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In-segnare non è as-segnare ma con-segnare

“Chi insegna deve stare bene attento a non predicare più di quanto può capire chi ascolta. Deve imporre a se stesso un limite e scendere al livello di chi ascolta, perché, se dice ai piccoli cose sublimi, i suoi discorsi saranno inutili e risulterà che è più preoccupato di ostentare se stesso che di aiutare chi ascolta”. Così scriveva il papa Gregorio Magno alla fine del VI secolo d. C. sull’arte della comunicazione. Incisiva la locuzione “scendere al livello di chi ascolta” che, poi, è stata riformulata dal pediatra e pedagogista polacco Janusz Korczak: […] bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli. […] essere obbligati ad innalzarsi fino all’altezza dei loro sentimenti”. Almeno ogni tanto bisognerebbe imparare dai bambini, anziché pretendere di educare/insegnare soltanto, e questo lo si può fare nel dialogo, variamente definito “educativo”, “euristico”, “ermeneutico”. Stare con i bambini fa essere bambini che non significa né rimanere bambini né tornare bambini ma vedere le cose dal basso in tutta la loro magnificenza.

Il linguaggio dei bambini fa sorridere ma anche riflettere perché intriso di spontaneità e autenticità, è la vera comunicazione senza se e senza ma. I bambini, pur essendo balbuzienti della vita, sono un banco della scuola della vita, per cui hanno bisogno di sapienti educatori e non di saccenti insegnanti.

“Penso che nel libro sia solidificata, in maniera senza eguali, la ricchezza dell’umanità, la grandezza dell’immaginazione, la capacità di guardare a noi stessi e di raccontare agli altri” (il giornalista Marino Sinibaldi). Più che insegnare materie, ai bambini occorre consegnare la materia prima: la vita.

A proposito di materie, la materia che a scuola è spesso resa ostica e invisa è la matematica. Di ciò si è occupato il pedagogista Camillo Bortolato: “Dov’è la matematica ? Non a scuola, ma nel biberon. Quando il latte aumenta hai il senso della addizione, quando diminuisce ecco la sottrazione”. Etimologicamente “matematica” deriva da un verbo greco che significa “imparare”; essa è insita nella realtà, nella vita, per cui tocca agli insegnanti non presentarla come disciplina astratta e ostica. Se si mira a sviluppare la mente matematica (e non solo numerazione e operazioni) si rende la matematica più simpatica. La matematica è un linguaggio ed elemento culturale per cui i bambini ne hanno diritto, anche secondo la Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (Bologna 2011).

Come rendere meno noiosa la matematica? Considerarla parte della vita quotidiana e insegnarla anche mediante la scrittura creativa.

Il lavoro dell’insegnante non deve essere scelto né come un comune impiego né, meno che mai, per ripiego, deve essere scelto per coerenza e con consapevolezza e non perché non si siano realizzati i propri sogni “individualistici” (diventare un letterato o un libero professionista affermato) ma per realizzare i propri sogni “personali”, per esempio contribuire alla costruzione di una società migliore, quel “progresso materiale o spirituale della società” di cui all’art. 4 Cost.. I bambini e i ragazzi hanno diritto non a insegnanti buoni o buonisti ma a buoni insegnanti.

L’insegnante deve essere foriero di “vento emozionale”, deve essere vento emozionale, deve provare e suscitare emozioni. Insegnare è far eruttare la lava da ogni bambino (anche da quello che sembra spento) affinché possa trovare la sua strada. Tra le qualità necessarie per l’insegnante: ascolto, entusiasmo, istinto, osservazione, unità (del sapere).

All’insegnante è richiesta professionalità e non professionismo, anche nell’individuazione e nell’approccio con bambini con vari disturbi, sempre più diffusi.

Secondo gli esperti “È importante sia per i genitori che per gli insegnanti, essere capaci di riconoscere tempestivamente i disturbi specifici dell’apprendimento, che se non riconosciuti in tempo, si trasformano in vere e proprie difficoltà scolastiche che generano un’elevata frustrazione nel bambino, rischiando di demolire la sua autostima. Gli insegnanti rappresentano un elemento preziosissimo nel riconoscere e fronteggiare i DSA, dato che gli indicatori di rischio sono rilevabili soprattutto attraverso l’osservazione degli apprendimenti degli alunni, da parte degli stessi. Proprio per tale ragione, è assegnato un ruolo fondamentale alla capacità di osservazione degli insegnanti nel contesto scolastico, sia per il riconoscimento di un potenziale disturbo specifico dell’apprendimento e sia per individuare quelle caratteristiche cognitive su cui puntare per il raggiungimento del successo formativo” (cit.). Le conseguenze e le difficoltà correlate alla dislessia o ad altri D.S.A. o B.E.S. sono talvolta causate dalla “dislessia” degli adulti di riferimento e della scuola.

Nel processo di apprendimento l’insegnante non deve essere re ma regista, non autore ma fautore, non protagonista ma antagonista (come lo è il muscolo antagonista), non attore ma fattore.

L’insegnante innovatore: “Aderisce profondamente, con la mente e col cuore, ai principi della Costituzione repubblicana” (da “Cinque passi per una scuola inclusiva” di Roberta Passoni e Franco Lorenzoni, 2019). L’insegnante è un cittadino qualificato che aiuta i giovani cittadini a essere tali nell’esercizio quotidiano della cittadinanza.

Sempre sull’insegnante innovatore: “Parte sempre dal pensiero dei bambini e dei ragazzi, ascolta le loro idee, i loro pensieri, le loro emozioni, i contenuti delle loro osservazioni” (op. cit.). Una delle peculiarità dell’insegnante è la cura educativa.

