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Affidamento condiviso: una lettura del ddl 832

Sintesi: Una lettura del disegno di legge, all’esame della commissione Giustizia del Senato, alla luce dell’interesse superiore del fanciullo

Durante la XIX legislatura è stato presentato il ddl 832 “Modifiche al codice civile, al codice di procedura civile e al codice penale in materia di affidamento condiviso”, che vorrebbe applicare il vero affidamento condiviso e la cosiddetta bigenitorialità perfetta in caso di separazione/divorzio. Il suddetto disegno ha da subito suscitato non poche polemiche da più fronti, per la delicata materia (si pensi al lungo e travagliato iter della legge 8 febbraio 2006 n. 54 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”) che era stata oggetto di un precedente disegno aspramente criticato e non approvato.

Per evitare una lettura faziosa o etichettante bisogna leggere il testo alla luce della ratio legis cercando di coglierne la portata innovativa e interpretando (etimologicamente da “inter” e “pretium”) locuzioni e concetti giuridici.

L’inserimento del doppio domicilio del figlio dei separati/divorziandi (art. 1 ddl) non porta a uno sdoppiamento o peggioramento della vita del figlio ma potrebbe favorire l’esercizio del vero “diritto alla casa” del figlio (diritto di cui si trovano tracce nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, innanzitutto nell’art. 16), del vero domicilio nel senso codicistico, quale sede principale degli affari e degli interessi (ovvero della vita quotidiana) e del senso etimologico di domicilio, composto di “domus”, casa, e “colere”, abitare, in altre parole il figlio non sarebbe o non si sentirebbe più solo in visita per il fine settimana o ospite per le vacanze presso l’altro genitore non collocatario.

Degno di attenzione l’art. 2 del ddl: “All’articolo 147 del codice civile, le parole: «Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli» sono sostituite dalle seguenti: «La filiazione impone pariteticamente ai genitori l’obbligo di provvedere alla cura, all’educazione, all’istruzione e all’assistenza morale dei figli»”. Riformulazione dell’art. 147 che si aspettava già dai tempi della riforma del diritto di famiglia e che si rifà al dettato dell’art. 30 della Costituzione in cui si parla del diritto e dovere dei genitori indipendentemente dal matrimonio. In tal modo si darebbe “soggettività” ai figli e il rapporto genitori-figli è già inteso come “affidamento condiviso” proprio come nella sua natura di rapporto di fiducia (“affidamento” dal latino “fides”) e in linea anche con il riconoscimento del principio secondo cui i genitori hanno comuni responsabilità in ordine all’allevamento ed allo sviluppo del bambino (art. 18 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Apprezzabile la sostituzione dell’obbligo di mantenere i figli con quello di provvedere alla cura, che è il fulcro della genitorialità.

L’introduzione della mediazione familiare obbligatoria non sarebbe così “deleteria” visto che esiste già in altri ordinamenti giuridici e risponde ad altri provvedimenti previgenti, tra cui il Piano nazionale per la famiglia (adottato il 10 agosto 2022) in cui si legge: “Realizzare forme di supporto alle coppie e famiglie, per favorire una migliore comunicazione e gestione dei conflitti, anche in ordine alla problematica minorile”. Accettabile la spiegazione che viene data: “L’impoverimento di tale strumento è stato concordemente biasimato da tutti gli operatori del settore, che hanno reiteratamente segnalato i vantaggi di prevedere quale preliminare adempimento la mera informazione (pre-mediazione) sulle potenzialità di un eventuale percorso di mediazione prima di qualsiasi contatto con la via giudiziale. D’altra parte la previsione di tale fase extragiudiziale è in accordo con la riconosciuta generale esigenza di alleggerire il carico dei tribunali. Per l’incontro iniziale è prevista in ogni caso la gratuità, in modo da rendere il passaggio accessibile a chiunque. Inoltre, per eliminare ogni preoccupazione circa il rischio di incontrare ex partner dei quali non sia stata ancora allegata la violenza (altrimenti la mediazione è esclusa), le parti potranno richiedere di incontrare il mediatore separatamente”. In più, la mediazione familiare non è obbligatoria tout court perché sono previste varie “clausole di salvaguardia”, per esempio: “L’intervento di mediazione familiare può essere interrotto in qualsiasi momento da una o da entrambe le parti” (art. 13 ddl).

“Il nuovo articolo 316-ter del codice civile incrementa la tutela delle madri non coniugate estendendola anche ai casi di morte del nascituro. Nello specifico, dispone che se al momento del parto i genitori non sono coniugati e non convivono, il padre deve condividere con la madre ogni spesa relativa al parto e, nel caso in cui quest’ultima non abbia sufficienti risorse economiche, provvedere al suo mantenimento per un periodo di tre mesi”. Questa (e altre previsioni o novelle) non costituiscono un ritorno al passato e una considerazione della donna solo per il suo ruolo materno ma, piuttosto, un’attuazione dell’art. 31 della Costituzione, una responsabilizzazione del padre e un accoglimento della cosiddetta “sindrome perinatale” che coinvolge anche il padre. Come si è tenuto conto di entrambi i genitori nella Carta dei diritti del bambino nato prematuro (approvata dal Senato della Repubblica il 21 dicembre 2010).

Promuovere il vero affidamento condiviso e una paritetica bigenitorialità in caso di separazione/divorzio non è da intendersi come attribuzione di più poteri al padre, perché non si devono dimenticare le lotte delle madri soprattutto in passato per il riconoscimento della paternità e quelle continue in caso di violazione degli obblighi di assistenza familiare, situazione tutelata oggi dall’art. 570 bis cod. pen. “Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio”.

La bigenitorialità o, ancora meglio, la cogenitorialità dovrebbe essere intesa semplicemente come genitorialità perché iscritta nello statuto stesso della filiazione o figliolanza, come si evince dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, per esempio nell’art. 7 par. 1 diritto del fanciullo ad un nome e a conoscere in propri genitori ed essere da essi accudito, nell’art. 9 “entrambi i genitori, nell’art. 10 “suoi genitori”. Significativo, tra l’altro, quanto sancito nell’art. 8.11 della Carta europea dei diritti del fanciullo (Risoluzione A3-0172/92): “ogni fanciullo ha il diritto di avere dei genitori o, in loro mancanza, di avere a sua disposizione persone o istituzioni che li sostituiscano; il padre e la madre hanno una responsabilità congiunta quanto al suo sviluppo e alla sua istruzione; è loro obbligo prioritario procurare al fanciullo una vita dignitosa”.

