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Sull’interesse superiore del fanciullo

Abstract: L’articolo evidenzia gli errori che si commettono dietro quello che rischia di diventare uno schermo per nascondere decisioni anche dannose per i bambini

Nell’ultima parte dell’art. 2 della Dichiarazione dei diritti del bambino (1959) si leggeva: “Nella adozione delle leggi rivolte a tal fine, la considerazione determinante deve essere il superiore interesse del bambino”. Nell’art. 3 par. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (1989) si legge: “In tutte le decisioni riguardanti i fanciulli che scaturiscano da istituzioni di assistenza sociale private o pubbliche, tribunali, autorità amministrative o organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve costituire oggetto di primaria considerazione”. Da una fonte all’altra è cambiato innanzitutto il campo di azione in cui tener conto dell’interesse superiore del fanciullo. Oggi, quindi, deve tener conto dell’interesse superiore del fanciullo non solo il legislatore ma chiunque si occupi e debba decidere dei bambini, a cominciare dai genitori.

Educare un figlio non significa tirarlo su a propria immagine e somiglianza, secondo i propri gusti (anche culinari), interessi, modelli o altro, ma tirare su la nuova e, perciò, bella persona che ogni figlio è. Bisogna coinvolgere i figli e non involgerli. “Nell’assolvimento del loro compito essi [i genitori] debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo” (art. 18 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). “Interesse”, “ciò che sta in mezzo”: ciò che sta in mezzo tra i genitori, tra i genitori e il figlio, tra il figlio e il mondo circostante.

Lo psicologo Gustavo Carlo scrive: “È un cammino di crescita da fare insieme. Il genitore non deve apparire come una persona perfetta, che non sbaglia mai; al contrario, ammettere le sue imperfezioni è un punto nevralgico”. La genitorialità non è né un diritto né uno stato ma una relazione, un percorso, una metamorfosi insieme all’altro genitore e insieme al figlio e ai figli. Essere genitore è guidare ed essere guidati, per cui si possono verificare “incidenti” di percorso.

Si assiste sempre più spesso a genitori che stanno addosso ai figli fino ad asfissiarli e genitori distratti e assorbiti dal grigiore della loro vita. I genitori “debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo” tenendo conto di alcune precise indicazioni della Convenzione stessa: accudire, allevare, assicurare, assolvere il loro compito. I genitori dovrebbero essere educati e educarsi in tal senso.

Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro denuncia: “[...] in nome dell’«interesse superiore del bambino» [...] sono state scritte leggi e prese decisioni che molto spesso mirano a sanare situazioni o a tutelare interessi degli adulti”. Gli adulti, in particolare i genitori, devono essere onesti innanzitutto con se stessi e non giustificare le loro scelte (per es. separazione, nuova casa, cambio città, nuova famiglia) o liberarsi dalle loro responsabilità dicendo che fanno una determinata cosa per il bene dei bambini, perché vogliono loro “troppo bene”, per il loro futuro o altro ancora.

La formatrice Silvia Iaccarino afferma: “È giusto essere disponibili per i bambini e le bambine, essere per loro delle Guide durante il percorso di sviluppo e crescita, ma non possiamo essere sempre a loro disposizione. C’è una differenza sostanziale tra essere disponibili ed essere a disposizione. Disponibili significa responsivi, sensibili, empatici; vuol dire saper guidare e orientare. Esserci come presenza salda, solida, amorevole - e necessariamente imperfetta - per bambini e bambine. Possiamo supportare, affiancare i bambini e le bambine […]. Nell’essere disponibili non c’è la sostituzione, ma l’accompagnamento”. I genitori devono essere servizievoli ma non servili, sostenere i figli ma non sostituirli, dare ragioni e non ragione ai figli, orientare i figli ma non fare da navigatori, fare sacrifici per i figli ma non sacrificarsi, dare amore ma non dire continuamente (o banalmente) “amore”, fare tutto nell’interesse dei figli ma non tutto quello che interessa ai figli. Tirare su i figli come se fossero unici al mondo (tenendo conto che molti di loro sono già unigeniti) e dimenticando che anche gli altri figli sono considerati così dai genitori è tirare su dei monarchi, delle monadi. La misura dell’amore genitoriale è data dagli articoli 147 e 315 bis cod. civ. e da altre disposizioni normative.