Nelle scuole si applicano il cooperative learning e altre metodologie affini per migliorare l’apprendimento e l’ambiente relazionale. Proprio quello che, spesso, non si fa tra colleghi insegnanti, a ogni livello (dal collegio docenti alla contitolarità della classe) tra cui esiste, invece, un’insana competizione o clima ostile dimenticando i principi costituzionali, dalla libertà di pensiero alla scuola aperta a tutti (artt. 33 e 34 Cost.), su cui si realizzano progetti a scuola ma non se ne fa un progetto. Il corpo docente è una delle categorie professionali meno compatte, a differenza di altri Paesi. A scuola si parla di sana competitività e di competenze ma, a volte, sono tanto competitivi e poco competenti proprio certi insegnanti.

Lo psicologo educativo statunitense Jere Brophy affermava: “La gestione della classe è uno dei maggiori successi nella storia delle ricerche in campo educativo del ventesimo secolo” . L’insegnante non deve mirare né al proprio successo né al successo degli alunni in termini di prestazioni, risultati, obiettivi quanto, invece, a contribuire a una rete sana di relazioni, situazioni ed emozioni da vivere e condividere in classe. Quello spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia di cui si parla tra gli obiettivi dell’educazione nell’art. 29 lettera d Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. E questo dipende anche dai rapporti tra gli insegnanti e dalla gestione delle proprie emozioni e dei propri vissuti.

“Gestire la classe significa agire in modo tale che ogni allievo possa trovare le giuste attenzioni educative e didattiche soddisfacendo i propri bisogni personali, promuovendo e mantenendo un proficuo ambiente di apprendimento in classe” (cit.). Gli insegnanti non sono titolari della classe ma gestori per cui gli aggettivi possessivi (la mia classe, i miei alunni, la mia aula, ...) non si dovrebbero usare.

Insegnare: incontrare l’altro, iniziare l’altro alla vita, inciampare con l’altro negli ostacoli della vita per ri-cercare nuove soluzioni (come si fa nel caso della classe capovolta, dei compiti di realtà e così di seguito), in…

Insegnare è segnare il presente, disegnare il futuro, consegnare strumenti, assegnare compiti di vita.

Insegnare è come la “parabola del seminatore” (Vangelo di Matteo 13, 1-23): seminare generosamente, instancabilmente e dappertutto, nella libertà di imparare dell’allievo.

E così la retribuzione più gratificante per gli insegnanti è ogni cambiamento che si nota in un alunno. 

Diventare padre, fare il papà

Abstract: L’articolo conduce alla riscoperta della figura del padre, del suo ruolo indispensabile per la crescita e lo sviluppo dei figli affinché diventino anche adulti autonomi e responsabili

 

“[…] con l’eclissi della figura paterna viene meno la capacità del padre di dettare regole di vita e norme morali nella gradualità della crescita dei figli, come anche i diversi modi nei diversi tempi di un ingresso maturo e sereno dei giovani negli ambienti extrafamiliari come la scuola, gli amici, il tempo libero, la vita culturale, lo sport ecc. Sono compiti che vengono ignorati o mal vissuti da padri insicuri, che rendono a loro volta insicuri i figli, nei confronti dei quali a volte si reagisce con l’indifferenza o con un autoritarismo privo di fondamento e inefficace sul piano dialogico-educativo, oppure con forme di cameratismo fuori posto anzi nocive. Si tratta di un modo facile per scaricare gli esiti della propria fragilità sulle generazioni più giovani, alle quali spesso viene ingiustamente attribuita ogni incapacità e ogni genere di insicurezza. Appare sempre più urgente un servizio di consulenza gratuito messo a disposizione dalle istituzioni per accompagnare i genitori, specialmente sulla figura del padre, perché si riapproprino del loro ruolo educativo, con canoni e principi proposti in termini appropriati al nostro tempo, con linguaggi e forme di nuova comunicazione, per aprirsi un varco anche nell’universo virtuale nel quale i nostri figli sono immersi già dalla prima infanzia. Ma in questa situazione di assenza del padre non è consigliabile alle madri di sommare i due ruoli nella sua sola persona. In altre parole, la donna non è chiamata a supplire il partner nel suo ruolo di padre. Tutt’al più alla donna deve stare a cuore che il partner riacquisti sicurezza, e assicuri in tal modo un futuro più stabile, sia nella vita coniugale, sia in relazione ai figli” (la studiosa Ina Siviglia, novembre 2023). La figura paterna sembra essere legata a stereotipi, per cui prima si è passati dal “padre padrone” al “mammo” e ora all’eclissi del padre. Il termine “eclissi” induce a riflettere sull’immagine del sistema solare con cui può essere paragonata la famiglia, mentre il rapporto tra genitori e tra genitori e figli può essere assimilato a quello tra pianeti e satelliti: ognuno ha la propria orbita, la propria atmosfera, la propria forza di gravità, risponde a delle regole.

 

Significativa la formulazione dell’art. 1 della L. 405/1975 “Istituzione dei consultori familiari” in cui si legge del servizio di “assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile”, ancor più necessarie oggi. La paternità ha sempre suscitato più problemi rispetto alla maternità, per esempio in passato per il riconoscimento giuridico, oggi per il riconoscimento sociale.

Lo psicoanalista Massimo Recalcati puntualizza: “La parola che rappresenta il padre è il “no”. Il padre è il custode della legge. Il “no” rappresenta l’esistenza dell’impossibile, cioè che non tutto è possibile, che non si può fare tutto, che non tutto è dovuto. Non in maniera sadica, patibolare, ma umana e con la possibilità dell’eccezione” (nella lectio magistralis del 15 febbraio 2020 a Matera). Che sia paternità o figura paterna o ruolo paterno o codice paterno, ogni figlio e qualsiasi famiglia (con qualsiasi compagine, omogenitoriale, monogenitoriale, ricomposta…) ne hanno bisogno.

 

Anche nei casi di maternità surrogata o di famiglie omogenitoriali o altre configurazioni familiari, bambini e ragazzi hanno bisogno di “conoscere” e “credere” nella paternità (che sia divina o umana, spirituale o fisica, biologica o adottiva), hanno bisogno di credere in un’origine per affrontare e edificare la loro vita. A tale proposito è bene ricordare il diritto a conoscere le proprie origini riconosciuto ai figli adottivi (art. 28 L. 184/1983 novellata) e le teorie (o studi) della psicogenealogia, tra cui la cosiddetta “sindrome degli antenati”.