Il disegno di legge, come ogni altro testo (legislativo e non), è perfettibile, sempre tenendo presente che, come in tutte le decisioni riguardanti i fanciulli, l’interesse superiore del fanciullo deve costituire oggetto di primaria considerazione (art. 3 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Quell’interesse superiore del fanciullo richiamato espressamente in pochi altri articoli nella Convenzione e proprio nell’art. 18 relativo ai genitori ove, nel par. 1, è scritto: “Nell’assolvimento del loro compito essi debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo”. A proposito di “interesse” (letteralmente “ciò che sta in mezzo”) nell’art. 3 del ddl si prescrive: “All’articolo 316, primo comma, del codice civile è premesso il seguente periodo: «La responsabilità genitoriale è l’insieme dei diritti e dei doveri dei genitori che hanno per finalità l’interesse dei figli »”. Un tentativo apprezzabile di prevenire o arginare quella mentalità adultocentrica (altra critica mossa al ddl) che, talvolta o spesso, emerge nelle scelte delle coppie, di coniugi, di partner o di genitori.

E si ricordi quanto scritto in tutta la Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori (2018), in particolare la rubrica del punto n. 1: “I figli hanno il diritto di continuare ad amare ed essere amati da entrambi i genitori e di mantenere i loro affetti”.

Nonni per sempre

Abstract: La nonnità e il diritto alla stessa trovano radici profonde nella nostra umanità e la loro importanza è riconosciuta anche da fonti normative e dalla giurisprudenza

“Nel campo della ricerca psicologica è ormai assodato che ogni essere umano, venendo al mondo, riceve non soltanto il patrimonio biologico e genetico dei propri progenitori, ma anche quello psicologico: traumi, successi, fallimenti, incidenti, perfino malattie hanno talvolta la loro origine nella storia remota dei propri antenati. In tal modo, come una catena di trasmissione, si assiste a fatti non di rado sconcertanti che possono trovare una loro spiegazione risalendo, dove è possibile, agli accadimenti del passato, accedendo all’albero genealogico della famiglia. La psicogenealogia, come metodo di indagine, è un aiuto per non limitarsi a leggere tali accadimenti in una prospettiva meramente individuale, ma per inserirli nella trama più ampia della storia familiare, riconoscendo avvenimenti del passato che continuano a influire in maniera negativa sul presente, ostacolando la realizzazione dei propri progetti e desideri” (gli esperti di psicologia Giovanni Cucci e Betty Varghese). I genitori dovrebbero tener conto degli studi della psicogenealogia e fare molta attenzione nelle loro scelte (dalla costituzione della famiglia al tipo di concepimento), non impedire ai figli di avere rapporti con i nonni o altri parenti, far conoscere le storie di entrambi i rami genitoriali perché tutto ciò influisce sulla salute e sul benessere dei figli, di cui i genitori – e non le istituzioni – sono e rimangono i principali responsabili (si leggano, tra gli altri, gli artt. 24 e 27 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Nonni e nipoti, uno dei più forti legami del cuore e che rimane per sempre nel cuore facendolo sussultare quando riaffiorano certi ricordi. Il diritto alla nonnità è uno dei diritti relazionali fondamentali dei bambini che trova vari indici normativi nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e non solo, che non si può e non si deve negare.

La legge 14 gennaio 2013 n. 10 “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani” è molto importante non solo dal punto di vista ambientalistico, in linea con l’art. 9 della Costituzione, ma anche dal punto di vista culturale. Per esempio il riconoscimento degli alberi monumentali, “patriarchi della natura”, fa venire in mente il riconoscimento dei nonni e degli avi in generale. I nonni (e in generale gli anziani) sono i pilastri della comunità: la parte più vecchia e più solida di una costruzione ma anche la parte più invisibile e trascurata, come le fondamenta di un ponte. Nonnità: consapevolezza della lentezza, della tenerezza e dell’esplicazione (e non sermoni o lezioni come sono soliti fare genitori e insegnanti) di cui ha bisogno la vita progressiva dei nipoti: un ponte intergenerazionale sul fiume della vita.

Sui nonni e sugli anziani lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro scrive: “[…] vecchi e bambini si trovano di fatto dalla stessa parte rispetto al mondo di mezzo rappresentato dalla fascia degli adulti. Come ho scritto anni fa nel mio Vecchi leoni, per un radicato pregiudizio la maturità è l’unica cosa che conta: l’infanzia e l’adolescenza sarebbero di conseguenza una mera preparazione all’età adulta e la vecchiaia un progressivo ma definitivo distacco da quel mondo di mezzo. Il pregiudizio è smentito dai tanti esempi di alleanza tra anziani e bambini che riescono spesso a intendersi a meraviglia quando scoprono di avere bisogno gli uni degli altri, ricavando tempi e spazi tutti loro. In queste vere e proprie oasi, malgrado le differenze di età, di vigoria fisica e di esperienze, vecchi e bambini vivono per qualche ora in modo molto diverso dal resto della giornata, ricordando, raccontando, facendosi domande a vicenda, giocando in casa o all’aperto. Il «tempo-che-fu» e il «tempo-che-sarà» si fondono in uno stupendo «tempo-che-è». Chi ha avuto la fortuna di vivere la straordinaria esperienza di questi «contatti del terzo tipo» tra mondi in apparenza così distanti, li ricorda per sempre con commozione e riconoscenza”. Bambini e anziani, nipoti e nonni sono quelli più vicini emotivamente perché si ri-trovano nello stesso punto del cerchio infinito della vita.

La formatrice Maria Teresa Nardi sostiene: “La festa dei nonni è occasione per fermarci, per pensare e riflettere, per ascoltare cosa si muove nel nostro cuore quando sentiamo e pronunciamo la parola nonno, nonna! Chi è bambino, ma anche chi non lo è più, sa quanto sono importanti nella vita di ciascuno. I nonni sono le radici, sono affetto incondizionato, sono tempo donato. Il loro amore illimitato, trascende gli eventi e le situazioni che la vita ci riserva: il tempo trascorso in loro compagnia è fatto di giochi, di sperimentazioni, di apprendimenti, di saperi tramandati, di calore e affetto che ci riscalderà per tutta l’esistenza. Preziosa è la loro presenza nella vita dei bambini, non solo perché rappresentano un effettivo aiuto nella frenetica quotidianità, ma soprattutto perché sono figure significative sul piano affettivo, educativo e relazionale. Le mani rugose, il profumo di borotalco, la lentezza nel fare le cose, lo sguardo rivolto verso il passato ma ancora voglioso di futuro, gli acciacchi fisici, il saper raccontare storie che incantano, la saggezza conquistata, il tempo dilatato e pregno, le lotte intraprese con la vita… sono solo alcuni ricordi che ancora mi accompagnano, se penso alla nonna con cui sono cresciuta”. I nonni sono preziosi, anche perché per la loro età e per le loro esperienze ricordano e rappresentano il prezzo e il pregio della vita.

