono in mostra nel loro rapporto con i ragazzi e le ragazze. Non bisogna inseguire i giovani, non bisogna ‘fare i giovani’, non occorre adularli. L’adulto, così facendo, rinuncia alla risorsa della diversità e si rende ridicolo e tragico come chiunque sia fuori posto e fuori tempo in circostanze che esigerebbero invece autenticità e responsabilità. L’adulto dovrebbe essere disponibile senza attendersi che l’adolescente faccia altrettanto. Disponibilità vuol dire presenza non intrusiva. Essere pronti a dare, consigliare, accogliere, raccontare le proprie esperienze e i propri sogni, dare esempio, dire ‘no’ ma anche sostenere e incoraggiare quando occorre, evitando di sostituirsi al giovane e di rafforzarne la dipendenza gettando così le basi di future dipendenze. Disponibilità è dare un tranquillo esempio di maturazione quale può dare solo chi ha vissuto molti distacchi e molte unioni ma non ha perduto la voglia di vivere”. L’adolescenza è una prova di maturità per gli adolescenti che devono superare questa fase e per gli adulti che devono mostrare di averla già vissuta e superata. L’adolescenza è il periodo in cui gli adulti devono assicurare ancor di più l’ascolto (art. 12 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e promuovere lo sviluppo, da quello fisico a quello sociale (art. 27 Convenzione), dei ragazzi. L’art. 27 della Convenzione offre uno spunto ai genitori come dovrebbero accompagnare i figli nell’“età dello sviluppo”, dal loro chiuso ai loro coetanei “soci” (letteralmente “compagni, alleati”).

La famiglia da normativa, incentrata su dovere e obbedienza, è diventata “famiglia narcisista”, che privilegia altre priorità, quali espressività, emozionalità, originalità, felicità; secondo lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini, dopo la pandemia è diventata “famiglia postnarcisista”, segnata dalla rarefazione nelle relazioni, la perdita di grandi valori e punti di riferimento e l’accresciuta

difficoltà da parte dei genitori ed educatori ad accettare la fragilità dei figli. Gli adolescenti di oggi sono più fragili e tendono all’implosione perché sono più fragili i genitori, perché manca l’adultità. L’art. 315 bis comma 2 cod. civ. ha introdotto una grande novità rispetto alla vecchia normativa codicistica: “Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti”. Il legislatore ha specificato il diritto di crescere e l’importanza dei rapporti, proprio quello che avviene nell’adolescenza: “adolescente” deriva dal verbo latino adolèscere, che significa “crescere”.

Matteo Lancini richiama: “Non bisogna trascurare alcun gesto degli adolescenti perché loro provano veramente dolore. Se un ragazzo tenta il suicidio, continuerà a pensarci; se una ragazza soffre di anoressia, continuerà a pensarci” (in un webinar del 05-02-2021). In passato le mamme “odoravano” i figli per sentirne odori sospetti, ne sollevavano il mento per guardarli negli occhi e altre “accortezze”. Oggi c’è una mania del controllo (che si pensa, per esempio, di esercitare dando precocemente ai figli il cellulare) ma non la giusta vigilanza, lo sguardo, l’attenzione, l’ascolto.

Dato il numero sempre maggiore di tentativi di suicidio e di suicidi adolescenziali e giovanili, in particolare in Italia, Lancini consiglia: “Anziché mandare i figli dallo psicologo, i genitori dovrebbero parlare direttamente con i figli e chiedere loro se hanno mai avuto idee suicide e perché” (in un convegno del 17 ottobre 2023). Assistere moralmente i figli (artt. 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.), cioè fermarsi con loro, accostarsi al loro mondo, far venir fuori le loro vere esigenze, è uno degli adempimenti più difficili per i genitori, soprattutto nel periodo adolescenziale dei figli.

Di solito i genitori si preoccupano fin troppo della protezione dei figli ma non adeguatamente del loro “ben-essere” (come, invece, richiesto nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), per cui sono in aumento fenomeni di ogni sorta, tra cui quello degli “hikikomori”, ragazzi chiusi in casa senza prospettive né di studio né di lavoro.

Un altro fenomeno inquietante è quello del “Teen Dating Violence” (TDV, letteralmente “violenza negli appuntamenti con adolescenti”, ovvero il “non amore” tra adolescenti), cui si aggiunge quella online, un aspetto critico del percorso di esplorazione adolescenziale, cioè la violenza che può caratterizzare le prime relazioni sentimentali in adolescenza e che può comportare, oltre a pericoli nell’immediato, anche problematiche nel lungo periodo. La migliore prevenzione è sempre la relazione genitoriale fatta di attenzione e ascolto (e non controllo o interrogatorio), lo sguardo d’amore dei genitori tra di loro e nei confronti dei figli, presenza, dialogo, contrasti, impegno, costanza, regole. Regole che sono state bandite anche come vocabolo per evitare possibili reazioni da parte dei bambini e ragazzi, invece vanno recuperate e rinnovate. L’adolescenza sembra essere diventata o considerata una forma di autismo.