Non si devono “togliere” i papà ai bambini perché ne hanno bisogno, nel bene e nel male, e hanno innato il senso di paternità per elaborare, poi, una loro identità (si veda, tra i tanti film sul tema, “Papà per amore” o si legga il libro per l’infanzia “Bastoncino”). Se credono in Babbo Natale, figuriamoci nei loro papà!

 

La paternità adotta un codice differente e deve trasmettere queste differenze: anche così si esprime l’autorità (dal latino “auctor”) paterna di cui si ha bisogno e la cui mancanza ha portato allo smarrimento e all’esautorazione generale. Il pedagogista Cesare Scurati, nel suo elenco dei diritti dell’infanzia, annoverava “il diritto all’autorità” dopo il “diritto alle radici” e altri (in “Fra presente e futuro. Analisi e riflessioni di pedagogia”, 2001). La paternità è coronamento, completamento, consolidamento della maternità. Come si ricava dal film “post-apocalittico” “The Road” (2009): “Un padre e il suo bambino camminano su strade sconnesse, piovose e deserte, morsi dal freddo, dalla fame e dalla paura. Spingono un carrello del supermercato con viveri e indumenti essenziali, verso un’introvabile costa del Sud, dove sperano di sopravvivere ai prossimi gelidi inverni. La notte è «più buia del buio e un giorno più grigio di quello passato». Gli alberi cadono, gli uccelli hanno disimparato a volare. La mamma non c’è. Lei, bellissima, sensuale, affettuosa, talentuosa anche nella musica, era troppo sensibile al dolore e non riuscì a reggere quello spettacolo di rovine” (dalla recensione del bioeticista Paolo Marino Cattorini, aprile 2021).

 

Efficaci le parole della scrittrice Melania Gaia Mazzucco “[…] è stato il peggior padre che si possa immaginare. Mi ha ostacolato, intralciato, ha tentato di assassinare le mie passioni e i miei sogni […]. Eppure gli devo tutto ciò che sono, e se potessi dare la vita per la sua non esiterei un istante” (dal romanzo “L’architettrice”, 2019). Il legame non è un vincolo, è qualcosa che si sente anche se non si vede e che non si deve affinché lo si veda: così la paternità, un legame molto particolare. Paternità: entrare in rapporto, stabilire un contatto con un proprio codice di comunicazione con i figli, ancor di più se si tratta di figlie. Uno degli esempi più belli di paternità nei confronti di una figlia è stato quello di Teone di Alessandria (IV sec. d. C.), filosofo e matematico greco, che tenne come allieva e, poi, come collaboratrice sua figlia Ipazia (presumibilmente rimasta senza madre).

 

La difficoltà del ri-conoscimento del padre è ben descritta dallo scrittore Paolo Di Paolo: “[…] un uomo che sta per diventare padre non lo riconosci da niente: nessuno gli cede il posto, nessuno gli fa largo, nessuno suppone di doverlo proteggere o compatire, […] non è così per le donne, perché, poi, da qualche parte – visibili, stupefatte, e sole, in quella devastante metamorfosi – ci sono le madri” (nel romanzo “Lontano dagli occhi”, 2019). Paternità non è solo riconoscere il figlio ma essere conosciuto e riconosciuto come padre e diventare papà. Perché ogni parola ha la sua essenza: genitori, genitore, padre, papà. Occorre riflettere sulla differenza tra paternità, figura paterna, padre e papà (o babbo), anche per il bene dei figli.

 

Nel gennaio 2023 è stato avviato per la promozione della paternità (ma anche con altri obiettivi, in primis la prevenzione della violenza di genere) il progetto europeo 4E-PARENT (in Italia è organizzato dall’ISS, Istituto Superiore della Sanità), sulla scia di un precedente progetto. Le quattro “E” riepilogano i presupposti del progetto: Early, per la partecipazione da subito, Equal a indicare un approccio paritario ed equo, Engaged che richiama la partecipazione attiva e Empathetic per la valenza empatica, accudente e responsiva. Le quattro “E” dovrebbero caratterizzare la genitorialità, indipendentemente dal progetto europeo. Quell’accudimento già attribuito ad entrambi i genitori nell’art. 7 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Il pari (che non significa uguale) accudimento che è già gestito nel mondo animale, come i casi più riportati dell’ippocampo e del pinguino.

 

Mentre la maternità si palesa con segni evidenti già nel corpo, la paternità è una potenzialità per cui il padre, più della madre, deve imparare a palesare, a manifestare, ad esercitare la sua genitorialità. E, per questo, in talune situazioni i padri sono più “accondiscendenti” nei confronti dei figli perché provano difficoltà simili a quelle dei figli nel loro percorso di maturazione. Un padre è capace di dare o togliere tanto: quanto dipende da lui, nel bene e nel male. Quanti grandi uomini sono diventati tali anche per reazione al padre o per azione del padre, dal poeta Giacomo Leopardi, contrastato dal padre, allo schermidore Paolo Pizzo, allenato dal padre. Non si impedisca ai padri di esercitare la paternità e i padri non siano impediti nell’esercitare la loro personale paternità.

 

Papà separati, disoccupati, allontanati, inadeguati, rifiutati, bistrattati... talvolta è proprio nell’assenza e nelle mancanze che si coglie il vero (o autentico) senso della paternità.

 

“Il nostro mondo ha bisogno di riscoprire la paternità: il prendersi cura dei figli senza trattenerli per sé, ma educandoli all’autonomia, perché possano spiccare il volo con gratitudine” (cit.). La paternità non è (solo) geneticità ma generatività di cui si ha bisogno ogni giorno nell’aridità circostante.