A proposito del procedimento di adottabilità, la psicologa Rosa Rosnati richiama: “Mi sembra di vedere nel tempo una costante oscillazione tra due estremi: da un lato la tendenza a mitizzare il legame di sangue e quindi a procrastinare le decisioni, tentando qualsiasi via per recuperare legami che magari fin dall’inizio appaiono insanabili e all’estremo opposto la propensione a recidere tali legami, a volte senza avere gli elementi sufficienti. Nel passato in particolare c’è stata la tendenza a valorizzare maggiormente l’adozione, a volte recidendo i legami un po’ bruscamente, adesso invece in questa oscillazione il piatto della bilancia pende più sul lato di salvaguardare - a volte ad oltranza - il legame di sangue, nelle prassi e nelle decisioni. Certamente i legami con i genitori devono essere tutelati, ma al tempo stesso occorre tenere presente il bisogno di cura del figlio, il bisogno di un legame con un padre e una madre, che è qualcosa di non procrastinabile. Il mito del legame di sangue a volte impedisce di prendere decisioni che si basino sul bisogno del bambino, che è il bisogno di instaurare legame di attaccamento sicuro con una figura materna e una figura paterna. Questo bisogno non è procrastinabile, perché i bambini crescono: in questo lavoro c’è da tener presente sempre un ragionamento sul tempo del bambino, che non è il tempo dell’adulto” (in un’intervista del 17 luglio 2019 della giornalista Sara De Carli su Vita.it, dopo “i fatti di Bibbiano”). Nell’art. 3 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia non si parla solo di “interesse superiore del fanciullo” (par. 1), ma anche del “suo benessere” (par. 2) e di consistenza e qualificazione del personale e di un adeguato controllo (par. 3), criteri di cui tener conto in ogni settore.

Un altro settore in cui “mediare” è la scuola, come evidenzia la psicologa Anna Oliviero Ferraris: “Non è impossibile trovare un minimo comune denominatore tra famiglie, o almeno, su alcuni aspetti fondamentali, proprio a partire dalla scuola primaria. Nella maggior parte dei casi, infatti, le famiglie vorrebbero che i loro figli trovassero a scuola un ambiente competente e accogliente, in grado di fornire loro tutte le conoscenze e abilità di cui bambini e bambine hanno bisogno per crescere fisicamente, intellettualmente e socialmente; un ambiente che non crei loro ansie e insicurezze, ma che li stimoli, li appassioni e favorisca la formazione di relazioni supportanti. Un bambino, che si trova bene in classe, si affeziona anche alla sua maestra e ai suoi compagni, impara a comunicare, a fare amicizia, a conoscere gli altri e, conoscendo gli altri, a conoscere anche sé stesso”. Genitori e insegnanti devono mettere da parte i loro eventuali conflitti e tutti gli adultismi e tener conto dell’interesse superiore del fanciullo (art. 3 Convenzione) e del principio di comunità (art. 5).

La consulente pedagogica Annalia Galardini aggiunge: “Nei servizi per l’infanzia sottolineare il valore dell’alleanza con le famiglie è divenuto, con il crescere dell’investimento sulla loro identità educativa, un aspetto sempre più importante. La ricerca in campo evolutivo ci conferma che la qualità dell’esperienza educativa e degli apprendimenti, sia a livello prescolare che scolare, cresce quando si realizzano rapporti di collaborazione con le famiglie. Ciò significa che nei servizi per l’infanzia non è possibile mettere al centro il bambino senza includere la sua famiglia, perché l’educazione che produce benefici è quella che guarda ai bambini nel loro mondo di relazioni”. L’alleanza scuola-famiglia dovrebbe ispirarsi all’art. 3 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia “in toto”.