Secondo la Cass. civ., sez. I, ord. 29.08.2024, n. 23320 non è adottabile il minore se può essere cresciuto dai nonni. In particolare, ripercorrendo una serie di precedenti pronunce importantissime, la Corte di Cassazione ha ricordato che il minore gode del diritto prioritario di rimanere nel proprio nucleo familiare di origine “quale tessuto connettivo della sua identità”. I nonni, anche se non sono stati genitori esemplari, sono essenziali per i nipoti per la costruzione della loro identità, per l’educazione alle differenze e per tanti altri aspetti. I nonni non sono sostituti dei genitori ma “genitori bis”, in altre parole nell’essere nonni non esercitano la genitorialità come nei confronti dei figli ma intessono una relazione speciale. I nonni donano un amore diverso rispetto a quello dei genitori, in alcuni casi più puro e assoluto, perché non caricano i nipoti di aspettative, ansie, ricatti

emotivi o sensi di colpa. In passato i nipoti portavano i nomi dei nonni; anche se oggi questa tradizione non c’è quasi più, i nonni sono e restano i nomi di quelle persone essenziali e insostituibili che si portano sempre nel cuore, pure quando non sono visibili agli occhi, anzi ancor di più. Perché i nonni sono quei nomi, quei ricordi che fanno venire immediatamente il nodo in gola.

Nonnità: un patrimonio esistenziale ed emozionale di cui sono depauperati spesso i bambini di oggi perché i genitori li concepiscono in età matura (per cui i nonni non ci sono più), perché i nonni sono distanti geograficamente o perché sono ostacolati i rapporti a causa di conflitti di coppia. Tra le varie disposizioni normative della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, che si possono leggere a favore della nonnità, emerge quella della lettera c dell’art. 29 in cui si legge “inculcare al fanciullo il rispetto della sua identità e dei suoi valori culturali” e i nonni sono elemento fondante dell’identità familiare e dei valori culturali, ovvero delle origini di un bambino. I bambini vanno, perciò, avvicinati, accompagnati, educati al rapporto con i nonni.

“Da piccolo nascondevo la mia ombra in quella di mio nonno. Non ho più trovato un posto così sicuro” (l’aforista Fabrizio Caramagna). I nonni sono quel ricordo cui i nipoti volgono un sorriso, anche malinconico, man mano che essi crescono ma bisogna che i genitori abbiano favorito questa relazione indispensabile.

I nonni paterni sono spesso marginalizzati, posti in secondo piano o, peggio, ignorati o evitati, ancor di più nei casi di separazione/divorzio. Anche loro, invece, sono nonni alla pari di quelli materni, punti di riferimento, storie personali e storia familiare, nel bene e nel male.

Oggi è cambiata anche la “cultura del bacio”: in passato si diceva che i bambini si baciano solo nel sonno (per eccesso di pudore o di rigore), ora, invece (indipendentemente dal pericolo pandemico), si stabiliscono tempi e modalità dei baci ai bambini da parte dei nonni o altri parenti per motivi igienico-sanitari. Il bacio, espressione della spontaneità dei bambini, dovrebbe essere altrettanto spontaneo e rispettoso nei loro confronti.

I genitori dovrebbero riflettere almeno un po’ sull’educazione sentimentale e all’affettività: si scambiano in continuazione baci con i figli, li fanno baciare con gli animali domestici, però pongono limiti ai baci con i nonni o dei nonni seguendo le nuove teorie psicologiche e pedagogiche secondo cui i bambini non devono essere baciati in tenera età sulle mani e sul volto per motivi igienico-sanitari e non devono essere costretti a baciare e abbracciare gli adulti. Eppure è così bello portare con sé il ricordo degli abbracci con i nonni: “[…] il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

“Dopo aver creato Eva, la prima donna, Dio la guardò soddisfatto perché era un capolavoro. Ma poi disse: “Posso fare meglio!”. E creò una nonna” (lo scrittore Bruno Ferrero). Bisogna consentire ad ogni nonna, materna o paterna, adottiva o elettiva, vicina o lontana, di esplicare la sua arte di nonnità (maternità bis) e realizzare un capolavoro nella relazione con i nipoti, a tutto beneficio dei nipoti. Dall’etologia si viene a sapere che le nonne orche si occupano dei cuccioli. Tutti i nipoti hanno bisogno e diritto al rapporto con i nonni (e gli adulti sono pregati di mettere da parte i loro processi mentali o altro). Il voler conoscere (nel caso di nonni defunti o lontani geograficamente) e/o frequentare (per esempio nel caso di nonni contrastati in situazioni familiari conflittuali) i nonni è un diritto dei bambini e può essere considerato un aspetto del diritto all’ascolto di cui all’art. 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Capita che coloro che non hanno nonni intessano un rapporto con nonni “elettivi”, rapporto che è ancora più particolare, perché si rinnova ogni volta con una scelta di farlo.

Solitamente i nonni sono le persone che coprono di più premure i nipoti, colmando la mancanza di tempo o di attenzione che spesso hanno i genitori. Quando inesorabilmente i nonni non ci saranno più, i nipoti non potranno ricordare i dettagli di tante premure ma il calore di ogni carezza riaffiorerà in ogni freddo della vita.

La nonnità è come un albero di noce per le sue qualità e per la sua simbologia, dalla sua maestosità al suo significato di fecondità (si pensi che il noce era considerato albero divino e che esiste sulla Terra da prima che comparisse l’uomo).

I nonni non insegnano ma da loro si impara, anche a distanza di tempo, perché i nonni (ancor di più quelli di una volta) sono patrimonio di relazioni, tradizioni, emozioni.

I nonni: nocche di dita che i nipoti ricorderanno per tutta la vita; novellieri della vita; geni della lampada di Aladino; generatori elettrici per i genitori e per le nuove generazioni.

Angeli (dovrebbe essere questo il bel significato dell’espressione giuridica “ascendenti”) pronti a intervenire, anche quando hanno le ali spezzate o anche sotto una pioggia battente, sino a diventare veri angeli in cielo. 

Il welfare culturale per i bambini

Abstract: L’articolo illustra l’importanza dell’educazione alle arti e ai saperi per la salute psicofisica e la crescita armoniosa dei bambini, di ogni bambino

“L’espressione Welfare culturale indica un nuovo modello integrato di promozione del benessere e della salute e degli individui e delle comunità, attraverso pratiche fondate sulle arti visive, performative e sul patrimonio culturale. Il Welfare culturale si fonda sul riconoscimento, sancito anche dall’Organizzazione mondiale della sanità, dell’efficacia di alcune specifiche attività culturali, artistiche e creative”. Questo è scritto su Treccani.it dal 2020 e la locuzione “welfare culturale” è una locuzione tutta italiana perché in altri Stati se ne usano altre. E il welfare culturale è quanto bisogna offrire a bambini e ragazzi, soprattutto alla luce dell’aumento dei disturbi di ogni sorta, situazioni di disagio, famiglie lacerate o in difficoltà, disamore per la scuola e mancanza di prospettive.