Uno degli aspetti più profondi della paternità: braccia che, in silenzio o invisibilmente, avvolgono e sostengono nel bisogno e nel sogno (braccia che fanno venire in mente com’è cominciata la paternità adottiva del giornalista Franco Di Mare quando “prese” la figlia adottiva tra gli orfani di guerra). Come il muratore, uno dei lavori più rappresentativi della paternità: mettere su la vita del figlio che, poi, se la gestisce autonomamente.

 

La paternità non è e non sia una palla al piede o un palliativo per i propri irrisolti o, in tarda età, garantirsi un erede.

Padre: non è superare il test di paternità ma essere teste di paternità. Paternità: passare dalla forza di padre all’amore di papà.

Un bimbo si strofina affettuosamente al viso barbuto del papà: una bella immagine di vita come, tenera e ispida, è la paternità, la vita.

“Edu-care” al “ben-essere”

Abstract: L’articolo si propone di indicare agli adulti il percorso da seguire per non intrappolare i bambini nei loro schemi preconfezionati ma condurli e accompagnarli alla piena realizzazione di se stessi

 

A causa dello stile di vita odierno (uso incessante di device, maggior parte del tempo passato fuori casa, figli unici, individualismo,…) aumentano il malessere, l’incomunicabilità, disturbi della personalità e di altra natura.

Si trascura quella che è la principale forma di prevenzione e che è la relazione alla base di ogni altra relazione umana: l’educazione. Relazioni fondamentali e imprescindibili come dichiarato nella Carta di Ottawa per la promozione della salute (1986), in particolare: “Gli inestricabili legami che esistono tra le persone e il loro ambiente costituiscono la base per un approccio socio-ecologico alla salute” (obiettivo che è nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile).

 

Una delle branche delle scienze umane che si occupano di queste tematiche è la pedagogia interculturale i cui esperti, tra cui Agostino Portera, affermano che perseguire obiettivi educativi a lungo termine in una società «liquida», che vive tutto a breve termine, e contribuire alla formazione dell’identità personale e culturale senza provocare crisi di identità o generare conflitti ma trasmettendo ai ragazzi «la consapevolezza delle proprie radici», è la sfida più impegnativa cui sono chiamati oggi insegnanti ed educatori riscoprendo i vari significati scientifici di “identità”, “conflitti” e “radici”; si pensi, per esempio, alla rilevanza dei concetti di “identità”, “conflitti” e “radici” nella psicogenealogia. Concetti altrettanto espressi nell’art. 29 lettera c Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “[…] inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali del Paese in cui vive, del Paese di cui è originario e delle civiltà diverse dalla propria”. Solo un albero ben coltivato, con radici profonde e ben irrorate, può essere poi potato e/o innestato. Come richiama la pedagogista Luigina Mortari: “Pensare al bambino come ad un essere mancante di certe capacità o pensarlo, invece, come una persona intera le cui forme dell’esserci sono già tutte presenti seppure in forma germinale e attendono solo di essere nutrite ha implicazioni rilevanti nel modo di intendere la cura educativa” (in “La filosofia della cura”, 2015). Educare è avere cura dell’essere, creare e preservare il ben-essere: “cura”, “benessere” e altre espressioni introdotte per la prima volta in maniera specifica in un atto normativo nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, si veda innanzitutto l’art. 3.

 

Anche Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, sottolinea l’importanza delle radici: “La ricerca di radici è uno dei motivi fondamentali dell’esistenza umana. Dovremmo fare in modo che anche ai minori privi di radici venga offerta la possibilità di crearsene di nuove”. Le radici servono per cominciare e continuare, per attingere ed elevarsi, per divenire unici e uniti. Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si menziona il termine “identità” per due volte, come uno dei diritti personalissimi (o diritti della personalità) nell’art. 8 e come obiettivo dell’educazione nell’art. 29 lettera c; è, pertanto, una delle più grandi responsabilità degli adulti.

Il pedagogista Daniele Novara afferma: “[…] si parla tanto con i bambini e i ragazzi, è diventato un obbligo essere espansivi, chiacchierare, discutere. La faccenda funziona finché resta nei binari dell’educazione, viceversa diventa un equivoco quando i genitori non considerano l’età dei figli e suppongono che i loro discorsi debbano essere presi alla lettera e gestiti come parole uscite da persone già adulte. In questo modo i conflitti diventano inevitabili”. Non a caso nell’art. 12 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si precisa “[…] dando alle opinioni del fanciullo il giusto peso in relazione alla sua età ed al suo grado di maturità”.

 

Sul ruolo educativo dei genitori la saggista Lucetta Scaraffia scrive: “[…] il tempo che abbiamo a disposizione, nonostante l’allungamento della vita, non è poi così lungo: o fai una cosa o ne fai un’altra. La vita quotidiana è piena di piccole scelte che influiscono sul nostro futuro. E quei ragazzi che sprecano la vita nelle notti di sballo […] mi fanno solo una pena infinita perché so per esperienza che solo pochi di loro riusciranno a riprendersi da un inizio così povero e negativo. E sono furiosa, sì, furiosa con tutti quei genitori che permettono ai figli di rovinarsi la vita, perché non sanno fare la fatica di dire dei no. Perché non vogliono fare gli educatori, ma pensano di essere i proprietari di un oggetto gratificante”. Dire no ai propri figli non è solo educativo, ma anche doveroso perché il no fa parte della vita, a cominciare dal concepimento in cui solo uno spermatozoo ce la fa e agli altri viene detto no dalla vita stessa. “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

 

Secondo il filosofo Adriano Fabris: “Abbiamo paura di rimarcare differenze e specificità anche quando esse riguardano l’essere umano. Pare che sia meglio arrenderci all’indifferenza. E questo paradossalmente accade proprio quando, nel mondo, ciascuno – collettività, gruppi, individui – tende invece a rimarcare la propria differenza dagli altri e manifesta il diritto a rivendicarla pubblicamente: sia essa religiosa, etnica, oppure sessuale. Fino alla parcellizzazione estrema. Fino all’indifferenza che, paradossalmente, è generata dal proliferare di tutte le possibili differenze. Se le cose stanno così, si comprende il motivo del nostro disorientamento riguardo a noi stessi, con tutto ciò che comporta. E allora diventa indispensabile tornare a riflettere su quello che siamo e che possiamo essere”. I bambini hanno bisogno e devono essere educati alle differenze. Oltre alle motivazioni psicologiche e sociologiche vi sono quelle giuridiche che si possono ricavare, tra l’altro, dall’art. 7 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia ove si legge “acquisire una nazionalità” che è una delle prime specificità che caratterizza ogni persona. Nel successivo art. 8 della Convenzione vi è scritto “il diritto del fanciullo di conservare la propria identità, nazionalità, nome e relazioni familiari”. I due verbi usati “acquisire” e “conservare” inducono adulti e istituzioni a riflettere.