Scuola, famiglia, associazioni sportive, imprese: occorrono competenza, chiarezza, coerenza, coinvolgimento, comunicazione, condivisione, costruzione e così si arriva alla collaborazione nell’interesse sempre e solo del bambino e del ragazzo, quell’interesse che in inglese è opportunamente denominato “best interest of the child”.

“Ogni bambino ha diritto a sentirsi unico, senza mai sentirsi dire che deve essere come tutti gli altri bambini. Ha il diritto di guardare il mondo salendo sulle spalle dei genitori e non dal basso tenuto per mano” (dal Documento dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza nel 30° anniversario della Convenzione di New York). 

Educazione e istruzione di qualità oltre l’Agenda 2030

L’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è “Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”. Già da altri atti internazionali emergeva che bambini e ragazzi non hanno solo il diritto all’istruzione ma anche il diritto all’istruzione di qualità, per cui occorre che dapprima gli insegnanti abbiano delle qualità come la coerenza, perché la coerenza del e nel docente favorisce la confidenza e la conoscenza degli allievi.

“Non si edifica con discorsi astratti e impersonali, ma con l’esempio coerente della nostra vita, che sa ricordare il bene ricevuto e condividerlo con gioia” (cit.). Educare: edificare con l’esempio coerente della propria vita condividendo con gioia.

Le vocali delle qualità più importanti di cui vestirsi ogni mattina: dalla A di autenticità alla U di umiltà. In particolare lo dovrebbero fare i genitori e gli educatori.

“Il cammino dell’istruzione è un cammino verso la vita” (cit.). Docenti e discenti sono alla stessa scuola della vita e bisogna lavorare intorno allo stesso tavolo, come praticava don Lorenzo Milani.

L’educazione è un processo umano e bisognerebbe recuperare semplicemente quest’aspetto, senza alcuna aggettivazione di quelle che abbondano ora, ambientale, sessuale, affettiva, civica, digitale.

Insegnamento: non nozioni ma emozioni, non interrogazioni ma interrogativi, non compiti ma competenze, non valutazioni ma valori, non progetti ma progettazioni, non costrizioni ma costruzioni... L’insegnamento è una delle fondamentali relazioni di vita, tra vite. Ne devono tener conto gli insegnanti stessi e i genitori, per perseguire i medesimi obiettivi. Tanto la famiglia quanto la scuola devono educare i bambini non a prestazioni buone ma ad azioni buone.

“Nella didattica appare funzionale modificare non necessariamente la proposta ma il come, i modi, la presentazione, appare necessario trasformare una modalità passiva e trasmissiva in coinvolgimento, ricerca. Bisogna creare curiosità” (cit.), come con la teatralizzazione o il teatro a scuola che non significa, però, teatralizzare o enfatizzare o improvvisare ogni cosa. Questa è una delle metodologie che contribuiscono all’istruzione di qualità e ad attuare gli art. 28 e 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare “prendere provvedimenti atti ad incoraggiare la regolare frequenza scolastica e al riduzione dei tassi di abbandono” (lettera e art. 28).

La formatrice Silvia Bogani spiega: “Per sviluppare la creatività e il pensiero divergente si possono proporre in classe esperienze inusuali di vario tipo, accettando i rischi della novità con spirito di avventura e prediligendo situazioni di complessità crescente. In questi contesti, diventa naturale per gli alunni e le alunne attivare forme di funzionamento cognitivo non utilizzate abitualmente, che portano allo sviluppo di pensieri fluidi, originali e flessibili. Se lo scopo principale dell’istruzione è quello di preparare i giovani alla vita dopo la scuola, occorre progettare interventi didattici efficaci e mirati a potenziare le capacità cognitive, emozionali e sociali degli alunni. Essi avranno così a disposizione un bagaglio di competenze utile ad affrontare, con maggior fiducia, le sfide della vita e a fronteggiare efficacemente l’incertezza e la complessità che caratterizzano la società odierna, partendo da una maggior consapevolezza di sé”. Per educare la creatività e alla creatività bisogna essere innanzitutto insegnanti creativi e tener conto che la creatività non riguarda solo l’arte. Bisogna passare dal paradigma “cosa si insegna” a “come si insegna”: stimolare la creatività dei discenti contribuisce ad applicare tutto quanto è indicato nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo “in tutto l’arco delle sue potenzialità” (lettera a dell’art. 29). Di creatività si parla pure nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile tra imprenditoria e innovazioni.