Promuovere il welfare culturale per i bambini è l’obiettivo della Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura, presentata a Bologna il 3 marzo 2011, ispirata all’art. 31 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, e il cui principio di base è il seguente: “I bambini hanno diritto a partecipare all’arte in tutte le sue forme ed espressioni, a poterne fruire, praticare esperienze culturali e condividerle con la famiglia, le strutture educative, la comunità, al di là delle condizioni economiche e sociali di appartenenza”. Già nell’“Agenda Seoul: obiettivi per lo sviluppo dell’educazione all’arte” del 2010 si leggeva: “Affermare che l’educazione all’arte costituisce il fondamento di un equilibrato sviluppo creativo, cognitivo, emotivo, estetico e sociale dei bambini, dei giovani e degli adulti”.

I bambini hanno tante risorse, tra cui il vero senso del dono (che è diverso da regalo che implica il concetto di restituzione), del dare qualcosa di sé, del darsi, della gratuità ma, poi, lo perdono a causa del materialismo degli adulti. Così come i bambini sono già espressione del cosiddetto pensiero divergente: sta agli adulti non offuscarlo o soffocarlo.

Mediante l’arte e la cultura (senza dover ricorrere alle varie artiterapie, dalla musicoterapia alla libroterapia o biblioterapia), invece, il bambino sviluppa quei requisiti che concorrono alla salute come intesa nella nuova definizione data dall’OMS nel 2011 (che ha riformulato quella del 1948): “La salute è la capacità di adattamento e di autogestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive”.

La prima forma di arte cui avvicinare i bambini è il teatro (art. 1 Carta di Bologna), una delle primitive forme d’arte (come si ricava dagli studi del filosofo evoluzionista Telmo Pievani) e, forse, la più completa. A scuola bisogna usare il teatro e i suoi strumenti (la cui valenza fu già evidenziata da Maria Montessori) che, però, non deve significare “teatralizzare” la lettura o altre attività.

Anziché dire quello che il teatro non deve essere a scuola, è opportuno dire quello che dovrebbe e può essere. È rendere protagonisti i bambini e ragazzi del teatro della vita, del “teatro delle relazioni”, far interpretare i ruoli provando emozioni vere (e non imparare a fingere), fornire loro linguaggi e mezzi per esprimersi, farli godere degli spettacoli circostanti (a cominciare da quelli della natura), scrivere e leggere insieme nuovi testi (quegli aspetti che emergono dalla Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura). È riconoscere un diritto dei bambini e dei ragazzi al teatro in base agli articoli 13 (espressione), 27 (sviluppo), 29 (educazione) e 31 (vita culturale e artistica) della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, articoli riferibili a ogni altra forma d’arte.

Al teatro, nell’elenco esemplificativo dell’art. 1 della Carta di Bologna, segue la poesia su cui il filologo Piero Boitani ha scritto: “[...] i confini ultimi della poesia sono la meraviglia e il silenzio. La meraviglia giace alla fonte della creatività poetica e alla fine dell’atto poetico, quando l’opera della poesia passa attraverso la vista, l’udito e l’anima del lettore. Il silenzio è il vuoto da cui la meraviglia attinge la parola e in cui la parola affonda, appena la si è pronunciata”. A scuola ciò che conta non è insegnare le poesie o farle imparare a memoria ma educare alla poesia, far vivere la poesia, condividere questa dimensione. Si realizzano così molti dei diritti naturali dei bambini e molti dei loro diritti all’arte e alla cultura.

“Le parole sono amiche preziose – afferma lo scrittore Roberto Piumini – che ci riempiono la testa e il cuore, servono per pensare, per esprimere emozioni e desideri e per imparare cose nuove”. “La poesia è uno straordinario strumento comunicativo. Aiuta ad esprimere sentimenti, emozioni, idee, ricordi, con un linguaggio spesso breve ma evocativo” (cit.). I bambini hanno bisogno di parole (e non di chiacchiere), poesia (e non di prodotti), rime (e non di volgarità), onomatopea (e non di rumori). Ogni linguaggio consente al bambino di conoscersi e conoscere, emozionarsi e emozionare.

Un altro strumento polivalente è la lettura, come spiega l’esperto Federico Batini: “La lettura ad alta voce, se proposta agli alunni in modo sistematico e quotidiano, incide positivamente anche sulle differenze legate all’apprendimento, permettendo a bambini e bambine di affrontare il proprio itinerario all’interno del sistema di istruzione, con un patrimonio lessicale adeguato. All’interno della stessa classe convivono infatti bambini con status sociali e backgrounds familiari molto differenti. Questa utilissima e stimolante convivenza se da un lato può comportare alcune difficoltà, per esempio, in una progettazione didattica che risponda ai tanti e diversi bisogni del gruppo-classe, dall’altra permette di cooperare per individuare le difficoltà e rafforzare gli apparati strumentali, in modo da consentire a tutti e a tutte di approfittare dell’esperienza di apprendimento” (in un articolo del 22 maggio 2023). La lettura ad alta voce da parte degli adulti non è un’esperienza diretta solo alla scuola dell’infanzia ma è da continuare e praticare anche dopo e oltre la scuola dell’infanzia. Migliora la relazione educativa, il processo insegnamento-apprendimento, offre a tutti le stesse opportunità, abbatte gli ostacoli o spauracchi della lettura, fa esperire i diritti dei bambini all’arte e alla cultura.

“Le fiabe sono un genere narrativo che da sempre accompagnano i più piccoli nella crescita personale perché conservano un significato educativo-formativo intrinseco” (cit.). Gli adulti non devono mai stancarsi di leggere fiabe e favole classiche (e di raccontare e raccontarsi) per la polivalenza di questo genere di lettura, dall’educazione all’ascolto allo sviluppo del linguaggio e della fantasia. La lettura di fiabe consente di metter in pratica le indicazioni della Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura.

Leggere ai bambini: “Si chiude il libro, si aprono le storie”. Dopo la lettura dare spazio e ascolto alle domande, alle curiosità, alle considerazioni dei bambini. Così a scuola e anche in famiglia.

“Piccoli lettori oggi, adulti liberi e curiosi domani” (cit.). Lettura è cultura, natura, radura in cui adagiarsi, altura da cui vedere nuovi orizzonti... La lettura giova agli adulti che leggono e ai bambini e ragazzi che ascoltano perché è creare un circolo di emozioni, sogni, viaggi, avventure, ricordi.

Da leggere anche la Costituzione della Repubblica Italiana: “Il dovere di leggerla e poi, possibilmente, quello di attuarla. Fuor di battuta: la Costituzione italiana è un grande esercizio di equilibrio e inclusione. Anche quando pensiamo che manchi qualcosa, in realtà, nelle virgole c’è. Se da domani tutti iniziassimo a fare quello che c’è scritto, questo Paese cambierebbe in un modo impressionante. La Costituzione italiana è rivoluzionaria: peccato che la attuiamo a spizzichi e bocconi” (l’attore Federico Feliziani che, con il “Teatro Camelot”, ha messo in scena la Costituzione Italiana). La Costituzione italiana è ancora attuale e speciale. Se la si leggesse a scuola o la si portasse al livello dei bambini e ragazzi, mediante linguaggi a loro adeguati (per es. si veda la Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura), la si renderebbe Costituzione vivente e la scuola sarebbe davvero fondata sui principi costituzionali.