 

A proposito di educare alle differenze, uno degli errori educativi più frequenti è chiedere ai bambini quale genitore o nonno o insegnante preferiscano. I bambini vanno educati ad accettare e non a selezionare, ad accogliere e non a respingere, come si evince pure dall’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Sull’educazione alle differenze di genere Lucetta Scaraffia sostiene: “Non basta dire agli uomini che devono cambiare: bisogna prepararli fin da piccoli, in famiglia e a scuola. E alle ragazze va insegnato che l’eguaglianza sessuale per loro può essere una trappola, perché in tale ambito sono diverse dagli uomini. Quando l’ideologia prende il sopravvento sulla realtà a pagare sono sempre i più deboli. Lo insegna la storia”. Significativo è quanto scritto nell’art. 29 lettera d della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “preparare il fanciullo a […] uguaglianza tra i sessi”. “Uguaglianza tra i sessi” non è “uguaglianza dei sessi”: il “tra” prelude a una relazione interlocutoria, continua e costruttiva con persone portatrici di differenze. Sulla sensibilità degli uomini: “Quando gli uomini parlano in nome e per conto delle donne, riescono a dire cose che una donna non riuscirebbe a dire” (cit.). Uomini e donne sono “differenti”, “che portano da una parte all’altra”, e non “diversi”, “che volgono in opposta direzione”, e solo insieme possono “scrivere” bei versi: in tal senso deve essere orientata l’educazione sentimentale e sessuale.

 

“Testiamo le nostre emozioni lasciando per una volta le briglie sciolte al desiderio. Soprattutto non esageriamo con le pretese verso noi stessi. Teniamo in serbo il nostro rigore per quando ci sarà da lottare” (lo scrittore Simone Perotti). La propria conoscenza è la base per ogni educazione, ancor di più dell’educazione emozionale e socio-affettiva (in altre parole quella educazione all’affettività, generalmente demandata alla scuola).

Lo psichiatra Eugenio Borgna spiega: “Ci sono emozioni forti ed emozioni deboli, virtù forti e virtù deboli, e sono fragili alcune delle emozioni più significative della vita. Sono fragili la tristezza e la timidezza, la speranza e l’inquietudine, la gioia e il dolore dell’anima. E in cosa consiste la loro fragilità?”. Fragilità: un aspetto su cui interrogarsi e confrontarsi nell’educazione per non tirare su persone apparentemente forti ma fragili e non resilienti né empatici, come “cubetti di ghiaccio” (che si sciolgono) o “thermos” (con isolamento termico). Conoscere i propri limiti, lati oscuri e fragilità, fa affrontare le situazioni, emergere risorse inesplorate e relazionarsi meglio con gli altri.

 

E il miglior mezzo educativo è e rimane l’esempio (etimologicamente da “trarre fuori”, come uno dei significati etimologici di “educazione”) – da sempre sostenuto dai pedagogisti –, che è confortante, edificante, itinerante, nell’educazione o ogni altra situazione (altresì nella fede, da non trascurare per lo sviluppo spirituale). “Gli Stati parti riconoscono il diritto di ogni fanciullo ad un livello di vita sufficiente a garantire il suo sviluppo fisico, mentale, morale e sociale” (art. 27 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Vivere in un certo modo indica, indirizza e insegna a vivere in quel modo.

 

Da bambini si impara l’alfabeto delle lettere ma crescendo si disimpara l’alfabeto dei gesti di vita: l’educazione emotiva e affettiva vale e serve a tutte le età.

 

Il vero specchio dell’anima non è uno sguardo qualunque ma quello dei bambini, i quali scrutano, percepiscono ogni sfumatura e rivelano aspetti spesso sconosciuti agli adulti stessi. I bambini hanno bisogno di educazione emozionale? Non proprio: gli adulti hanno il compito di incanalare e salvaguardare le innate e spontanee emozioni dei bambini, esemplari in tutto, nel bene e nel male, perché forieri di vita e di quel che è la vita. Peccato che crescendo ci si dimentichi di essere stati bambini, semplici e genuini!

È ancora possibile l’amore

Sintesi: L’amore significa e genera vita e la sua misura è la vita dell’altro

Abstract: L’articolo, mediante riferimenti normativi e letterari, mette in luce l’essenzialità dell’amore, peculiarità solo umana, tutta umana

 

Oggi si tende a parlare dell’amore spesso in maniera negativa, come amore tossico, possessivo, virtuale o altro, riducendo la fiducia e la speranza delle nuove generazioni nell’amore, quello vero e duraturo. Urge, perciò, educarsi e educare a ri-conoscere l’amore.

“L’amore non nasce dalle misure del corpo ma da qualcosa di inesprimibile che appartiene soprattutto allo sguardo” (la scrittrice Susanna Tamaro). L’amore non è fisico, ma corporeità che comincia dallo sguardo (come il primo incrocio di sguardo tra mamma e figlio) e finisce proprio quando lo sguardo è distratto o distolto. Educazione allo sguardo, educazione dello sguardo, in altre parole educazione sentimentale e non solo sessuale.