Dato l’aumento dei disturbi del comportamento alimentare in varie forme, oltre alla più riconoscibile anoressia (per esempio il “binge eating”, disturbo da alimentazione incontrollata), a scuola gli insegnanti devono essere attenti a cogliere i segnali dei disturbi (per esempio per l’anoressia: assenze frequenti, mani fredde o rosse, mancata sudorazione, perfezionismo, abbigliamento per nascondere il corpo, stanchezza…) non per segnalarli ai genitori o agli stessi adolescenti che ne soffrono ma per dare loro uno sguardo diverso come lo avrebbero desiderato sino a quel momento e che richiedono con il loro disturbo. Quello sguardo che manca sempre più in famiglia e a scuola.

La neuropsichiatra infantile Chiara Davico puntualizza: “I disturbi propri del neurosviluppo ad esordio nei primi anni di vita rappresentano i precursori per traiettorie evolutive psicopatologiche gravi e maggiormente impattanti in adolescenza. In tale ottica promuovere il neurosviluppo, sostenendo una crescita armonica e serena, così come intervenire quando compaiono difficoltà e disturbi deve rappresentare una priorità del sistema sanitario, così come della comunità in senso lato” (il 10 ottobre 2023 in occasione della Giornata mondiale della salute mentale). I genitori devono conoscere le caratteristiche dell’infanzia e gli eventuali disturbi comportamentali (dall’aggressività al mutismo selettivo, disturbo non così raro) e come gestirli per poter, poi, affrontare il ritorno di alcune dinamiche durante l’età adolescenziale dei figli, quali chiusura in se stessi, isolamento sociale, distruttività e altro.

Spesso in età adolescenziale (e successivamente) i ragazzi seguono, si aggrappano a eroi, leader negativi perché vanno alla ricerca di coerenza e coraggio, valori di cui dovrebbero essere portatori gli adulti che, invece, sono sempre meno adulti.

Si ribadisce che l’adolescenza non è un problema ma una fase della vita in cui il ragazzo o la ragazza si proietta (o così dovrebbe essere) verso il proprio progetto di vita. E di questo devono essere consapevoli innanzitutto i genitori che hanno altresì la responsabilità di far vivere ai ragazzi l’adolescenza come un periodo fisiologico e non patologico in cui affiorano dipendenze e disturbi vari.

L’adolescenza è il momento in cui si sperimentano la libertà personale e gli altri diritti inviolabili, in cui ci si lancia nel gioco della vita, in cui si concretizza quanto scritto nell’art. 31 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: il diritto al riposo, allo svago, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie dell’età, ed a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica.

Il bioeticista Paolo Marino Cattorini dà una bella definizione: “L’adolescenza è il tempo della rinascita. A innescare la trasformazione ci pensa il corpo, che cresce in dimensioni e accoglie vissuti mai provati. Sono messe in vibrazione le certezze infantili: la rappresentazione di sé, il legame con altri, il principio della speranza, l’idea del mondo”.

Genitori alla scuola della vita

Abstract: L’articolo mette in risalto l’importanza del rispetto reciproco e di un sano distacco nel rapporto tra genitori e figli

Il pedagogista Daniele Novara afferma: “La fiducia per i bambini è la base stessa della loro crescita. Essere genitori vuol dire anche proteggere e tutelare la loro naturale «gioia di vivere», la curiosità e il gusto della scoperta. I piccoli devono tornare a giocare assieme senza pregiudizi e stereotipi che per natura non coltivano”. I figli sono un atto di fiducia della vita e nella vita e hanno bisogno di fiducia. La fiducia è spirito di vita, quello spirito da instillare nei bambini come si arguisce dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dall’art. 29 lettera d della Convenzione. I genitori, però, sembrano sempre più sfiduciati e sfibrati dal loro ruolo risultando inadeguati o inefficaci, per cui da più parti, tra cui lo stesso Novara, si parla della necessità di una scuola per genitori.

Daniele Novara aggiunge: “[…] mi auguro che i genitori continuino a cercare di essere loro stessi la principale risorsa per i loro figli, senza delegare alle etichette neurodiagnostiche la gestione dei bambini e dei ragazzi”. I genitori non devono scoraggiarsi al primo problema o contrasto con i figli e ricorrere a medici ed esperti, anche perché quest’atteggiamento diventa diseducativo. Da ricordare che “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri, essendo capaci di prendere decisioni e di avere il controllo sulle diverse circostanze della vita, garantendo che la società in cui uno vive sia in grado di creare le condizioni che permettono a tutti i suoi membri di raggiungere la salute” (da “Entrare nel futuro” della Carta di Ottawa per la promozione della salute, 1986).