Uno degli articoli più “programmatici” della Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura è l’art. 6: “I bambini hanno diritto ad avere un rapporto con l’arte e la cultura senza essere trattati da consumatori ma da soggetti competenti e sensibili” (art. 6). Mentre per gli adulti si parla dei diritti dei consumatori, di consumatori intelligenti, di “prosumer”, ci si dimentica di tutelare adeguatamente i diritti dei bambini e dei ragazzi come consumatori perché, spesso o troppo spesso, sono solo destinatari passivi del marketing e delle scelte dei genitori. Per esempio i genitori li mettono precocemente davanti a cellulari, tablet o altri schermi per farli mangiare o per farli star buoni quando si è in compagnia, in fila alle casse di un supermercato o si è impegnati in altro. Potrebbero, invece, dar loro riviste da sfogliare, cataloghi d’arte per meravigliarli, libri adatti alla loro età, giornali da strappare, fogli da scarabocchiare…

La famiglia riveste un ruolo prioritario e insostituibile in ogni aspetto della vita dei bambini come riconosciuto anche nella Carta di Bologna, nell’art. 7 e specificatamente nell’art. 9 in cui si legge: “[…] condividere con la famiglia il piacere di un’esperienza artistica”. A proposito di condivisione la psicologa Angela Camelio spiega: “[…] i viaggi in famiglia non sono solo divertenti, ma anche estremamente benefici per lo sviluppo e il benessere di tutti i membri della famiglia. Offrono opportunità uniche di crescita personale, creazione di legami e apprendimento esperienziale. Pertanto, investire in esperienze di viaggio con la propria famiglia può essere uno degli investimenti più preziosi che si possano fare per il proprio benessere e quello dei propri cari. I viaggi possono aiutare le persone di tutte le età a scoprire nuove passioni, abilità e interessi. Esplorare ambienti diversi può portare a scoperte sorprendenti su sé stessi e sugli altri membri della famiglia”. Fare famiglia è intraprendere un viaggio insieme, per cui fare di tanto in tanto un viaggio (senza farsi prendere dalla frenesia di farli) in famiglia (anche nella terra d’origine dei genitori) non può che contribuire a conoscersi e conoscere, diventa anche un esercizio dei diritti (e doveri) dei bambini.

Un altro evento che consente la condivisione artistico-culturale in famiglia è il Natale, indipendentemente dalla professione di fede (tanto che esiste l’antropologia culturale del Natale). La pedagogista Graziella Favaro esplica: “Possiamo dedicare questo tempo di Avvento per coltivare l’attesa, insegnare ai bambini ad aspettare, a sviluppare la capacità di attendere e di sospendere la soddisfazione immediata. È uno dei modi per superare o prevenire la modalità compulsiva di chiedere, ottenere e poco dopo mettere da parte. E possiamo sollecitare invece la capacità di entrare in contatto con se stessi, condividere, ritualizzare. Aspettare vuol dire guardare avanti, sviluppare l’immaginazione, dare spessore al tempo che accoglie il desiderio e consente di raccontarlo a se stessi. Attendere vuol dire rompere quel circuito senza senso e senza stupore che costringe a passare dalla richiesta alla soddisfazione immediata, per rivolgersi subito dopo ad altre richieste e ad altri oggetti. L’attesa inoltre insegna la tenacia e genera la forza di custodire, coltivare e realizzare i propri desideri”. Il Natale, anche in una scuola laica, può essere un’occasione di promozione dell’arte e della cultura in linea con l’art. 34 comma 1 della Costituzione: “La scuola è aperta a tutti”.

L’art. 9 della Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura è stato davvero lungimirante, fa da fondamento alla pratica dell’affido culturale, un progetto di contrasto alla povertà educativa in cui alcune famiglie accolgono temporaneamente bambini per accompagnarli al cinema, teatro o in altre esperienze similari, e alla pratica della prescrizione sociale, secondo cui alcuni medici non prescrivono farmaci o terapie ma visite nei musei o altri esperienze artistico-culturali oppure sono i medici stessi che propongono un uso alternativo di certi ambienti, come per esempio alcuni pediatri che spostano le loro visite nelle biblioteche fissando l’appuntamento un’ora prima con la famiglia in modo tale che genitori e figli condividano, durante l’attesa, un’esperienza di ricerca e lettura.

L’esercizio dei diritti all’arte e alla cultura da parte dei bambini promuove e garantisce anche i loro diritti naturali, i loro diritti psicologici e i loro diritti comunicativi. Alberto Pellai, nel “Decalogo per proteggere i nostri bambini” (2018), scrive: “7. Diritto ad essere educati alla bellezza. Bellezza delle parole, bellezza delle immagini, bellezza delle relazioni, bellezza della natura. Città grigie e inquinate, canzoni e film pieni di situazioni e parole ostili e volgari; musei, cinema e teatri con costi elevatissimi per genitori che ci vogliono accompagnare i figli: come possono i bambini imparare ad amare il bello quando non è loro reso accessibile e disponibile?”.

Diritti dei bambini all’arte e alla cultura: accompagnare i bambini lungo le strade dell’arte e non ridurli solo a colorare o completare fotocopie e farli diventare fotocopie. Bambini: educare all’arte, estrapolare la loro arte, educare alla bellezza, estrapolare il bello. Perché così è l’infanzia, così è la vita (e non solo perché è stata pubblicata la Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).

Cultura: scultura della mente, agricoltura del cuore. 

Ai figli

Sintesi: È necessario e doveroso dire no ai figli ma è necessario che gli adulti imparino a dire no (dapprima a se stessi)

Abstract: L’atteggiamento tenuto dai genitori nei confronti dei figli non sempre li aiuta a crescere, l’articolo dà conto degli errori più diffusi e offre loro spunti per acquisire una maggiore consapevolezza di come si è con i propri figli

La famiglia è passata dall’essere normativa all’essere affettiva, ma dando solo e indistintamente affetto diventa anaffettiva e anarchica perché si annulla ogni ruolo, ogni confine, ogni differenza e, poi, i figli si perdono nel labirinto della vita e i genitori rischiano pure di trovarseli contro, come spesso avviene. La saggista e storica Lucetta Scaraffia scrive a tale proposito: “La fine dell’alleanza tra insegnanti e genitori va infatti di pari passo con la totale rinuncia delle famiglie a educare i figli, cioè ad assolvere a quel compito, spesso ingrato e sgradevole, di insegnare ai figli la buona educazione, i buoni comportamenti, l’impegno nello studio”.