 

Lo psichiatra statunitense George Vaillant afferma: “I dati rivelano che la felicità è l’amore. Punto”. I figli nascono (o così dovrebbe essere) per amore e chiedono solo amore. Figli: tante emozioni e altrettante preoccupazioni perché hanno diritto alla vita, chiedono solamente vita.

“Porta amore a qualcuno porgi il te stesso ma fino alla soglia. Fa’ che si chini per alzarlo a sé, mai che debba staccarselo di dosso. Fa’ che non sia proiettile contro sagoma attinta, ma la deposta offerta” (lo scrittore Erri De Luca). Deve essere così pure nelle relazioni familiari, innanzitutto nella relazione genitoriale. Amare qualcuno, in particolare un figlio, è arrivare sino alla soglia del suo cuore e non invaderlo.

 

“Aiutare ogni creatura a fiorire. Il mondo combatte per fiorire. Io posso capire se amo il mondo se combatto per lui, di combattiva tenerezza, per farvi crescere bellezza e tenerezza. Affrettiamoci ad amare, le creature se ne vanno così in fretta” (il teologo Ermes Ronchi). Così l’amore genitoriale che si manifesta in tal modo ancor di più in caso dei nati pretermine (si veda la Carta dei diritti del bambino nato prematuro, 2010).

Il filosofo spagnolo Raimon Panikkar spiega: “La relazione umana è rituale quando il prossimo è qualcosa di più che un oggetto; l’amore umano è un rito quando si scopre che la persona non è soltanto un oggetto di piacere e neppure d’amore; ma una relazione costitutiva che consente all’io di essere io, e al tu d’essere tu”. “Rito” etimologicamente deriva dalla radice “ri”, “andare, scorrere”. Nell’amore coniugale ci si ricordi del rito del matrimonio, nell’amore genitoriale ci si ricordi del rito della nascita. Perché la vita stessa è rito.

 

Come il rito del bacio della buonanotte. “Bacio”, secondo alcuni deriverebbe da “mormorare, parlare”: come quello dei bambini che si divertono a stampare baci anche quando hanno la bocca sporca di cioccolato o schioccano le labbra facendo sentire chiaramente lo smack. Ogni bacio parli d’amore, di ogni amore, purché amore e fonte di vita: è questa la prima forma di educazione sentimentale e sessuale che bisogna trasmettere. Bisogna abbassarsi al livello dei bambini per sollevarli alla vita e agli alti valori della vita.

“[...] si sono spenti, in un rapporto che ha il calore di un ghiacciaio in inverno. Per tutti e due, stare insieme è una sottrazione alla vita. Non ha senso ormai, stare così, senza sapere che dirsi. Tra loro è sorto un muro. Hanno perso la strada della comunicazione e non hanno più voglia di mandarsi segnali di fumo. Sono indecisi su cosa fare: ricominciare, inventando la forza di rinnovarsi o proiettarsi di slancio in avanti, cercando ognuno un destino diverso? Nessuno dei due ha il coraggio di fare la prima mossa” (l’autore Antonio Petrocelli). Quando una relazione è finita o svanita o, addirittura, non è mai esistita, è inutile portarla avanti per salvare l’apparenza o, peggio, per reciproca convenienza: per se stessi, per gli altri intorno e per l’amore è solo una sofferenza. A cominciare dagli eventuali figli che ricevono in tal modo un pessimo esempio di educazione sentimentale. I figli devono (o dovrebbero) essere concepiti, cresciuti, educati e mantenuti nell’amore, solo per amore, come ribadito anche in alcune carte non normative, tra cui la Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori (ottobre 2018) e il Decalogo dei bisogni (o desideri) dei bambini, stilato dal formatore montessoriano Claus Dieter Kaul.

 

“E così io adesso, ogni tanto, dico alle persone che voglio bene, anche se loro mi guardano e non capiscono, ma io glielo dico lo stesso: «Meno male che ci sei!»” (dal film “Meno male che ci sei”). Dire o manifestare in altro modo il proprio amore per l’altro in qualsiasi relazione, da quella genitoriale a quella educativa, da quella amicale a quella sentimentale: quel che conta è amare e far sentire amato l’altro. Altrimenti che amore è? L’educazione sentimentale passa attraverso quello che si dice e si fa, non attraverso lezioni cattedratiche. L’amore è quell’ambiente, quell’atmosfera di cui si parla nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

 

“[…] un buon fidanzamento non è quello che termina col matrimonio, ma con la verità. Se vi dovete sposare, avanti; se non vi dovete sposare, prima lo scoprite meglio è!” (don Fabio Rosini). Contrarre matrimonio non è né una prescrizione (per una certa età anagrafica o per un certo numero di anni di relazione) né una proscrizione (per una gravidanza imprevista o per un trasferimento lavorativo), ma ci si sposa se il matrimonio è iscritto nel proprio cuore e nei condivisi progetti con l’altro/a, altrimenti ci si infelicita e ancor di più si infelicitano gli altri. Questa consapevolezza costituisce un fondamento del libero e pieno consenso dei futuri coniugi di cui all’art. 16 par. 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. L’amore è fatto di meccanismi ed ingranaggi: o funzionano o non funzionano. Tutt’al più si può usare il lubrificante, ma se si ha bisogno di interventi continui o esterni c’è più di qualcosa che non va. L’amore è la macchina della vita, ma non tutte le macchine riescono bene e bisogna fare attenzione nella guida lungo la strada. Ne va della propria vita e di quella di altri. Solo se si è adulti in amore (e non immaturi e imperituri adolescenti) si può, poi, praticare l’educazione sentimentale, soprattutto a livello genitoriale. Anche se ogni caso è a sé, è così evidente che in molte coppie ci siano apparenza, convenienza o sofferenza (forse più del passato quando si contraevano matrimoni combinati o riparatori o per procura o per interesse). Mai accontentarsi e mai svendere la propria libertà e dignità: l’autenticità nei legami è la prima lezione di educazione sentimentale (o educazione all’affettività) che non può essere data o demandata alla scuola.