Novara spiega: “L’eccesso di confidenza corporea può provocare nei bambini una carenza nel riconoscimento dei limiti e dei vincoli di autorità che si ritrova spesso nel rapporto a scuola con gli insegnanti. Ci sono alunni che sembrano disadattati nel saper vivere le figure adulte come diverse da loro stessi”. Il rapporto genitori-figli deve essere asimmetrico e con una giusta distanza, anche per un armonico sviluppo dell’identità e della personalità del bambino, altrimenti l’amore genitoriale rischia di diventare incestuoso in senso lato o, comunque, asfittico o ammorbante. Non a caso nella lettera c dell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge: “[…] inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori, della sua identità”. Emblematico è anche lo sviluppo uterino in cui il bambino riceve nutrimento dalla madre attraverso il cordone ombelicale, ma lo stesso rappresenta la distanza dalla madre.

Altrove si legge: “Aiutiamo i nostri figli ad allacciarsi le scarpe... ad attraversare una strada trafficata... ad entrare in un parco senza farsi male... I nostri figli hanno bisogno del nostro aiuto anche nel mondo digitale. Anche i bambini hanno bisogno del nostro aiuto con il mondo digitale. Dal restare al sicuro sui social media, a trovare i giochi che aiutano a sviluppare il loro cervello in modo positivo, e consentire loro di divertirsi” (dall’introduzione della guida in inglese “Genitori intelligenti nell’era digitale – Guida digitale per genitori di figli da 0 a 8 anni”, “Smart parenting in the digital age: A HOW-TO GUIDE FOR PARENTS”, pubblicata nel marzo 2019). Essere genitori è aiutare i figli, non sostituirsi ai figli né camminare davanti a loro né allarmarsi né impedire che qualcosa accada: questo ancor di più nel mondo digitale o nell’era postdigitale.

In alcune aree geografiche si deve debellare lo sfruttamento del lavoro minorile. Altrove, invece, si deve lottare contro lo spegnimento delle vite di ragazzi che stanno sempre chiusi in casa o sul divano, che non studiano né cercano lavoro e per i quali si inventano acronimi o etichette (per esempio la sigla inglese NEET, “not (engaged) in education, employment or training”, o l’espressione giapponese “hikikomori”). Oppure ci sono ragazzi che sfruttano i coetanei con atti di bullismo, in baby gang, nella baby prostituzione o altro. È sempre più doveroso l’intervento degli adulti e che facciano gli adulti, in particolare i genitori con l’esempio e con educazione che sia tale e non edulcorazione o adulterazione della realtà e della vita in generale. È quanto si ricava soprattutto dalle fonti normative internazionali, tra cui la Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro (Roma 1967) e la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare l’art. 29 dove alla lettera d si legge: “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione […]”.

“Mettiamo che debbo ammettere che mi ero fissato su un mio obiettivo, un desiderio che mi aveva mangiato l’intelligenza. Una cosa buona – ma anche no – che mi sembrava primaria. Ma era una mia produzione propria. E qualcuno mi diceva pure che stavo sbagliando e io, orgoglioso, lo mandavo a quel paese. Ecco: quando una cosa prende lo spazio del rapporto con i miei figli, non è buona, non funziona. Allora sai che ti dico: fammi mettere un po’ su un foglio di carta quale è lo spazio intoccabile per i miei figli… orari, giornate, atti che debbo fare con loro… […] E poi, sai che c’è? Che mollo il fantacalcio, và, che non c’entra proprio niente con questa priorità. E sai che fo? Io il sabato il telefono lo spengo proprio, lo accendo solo due volte in tutto il giorno, se per caso ci fosse un’urgenza che mancherei alla carità verso qualcuno, ma vengono prima i miei figli. E mi sa che mi debbo pure far aiutare a capirlo. E praticherò lo sport estremo che più temo: chiedo a mia moglie che ne pensa. Quella finisce che mi dice… e me lo faccio dire” (don Fabio Rosini). Man mano che i figli crescono, i genitori non li ri-conoscono più o rinfacciano loro di non aver mai fatto mancare nulla, eppure avranno fatto mancare la condivisione del tempo o le giuste modalità di dedizione genitoriale. Soprattutto i padri, quelli più presi da lavoro, investimenti, tecnologia, divano, sport o altri interessi, dovrebbero staccare la spina (dal proprio egoismo o orgoglio) e giocare con i figli o osservarli nel gioco. La presenza, lo sguardo, il contatto sono fondamentali e la loro mancanza causa vuoti esistenziali; ciò rientra nel dovere di assistenza morale verso i figli (artt. 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.).