Scaraffia chiosa: “I ragazzi che senza alcuna fatica hanno avuto tutto quello che desideravano, ogni oggetto che la pubblicità ha loro suggerito di chiedere, che non hanno mai obbedito a una richiesta che non gli garbava, che non hanno rinunciato a niente per ottenere un bene maggiore, sono destinati a una vita di frustrazioni, e queste possono divenire intollerabili”. Prima della riforma del diritto di famiglia del 1975 esistevano gli istituti di correzione per i figli (art. 319 codice civile previgente). Oggi molti genitori non correggono più i figli ma concedono tutto, anzi anticipano tutto senza nemmeno far esprimere ai figli i loro desideri e bisogni “castrando” la loro libertà di espressione (art. 13 Convenzione).

Lo studioso gesuita Giovanni Cucci riporta: “Nel 2013 […], il comico statunitense Luois C. K. (nome d’arte di Louis Székely) spiegò perché non riteneva opportuno comprare un telefonino per le sue due bambine. Tra le varie motivazioni, indicava la necessità di prendere contatto con la tristezza, ascoltandola, senza cercare di fuggirla con espedienti elettronici. Tale valutazione nacque da un’esperienza personale che lo segnò profondamente: «Ho cominciato a sentire quella tristezza e ho afferrato il cellulare, ma poi mi sono detto: “Sai una cosa? Non farlo. Sii triste e basta. Apri la strada alla tristezza e lascia che ti investa come un camion”. Così ho accostato [l’auto] e ho pianto come un disperato […]. Poi però ho cominciato ad avere una sensazione di contentezza, perché, quando ti abbandoni alla tristezza, il tuo corpo produce come degli anticorpi che si precipitano verso i sentimenti tristi. Eppure, solo perché non vogliamo quella prima sensazione di tristezza, cerchiamo di mandarla via con i nostri telefoni. In questo modo non ci sentiamo mai completamente felici né completamente tristi. Ci sembra soltanto di essere soddisfatti dei nostri prodotti tecnologici. E poi… poi si muore. Ecco, questo è il motivo per cui non intendo comprare un cellulare alle mie figlie». Ai figli non bisogna dare tutti i mezzi ma equipaggiarli delle competenze giuste affinché siano capaci di trovare i mezzi necessari, di volta in volta, per andare avanti. “Il bambino possiede in lui delle importanti risorse. Esse si rivelano se egli può dialogare, essere ascoltato con affetto e rispetto, essere difeso. […] Il bambino ha bisogno di essere protetto, nutrito, curato e istruito. Il suo benessere psicologico è altresì essenziale” (dalla Charte du BICE, Paris 2007).

“Impariamo a dire dei “no”. Cerchiamo di non assecondare ogni richiesta o desiderio nell’immediato. Proviamo a motivare il nostro rifiuto in modo tranquillo, spiegando ai bambini che non sempre possono ottenere tutto subito e che è importante comprendere anche le necessità delle persone a loro vicine” (un’équipe di esperti). È necessario e doveroso dire no ai figli ma è necessario che gli adulti imparino a dire no (dapprima a se stessi) e se e quando vanno spiegati o motivati perché i figli devono abituarsi a ricevere no dagli altri, dalla scuola, dalla vita, quei no che non sempre sono seguiti da spiegazioni o motivazioni. Come i divieti del codice stradale vanno rispettati perché dietro c’è una logica che può sfuggire. Nell’art. 5 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge che bisogna impartire al fanciullo, in modo consono alle sue capacità evolutive, l’orientamento e i consigli necessari all’esercizio dei diritti che gli riconosce la Convenzione, diritti cui corrispondono pure dei doveri, perché questo comporta l’essere cittadini.

Ai figli non si deve dire sempre sì, spianare la strada, difenderli a spada tratta, pianificare gli impegni, accompagnarli da una parte all’altra e altro ancora. Non sono oggetti ma soggetti, non vanno “oggettivizzati” ma “soggettivizzati”, altrimenti significa tarparne le capacità e determinarne l’immaturità. I figli non sono fiori recisi da mettere in un portafiori per porlo dove si vuole e farne quello che si vuole. Non sono piante da appartamento da tenere sul davanzale della finestra per abbellirlo. Né piante da cortile per arricchire il proprio giardino. Sono piuttosto da considerare “rose di Gerico”, soggette a spostarsi, ad aprirsi e chiudersi, pronte ad ogni adattamento e “simbolo di resurrezione, serenità, prosperità e buona sorte” (quello che dovrebbero rappresentare i figli). “Considerato che occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Essere genitori è dare la vita e la propria vita, morire a se stessi per far vivere i figli. I genitori non devono né designare né disegnare la vita dei figli, ma semplicemente consegnarla loro: questa una loro primaria responsabilità perché ne risponderanno per sempre ai figli. Lo psichiatra Paolo Crepet afferma: “Genitori ricchi possono valere due generazioni, genitori geniali invece possono valere quattro generazioni” (in un webinar del 15 ottobre 2021). I genitori non devono dare ma dotare, non devono fornire ma tornire, non devono trasferire ma trasmettere. L’eredità da lasciare ai figli non deve essere il patrimonio ma l’educazione: non cose e case ma il vero senso delle cose e delle case, non cartevalori ma valori, non azioni e obbligazioni ma relazioni ed emozioni. Non a caso l’obiettivo ultimo dell’educazione come enucleata nell’art. 29 della Convenzione è inculcare nel fanciullo il rispetto per l’ambiente naturale, ovvero per tutto e tutti.

Tra le buone pratiche genitoriali vi è il dialogo stando seduti intorno allo stesso tavolo, dove anziché chiedere ai figli “Com’è andata oggi a scuola?” o “Cosa ti sta succedendo?”sarebbe meglio chiedere “Come ti sei sentito oggi a scuola?” o “Cosa stai provando?” (diritto all’ascolto, art. 12 della Convenzione). Si tutela così anche il diritto alla salute dei figli. La formatrice Silvia Iaccarino spiega: “Molti genitori, per esempio, spesso al momento della cena fanno un gioco per cui a turno ognuno racconta una cosa piacevole ed una spiacevole della giornata, partendo proprio da se stessi. Così, parlando prima di sé, da un lato si dà il buon esempio e dall’altro si suscita l’attenzione e l’interesse del bambino, il quale a sua volta inizierà ad aprire i suoi cassetti della memoria ed a raccontare di sé. A questo punto sarà importante che gli adulti accolgano i suoi racconti ascoltando attivamente e dando valore e considerazione alla sua narrazione. In questo modo, tra l’altro, oltre a favorire la comunicazione reciproca, il bambino “guadagnerà” in autostima, sentendosi appunto ascoltato e considerato, elementi che concorrono a produrre un aumentato senso del proprio valore”.