 

Autenticità che è insita nei bambini e va salvaguardata nei bambini. La scrittrice Susanna Tamaro riflette: “A tutti capita, soprattutto nell’infanzia, di percepire questa straordinaria sensazione di pienezza. Può durare qualche secondo, un giorno, un mese, comunque è là, esiste, e questa sensazione è la conferma che il nostro cuore è vivo, aperto e pieno di amore. Poi qualcuno arriva e ci dice: «Non si canta se non si è cantanti» e tutto in noi si spegne, il grigiore scende nella nostra vita. Così, invece di seguire il nostro cuore, cominciamo a seguire quello che gli altri vogliono da noi. La nostra vita allora diventa molto faticosa, andiamo da una parte e dall’altra senza avere mai chiara la direzione verso cui dirigerci, in tal modo accumuliamo errori e, con gli errori, arrivano le tristezze”. L’infanzia possiede ogni bellezza ed ogni ricchezza: non la si deve deturpare, non la si deve omologare. L’infanzia è la bellezza della vita stessa, ma gli adulti, in primis alcuni genitori, la stanno deturpando con ogni forma di adultizzazione: dal farli soffrire irrimediabilmente durante le crisi di coppia ai casi di ipersessualizzazione.

 

Il “pediatra musicista” Andrea Satta racconta: “Dalla mia lunga esperienza sul campo, vedo purtroppo che i genitori tendono ad affidarsi a percorsi precostituiti e superficiali piuttosto che cercare di risolvere veramente i problemi. I bambini non sono una proprietà privata dei genitori: hanno bisogno di rispetto per maturare e di molto tempo libero per giocare. Comunque, tra tante febbri che affronto nel mio ambulatorio, la più pericolosa è la febbre dell’amore che manca e dell’amore che affoga. La qualità delle relazioni vissute nell’infanzia è fondamentale per la gioia e la salute dei bambini”. L’amore significa e genera vita e la sua misura è la vita dell’altro: la misura dell’amore genitoriale è la vita del figlio.

 

Amare è altresì lasciare andare: come un albero che d’autunno vede andar via le foglie che non torneranno più o diventeranno altro nel ciclo della natura. Così dovrebbe essere l’amore genitoriale.

Tenere all’altro, temere per l’altro, nella misura in cui si contempli e si rispetti l’altro: così deve essere l’amore coniugale e, ancor di più, l’amore genitoriale che, altrimenti, si manifesta in modo negativo come l’iperprotettività o l’anaffettività.

Affiancarsi prudentemente alla vita dell’altro, affacciarsi premurosamente nella vita dell’altro: così dovrebbe essere ogni relazione d’amore, a cominciare da quella genitoriale. I genitori (in particolare la madre) devono amare liberamente e di un amore liberante. Chi ama c’è prima e dopo, pur tacendo ma facendo del silenzio una prova d’amore, pur allontanandosi facendo della distanza una speranza: dalle mamme alle donne-Penelope.

 

Nessuno sia reso inabile ad amare e ad essere amato, anche se chiuso nella cosiddetta “sindrome del chiavistello”. Non si ama una pianta o un pesce nell’ampolla? Chi stabilisce il valore di un essere vivente e dell’amore che suscita o che si può provare per lui? A maggior ragione se si tratta di un essere umano. Alla base di tutti i diritti umani, in primis il diritto alla vita, vi è l’amore. Art. 1 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. “Tutti gli esseri umani […] devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.

 

È ancora possibile l’amore, anzi è ancora più necessario, perché rende umani, man-tiene umani.

“Ma-estro” oggi

Lucio Lombardo Radice, tra l’altro pedagogista del ‘900 (1916-1982), definiva i maestri del 2° dopoguerra, tra cui Mario Lodi e il maestro televisivo Alberto Manzi, “maestri missionari, operai della scuola ed anche rivoluzionari”. Il XXI secolo ha ancora più bisogno di “maestri missionari, operai della scuola ed anche rivoluzionari”: da annoverare i “maestri di strada” e tutti quei maestri che continuano a operare con passione e senso del dovere aiutando i discenti lungo la strada della vita.

 

Il maestro contemporaneo Davide Tamagnini afferma: “Mettere al centro bambine e bambini significa considerarli soggetti autorevoli, capaci di dialogo, portatori di contenuti, persone da cui imparare e a cui insegnare, persone con cui è bello crescere […] È chiaramente possibile portare a scuola mille proposte, ma possiamo far parlare la vita stessa che la scuola ci fa condividere e imparare a leggere il nostro fare con lo sguardo di chi si educa insieme a diventare cittadini. Questa è la direzione verso cui dobbiamo tendere ciò che viene vissuto tra i banchi di scuola può cambiare la società. Per questo è necessaria una scuola che sappia valorizzare l’umano e permettergli di crescere in armonia con l’ambiente, che metta al centro il bambino, che lo consideri protagonista”. Nel secolo scorso ci sono stati insigni maestri o educatori (e non teorici o pedagogisti) che hanno messo veramente al centro bambini e ragazzi e hanno concretizzato i principi costituzionali della scuola pur in tempi e condizioni difficili, senza progetti o riforme o materiale adeguato, da don Lorenzo Milani a Danilo Dolci.

 

Tra gli altri grandi maestri è sempre attuale Gianni Rodari, nato da famiglia povera, autodidatta, “maestro di resilienza” diventando pietra miliare della e nella cultura italiana, dalla pedagogia alla letteratura per l’infanzia. Il suo metodo: attingere dalla gioia e dalle risorse dei bambini stessi e basarsi sul giocare e sul ridere. Tra le sue espressioni e opere geniali: “grammatica della fantasia”, “errore creativo”, “fiabe a rovescio”, “giocattoli poetici”. La sua poesia “La parola piangere” è una bella pagina di educazione emotiva (non solamente a scuola), soprattutto per il ruolo della “vecchia maestra”, il “Museo delle lacrime” e il verbo “narrare”, dimensione da recuperare e fondamentale nelle relazioni e nelle emozioni.