In passato i bambini (ma pure nel presente) non avevano le scarpe o le avevano più piccole o più grandi dei loro piedi, con la punta bucata, risuolate col cartone. Aspettavano la domenica o la festa o la prima Comunione per mettere quelle nuove o quelle dei fratelli più grandi. Le scarpe, simbolo di crescita, cammino, cambiamento, rappresentavano una trasposizione emozionale (senso dell’attesa e della sorpresa), trasmissione di valori (sacrificio e condivisione), transizione d’età, un traguardo. Oggi, invece, i genitori tendono ad appiattire i figli anche nell’abbigliamento e nelle calzature, ad acquistare il superfluo, ad anticipare i bisogni, ad annullare i desideri, ad abbondare nelle coccole e nei vezzeggiativi, ad amplificare ogni evento e complimento, ad annientare l’attesa, ad accontentarli senza nemmeno sentirli o, peggio, senza ascoltarne le esigenze. E così i figli crescono in “sovrappeso ed obesi” in senso traslato e manifestano, in taluni casi, disturbi del comportamento alimentare o della condotta o della personalità.

“Credo nei ragazzi di oggi. Molti di loro cercano, vogliono sapere, capire, non vedono l’ora di essere aiutati a camminare da soli” (il cantautore Ivano Fossati). Bisogna dare fiato, fiducia, forza, futuro ai giovani, ovvero il meglio di sé e non cose tanto per accontentarli al momento. Come nell’immagine di Dio Creatore descritta nella Genesi e nell’affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina che ha un valore antropologico e pedagogico al di là di ogni credo religioso. La scienziata Rita Levi Montalcini “I giovani devono credere in qualcosa di positivo e la vita merita di essere vissuta solo se crediamo nei valori, perché questi rimangono anche dopo la nostra morte”. I genitori non devono dare ai figli dei contentini affinché stiano zitti, non diano fastidio, non facciano capricci, non abbiano poi nulla da rinfacciare, ma dare ai figli dei contenuti affinché nel crescere abbiano voce nella vita, possano dire la loro e non essere alla mercé degli altri o di altro. I genitori non devono contentare i figli ma contenere i figli per orientarli nella vita, come si addestra un cavallo entro la staccionata per prepararlo al seguito. I figli non devono essere la contentezza dei genitori, ma avere contentezza della loro vita. I figli non devono essere contenitori di cose (vestiti, giocattoli o altro di materiale ed effimero), ma avere contezza del valore della vita.

I genitori si preoccupano tanto della salute fisica dei figli e si alleano e si battono in caso di malattie oncologiche o invalidanti dei figli, ma non fanno altrettanto per il “cancro” o le invalidità che causano dentro i figli in caso di rapporti conflittuali o altre scelte egoistiche o deleterie. L’infanzia negata diventa, poi, età adulta “legata” o “segata”.

Lo psichiatra tedesco Manfred Spitzer scrive: “L’esperienza dell’abbandono da parte dei genitori nella prima infanzia ha conseguenze notevoli per lo sviluppo del cervello” (in “Connessi e isolati. Un’epidemia silenziosa”, 2018). I genitori devono fare attenzione ad ogni forma di “abbandono”, tra cui la violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 cod. pen.).

Un bambino di pochissimi anni d’età, poco distante dai genitori, con un ombrello più grande di lui: un’immagine simbolica di quei bambini che devono pararsi da tempeste, familiari e non, ed anche metafora del doversi preparare ad affrontare autonomamente le intemperie o intemperanze della vita.

Dalla parola “genitori” si ricava “torni” (plurale di “tornio”), perché insieme, con l’educazione coerente e corale con altri soggetti educativi, plasmano la massa della personalità del bambino che prenderà forma nel tempo. Solo, però, dalla parola al plurale “genitori” si ricava “origine”: questo è significativo per i genitori (attuali e potenziali) e per tutti.

Genitori, geni-tori: devono essere abili come geni e forti come tori e possibilmente in due, né di più né di meno. I genitori non devono, peraltro, fare i sindacalisti dei figli ma, piuttosto, i sindaci dei figli: dare orientamento all’amministrazione della loro vita, farsi aiutare da altri in questo compito, applicare la democrazia nelle relazioni, rispettare diritti e doveri di ognuno. E i figli sono e restano cittadini della loro vita.

“Il figlio è una cosa importante. - Non si finisce mai di imparare quanto!” (da una fiction). La prima cosa che devono imparare i genitori per essere genitori è che il figlio è altro da sé.