I genitori sono tali rispetto ai figli per cui il loro compito è generare la vita e non generalizzare (come quando parlano banalmente di amore o chiamano tutti indistintamente “amore”), gemmare e non geminare (ovvero non è semplicemente riprodursi). I genitori devono tener conto delle differenze tra loro e i figli, delle differenze tra figli dello stesso nucleo familiare e ancor di più tra quelli nati in famiglie diverse. Non basta decantare l’amore, ma non dovrebbero mai scindere la consapevolezza dalla responsabilità.

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro sottolinea: “La salvaguardia della rete di relazioni del bambino o, comunque, della continuità con il mondo dei suoi affetti non è qualcosa in più rispetto alla cura: è già buon accoglimento, rientra appieno nel diritto alla salute che è fisica, psichica e relazionale”. Non esistono il diritto ad avere un figlio né altri diritti verso i bambini ma il contrario, il diritto di ogni bambino ad avere i genitori, relazioni con i nonni, con altre figure di riferimento e che siano sane relazioni ed è questa la sempre nuova cultura dell’infanzia introdotta e promossa dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Quando si dice di voler bene ai figli o che si tiene ai diritti dei bambini si tenga conto autenticamente di ciò e che non sono vane affermazioni ma è dare voce e vita ai bambini.

Scaparro aggiunge: “[...] diventare viandanti fertili del mondo, cercatori e produttori di senso” (nel libro “Il senno di prima”). Una locuzione che si addice ai genitori che non sono depositari di alcun segreto della vita e non hanno alcuna bacchetta magica per prevenire o risolvere i problemi ma trasmettono la vita e insieme ai figli seguono e danno senso alla vita.

“La nostalgia che ho serbato nel cuore in tutti questi anni è un senso ipertrofizzato dell’infanzia perduta” (lo scrittore russo Vladimir V. Nabokov). Perdere l’infanzia è perdere il meglio della vita, far perdere l’infanzia ai figli è il peggio che si possa fare nella vita, come succede nella violenza domestica, nelle separazioni conflittuali, nella genitorializzazione dei figli e tante altre situazioni.

I figli non devono portare la felicità ai genitori né i genitori devono portare a tutti i costi la felicità ai figli. Bisogna, invece, circondarsi e circondarli di un’atmosfera di felicità, amore e comprensione (come si legge nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Genitori: non solo dare alla luce i figli ma dare luce ai figli.

Il diritto dei bambini alla casa

Abstract: L’articolo mette in luce la fitta trama dei valori relazionali propri dell’ambiente domestico che si configura come vero diritto per i bambini

La casa non è un immobile ma Calore, Ascolto, Sostegno, Amore (e altro ancora). Quello per cui si lavora, si lotta, si vive. La casa ha bisogno di fondamenta e di pilastri. “Casa” è il significato etimologico di “famiglia”, perché secondo i più deriva dall’osco “faama”, l’insieme dei famuli, i servitori di casa. Casa e famiglia dovrebbero tornare a identificarsi in quell’unità familiare di cui all’art. 29 comma 2 della Costituzione. Altresì nel greco antico il termine “òikos” significava casa, famiglia e comunità, struttura fondante della società.

La consulente familiare Emma Ciccarelli spiega: “L’abitare è infatti relazione. Una relazione che ci interpella fin dall’inizio della vita: lasciamo un ambiente caldo e sicuro che abbiamo abitato per nove mesi, il corpo della madre, per cominciare ad abitare il mondo. Come esseri umani abbiamo conosciuto fin dal primo battito l’esperienza di uno spazio tutto nostro e gesti di accoglienza e cura. Sappiamo tutti quanto ha contato per ciascuno di noi l’essere stati accolti in una casa e in una famiglia: le ferite di chi non ha vissuto positivamente questa esperienza sono lì per ricordarcelo. Sono importanti, in famiglia, i gesti della cura quotidiana che serviranno poi ai figli, in termini di sicurezza e autonomia, a varcare la soglia di casa capaci di abitare altre realtà” (in un intervento di maggio 2024). I bambini hanno diritto ad abitare, che è più del semplice diritto alla casa. Il verbo “abitare” deriva dal latino “habere”, “avere, tenere”, per cui è qualcosa che si porta dentro, su di sé, come gli abiti e le abitudini, come tutto quello che si vive, si respira, si consolida quotidianamente nella casa di famiglia. La casa diviene cassa di risonanza di quello che vi si vive o non vi si vive. Così soprattutto per i bambini e in particolare la casa dei nonni o di altre figure adulte significative dove i bambini si sentono a casa e in cui ritrovano quei riti di cui hanno bisogno. Casa per i bambini è abitazione: habitat, “habit” (in inglese), abitudini, abiti, abiti mentali. Aspetti spesso trascurati dai genitori nelle loro scelte.

“Per vivere abbiamo bisogno di pochissime cose: un po’ di pane, un po’ di affetto e un luogo dove sentirci a casa. La casa è dove qualcuno ti attende; dove se uno ti guarda, ti guarda davvero; dove se qualcuno ti tocca, ti tocca davvero; dove qualcuno ti bacia e ti senti bello; dove si impara a vedere gli altri con amore, come li vede Dio. […] Il miracolo si addice alla casa; e, viceversa, la casa è grembo di miracoli, quotidiani ma non minori, con il suo calore accogliente, le mura che abbracciano, la fiducia reciproca. La casa è il santuario dell’atto umano del credere, esperienza prima della fede-fiducia che prepara ogni fede religiosa. Nella casa la fiducia e l’amore celebrano la loro festa. Per questo ogni persona ne è illuminata, ogni tristezza ammansita” (il teologo Ermes Ronchi). La casa ha una dimensione immateriale, spirituale, rituale e di questo devono essere consapevoli i genitori nello stabilire la residenza abituale del minore (art. 316 comma 1 cod. civ.) e

nelle vicende di separazione e divorzio (art. 337 sexies cod. civ.). La casa è luogo di cura, di salute, come in più punti ribadito nella Carta di Ottawa per la Promozione della Salute (1986): “Le condizioni e le risorse fondamentali per la salute sono la pace, l’abitazione, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l’equità. Il miglioramento dei livelli di salute deve essere saldamente basato su questi prerequisiti fondamentali”; “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri, essendo capaci di prendere decisioni e di avere il controllo sulle diverse circostanze della vita”. Condizioni non sempre garantite nella vita dei bambini, a cominciare dall’Italia, come emerge da vari atti tra cui il Rapporto CRC 2023 “I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia”. In casa, purtroppo, alcuni bambini e ragazzi sono vittime di violenza domestica o assistita, vivono isolati nella propria camera, sviluppano dipendenze o disturbi della personalità, non ricevono adeguate cure, vivono in condizioni malsane, non hanno propri spazi o esistono altre situazioni deprivate. Situazioni descritte nelle fiabe classiche in cui era quasi sempre presente una casa con tutta la sua simbologia, dalla casa della nonna di Cappuccetto Rosso alla casa dell’Orco in Pollicino.