 

Altri maestri da ricordare lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, maestro di scuola elementare (1921-1989) e lo scrittore lucano Leonardo Sinisgalli, ingegnere (1908-1981), che sostenne l’esperienza dei cosiddetti “bambini incisori” del maestro Gianni Faè: Sciascia e Sinisgalli, due meridionali che si sono “fatti da soli”, hanno superato le ristrettezze dei posti in cui sono nati, hanno superato le difficoltà dei loro tempi, hanno studiato e sudato, hanno coltivato i loro talenti e interessi, sono stati eclettici andando oltre il loro titolo di studio e la professione esercitata. Esemplari per quello che hanno fatto e come lo hanno fatto, la loro resilienza dimostra che la vita è più di un’esistenza: sono da conoscere e far conoscere in ogni tempo e alle generazioni di ogni tempo. Come recita l’art. 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”.

 

“Nei primi anni dopo la sua ratifica in Italia, avvenuta nel 1991, in alcune città il 20 del mese di novembre si distribuirono agli studenti copie della Convenzione; ma certamente ciò non può essere considerato un «far largamente conoscere». Di fatto, dopo ripetute verifiche, si nota come i diritti salvaguardati da tale Convenzione rimangano ancora sconosciuti ai politici, agli amministratori, agli educatori e ai genitori. Probabilmente molti sanno degli impegni assunti rispetto alla fame, alle malattie, all’ignoranza e allo sfruttamento, ma quasi nessuno sospetta che si parli di cittadinanza, di diritto alla parola, alla libera espressione e associazione nei riguardi dei bambini” (lo storico gesuita Giancarlo Pani in “I diritti dell’infanzia”, 2019). La Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia non riguarda solo i rapporti internazionali o le grandi violazioni ma definisce i diritti nella quotidianità dell’infanzia, in famiglia e a scuola. Da un’interpretazione sistematica si ricava il diritto del bambino al tempo, al suo tempo, al tempo libero, all’ozio. Tutto quello che è confluito nel “decalogo dei diritti naturali” stilato dal compianto maestro Gianfranco Zavalloni.

 

Il bioeticista Paolo Marino Cattorini sostiene: “Tutti abbiamo da apprendere qualcosa dai bambini, che sono maestri di speranza, se il loro immaginario non viene soffocato dalle ansie degli adulti, dell’opportunismo, dalla pigrizia di chi rimanda le decisioni e si fa mantenere come un parassita”. “Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto innato alla vita” (art. 6 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). I bambini sono tedofori di speranza e vita e nascono con questi diritti. Coloro che hanno autorità la devono esercitare nel senso letterale della parola: “autorità” deriva dal verbo latino “augere”, far crescere, aumentare.

 

I bambini sono “maestri” di vita nel senso etimologico, perché “maestro” deriva dal latino “magis” che significa “più”. Per esempio i bambini passano dal contendersi qualcosa al difendersi l’un l’altro: si impara a vivere ogni giorno e i bambini hanno da insegnare tanto in tal senso.

 

Lo scrittore Alessandro D’Avenia sottolinea: “La scuola che moltissimi colleghi già fanno: quella in cui la relazione è non solo centrale ma viene al primo posto. Chiunque di noi ricorda un professore, anche solo uno, che lo ha segnato. E in genere è quello che lo ha sfidato e al contempo gli ha voluto bene. Lì c’è la vera scuola, e continuerà a esserci: dove c’è questa relazione generativa. E questo prescinde da muri, innovazioni, età dei professori e tanti altri aspetti contingenti. La scuola c’è dove si difende e si fa crescere ciò che è umano nell’uomo. Per primi sono chiamati a farlo i maestri con se stessi. Tutto il resto viene a cascata…”. “I bambini hanno diritto a frequentare musei, teatri, biblioteche, cinema e altri luoghi di cultura, insieme ai propri compagni di scuola; a vivere esperienze artistiche e culturali accompagnati dai propri insegnanti, quali mediatori necessari per sostenere e valorizzare le loro percezioni” (artt. 11 e 12 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura, Bologna 2011). E il maestro, oggi più che mai, è colui che accompagna, media, sostiene e valorizza.

 

Secondo il maestro e scrittore Albino Bernardini “esistono maestri d’occasione e i maestri”. Non ci si può improvvisare maestri (che è cosa differente dall’essere o fare gli insegnanti): è una scelta di vita, uno stile di vita, una visione di vita.

Tutti gli insegnanti dovrebbero porsi come “maestri di strada” (come Cesare Moreno), cioè avvicinarsi ai bambini e ai ragazzi nelle loro situazioni di vita per condurli al bello e nuovo della cultura.

 

La psicologa Daniela Lucangeli spiega: “Negli ultimi anni si è sviluppato un nuovo filone di ricerca scientifica, a cui è stato dato il nome di warm cognition, letteralmente «cognizione calda». Abbiamo imparato che le nozioni si fissano nel cervello insieme alle emozioni e queste ultime, a loro volta, influiscono concretamente sui processi cognitivi, come attenzione, memoria, comprensione. Se un bambino impara con gioia, nella sua memoria resterà traccia dell’emozione positiva che gli dirà: “Ti fa bene, continua a cercare”. Se un bambino impara con gioia, impara di più e meglio. Il bravo maestro, ergo, è colui che aiuta, che dà fiducia e coraggio, non che ingozza e giudica, somministra e verifica”. Per emozionare un insegnante deve continuare a provare, nonostante tutto e tutti, emozione in e per quello che fa, anche quando sono emozioni negative. Con le emozioni il bambino è sollecitato “in tutto l’arco delle sue potenzialità” (dall’art. 29 lettera a Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

 

Anagrammando la parola “maestro” si ricavano tante altre parole significative: mastro, estro, mostra, arte, arto, roseo, astro,… Perché ai maestri si richiede che abbiano e siano questo e altro, quali “cattedrali di senso nel deserto di significati” (cit.).