A proposito di vita domestica il pedagogista Daniele Novara richiama: “Si vuole fare il contrario di quello che ci è stato fatto, a prescindere dalla giustezza della causa. Succede così che il bagno di casa diventi una specie di campo nudisti dove, a qualsiasi età, si entra e si esce con naturalezza. Succede che siano i figli a segnalare il disagio di queste condivisioni corporee, evidenziando un bisogno di privacy che già i genitori avrebbero dovuto riconoscere come legittimo”. Il fondamento primo del diritto dei bambini all’abitazione è l’art. 16 par. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’infanzia, ove si parla di “sua vita privata”, per cui è necessario che il bambino sin dalla tenera età percepisca e viva questa sfera privata. Così come “casa” è dove il fanciullo “deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), dove “conoscere i propri genitori ed essere da essi accudito” (art. 7 par. 1 Convenzione). Quanto ribadito nell’art. 1 L. 184/1983 “Diritto del minore ad una famiglia”: “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia”. E successivamente nell’art. 315 bis comma 2 cod. civ.: “Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti”. Quella “base sicura” di cui ha parlato per primo lo studioso John Bowlby: “La caratteristica più importante dell’essere genitori è fornire una base sicura da cui un bambino o un adolescente possa partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato”. Relazioni, protezione, sicurezza, che si costituiscono nella casa di famiglia da cui crescendo non si vede l’ora di andar via ma cui si fa

ritorno, soprattutto in caso di problemi, come alcuni figli adulti fanno in caso di separazione dal loro coniuge.

In linea con precedenti decisioni, la Prima Sezione Civile della Cassazione con l’ordinanza n. 16691 del 17 giugno 2024 ha precisato che l’assegnazione della casa familiare si estende anche ai mobili ed arredi, essendo indissolubilmente legata alla collocazione dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti. Secondo la Suprema Corte, infatti, i figli hanno diritto di conservare “l’habitat domestico” nel quale sono nati o cresciuti, composto delle mura e degli arredi. È quanto rimarcato nella Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori, in particolare nell’art. 6: “I figli hanno il diritto che le scelte più importanti su residenza, educazione, istruzione e salute continuino ad essere prese da entrambi i genitori di comune accordo, nel rispetto della continuità delle loro abitudini. I figli hanno il diritto che eventuali cambiamenti tengano conto delle loro esigenze affettive e relazionali”.

L’economista Luigino Bruni presenta un’altra prospettiva di “casa”: “Se non si impara a casa, e nei primi anni di vita, il valore della gratuità, cioè il valore infinito del lavoro ben fatto, da adulti saremo mossi solo dal denaro e non saremo buoni lavoratori. Ed è davvero un programma di vita troppo triste, perché mancherà la dimensione più importante del vivere: la libertà, inclusa la libertà dagli incentivi, per poter fare quelle scelte che sono giuste e buone”. Tutto comincia a casa, dall’educazione finanziaria a quella civica, la scuola interviene e può intervenire solo in parte. Ecco il senso di educazione o rieducazione dei figli insito nella permanenza in casa a carico del minorenne, tra i “provvedimenti in materia di libertà personale”, ai sensi dell’art. 21 del D.P.R. 22 settembre 1988 n. 488 “Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”.

In passato la casa era luogo di relazioni intergenerazionali e parentali, dimensione sempre più rara, cui in alcune città si cerca di rimediare con i cosiddetti condomini sociali o solidali. “«A Casa di Zia Jessy» [a Torino dal 2008] è un condominio solidale in cui vivono anziani, donne sole con figli e giovani in uscita da percorsi di riabilitazione sociale. Si tratta di un’esperienza di housing sociale centrata sull’inter-generazionalità, ovvero sulla combinazione e lo scambio di servizi fra persone di diverse fasce d’età. Grazie alla cooperazione fra generazioni, esperienze di questo tipo mirano ad attivare processi di reciprocità, condivisione e scambio. Tutto questo si basa su un’idea di welfare generativo: chi è coinvolto non è un semplice fruitore di servizi ma è un soggetto attivo le cui capacità e competenze devono essere valorizzate affinché possano generare servizi a partire dallo scambio intergenerazionale di conoscenze, competenze e piccoli lavori” (da un’intervista del 23 aprile 2018 a cura della ricercatrice Chiara Agostini). Un esempio concreto di applicazione dell’art. 2 della Costituzione.

Il sociologo Francesco Belletti osserva: “Ogni casa (e ogni città, in fondo) si costruisce con un limite, con un perimetro che delimita il dentro e il fuori. In analogia, c’è un dentro e un fuori anche della famiglia, qualunque sia il suo modello. Sarebbe illusorio immaginare una casa (o una famiglia) senza confini. Tuttavia questi confini possono essere aperti o chiusi, permeabili o impermeabili, possono avere varchi, porte e finestre più o meno aperti. Le persone – e tutte le società, il mondo intero – sono oggi sfidate a rivedere i propri confini, per far sì che questi possano e sappiano essere sia un limes (confine) definito, non incerto né ambiguo, sia un limen (porta), una soglia che si può attraversare, attraverso cui ci si incontra, da cui si può uscire verso gli altri e in cui gli altri possono entrare” (in un articolo del 5 dicembre 2024). La casa così descritta è metafora anche della persona (e pure dell’educazione): apertura o chiusura, libertà e limiti, rispetto di sé e dell’altro. In passato esistevano i rapporti di vicinato, c’era la chiave inserita nella serratura della porta per essere aperta dall’esterno, si dava da mangiare anche ai figli degli altri facendoli sentire a casa. Oggi, invece, per problemi di sicurezza pubblica, per individualismo e altro, le famiglie tendono a incistarsi e a considerare i loro figli migliori degli altri, addossano le responsabilità agli altri, sono sempre più fragili e lacerate. Urge che la famiglia ritrovi il suo significato etimologico e esistenziale secondo i principi costituzionali, innanzitutto quello di solidarietà. Non si deve indurre i bambini e i ragazzi all’isolamento sociale incutendo timore verso l’alterità e l’alienità.

La scrittrice Mariapia Bonanate sottolinea: “La casa che abitiamo, ma anche quella che sogniamo. La casa come spazio fisico, ma anche luogo dei nostri pensieri più segreti, dei ricordi, delle stagioni della vita. La casa degli altri con le loro storie che filtrano attraverso le persiane chiuse, le voci che arrivano, i rumori, gli odori che i muri traspirano. La casa come microcosmo di un’umanità nei cui destini individuali e collettivi s’incrociano dimensioni interiori e comportamenti universali”.

Famiglia: mettere su casa, essere casa, essere a casa.