Fondamentale per la creatività e non solo è la lettura. Federico Batini, esperto di educazione alla lettura, afferma: “Le diverse indagini internazionali e nazionali, condotte nel corso degli ultimi anni, mostrano come l’istruzione sia uno degli ambiti in cui la disuguaglianza sociale sia più visibile e, al contempo, rappresenti l’unico spazio, attraverso il quale sia possibile costruire una società più equa e inclusiva. L’introduzione nel sistema scolastico italiano della lettura ad alta voce condivisa può essere una gigantesca opportunità per ridurre le disuguaglianze e aumentare la democrazia: è proprio ascoltando gli adulti leggere che i bambini aumentano la motivazione alla lettura e iniziano a sviluppare abilità che saranno poi essenziali nella vita e nella lettura autonoma” (in un articolo del 22 maggio 2023). La lettura ad alta voce o condivisa è uno strumento di democrazia e uguaglianza, come già praticava don Lorenzo Milani con la lettura costante della Costituzione.

Attraverso la lettura si condividono e si acquisiscono anche le “regole”. “Le regole sono gli elementi costitutivi di ogni cosa, che sia un gioco, il funzionamento di un organismo, un genere musicale, uno sport. Se voglio svolgere una data attività, creare una specifica condizione, modo di operare o di funzionare, è necessario fare ciò che ne permetta l’esistenza. […] In questa logica, in realtà, non c’è più il seguire le regole o trasgredirle, ma lo scegliere se fare ciò che si sta facendo oppure no. Se non fai ciò che fa esistere il gioco (le regole), il gioco non può esistere: quindi è necessario scegliere se fare o non fare” (cit.). La parola “regole” comincia con il prefisso “re-“ come “relazioni”, perché sono fondamentali per le relazioni interpersonali e sono alla base dell’educazione, della vita stessa. Anche nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile si legge: “[…] un’educazione volta ad uno sviluppo e uno stile di vita sostenibile, ai diritti umani, alla parità di genere, alla promozione di una cultura pacifica e non violenta, alla cittadinanza globale e alla valorizzazione delle diversità culturali e del contributo della cultura allo sviluppo sostenibile” (punto 4.7).

Il pedagogista Mario Maviglia sostiene: “La scuola può fare molto per educare alla pace. Ne era una convinta sostenitrice Maria Montessori la quale sottolineava che se si educa per la competizione questo è già l’inizio della guerra. Infatti solo educando alla cooperazione e alla solidarietà si può sperare che le giovani generazioni ripudino la guerra. Una didattica cooperativa, che favorisce l’espressione e la partecipazione dei bambini e delle bambine, che lavora sulle emozioni e le relazioni è una didattica che sviluppa competenze volte alla comprensione e all’incontro con l’altro, e dunque alla pace. D’altro canto educare alla pace è anche uno dei propositi dell’Agenda 2030 ”. La scuola non è un edificio, un posto, ma un luogo di vita, in cui si hanno grosse responsabilità per il presente e il futuro di tutti.

Oggi si punta molto sull’educazione STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica): che dovrebbe e potrebbe essere semplicemente educare alla meraviglia i bambini partendo dalla naturale curiosità dei più piccoli verso il mondo che li circonda. “La carta non è solo un materiale: è un mondo di possibilità” (cit.): e con l’uso della carta a scuola, non come semplice materiale ma come materia (etimologicamente da “tronco dell’albero”), si può fare tanto.

Il pediatra Giuseppe Di Mauro puntualizza: “L’avvicinamento di bambini e ragazzi alle nuove tecnologie è inevitabile e non può e non deve essere ostacolato. Deve piuttosto essere limitato e guidato verso un uso consapevole e attraverso programmi di alta qualità, compito che spetta in primo luogo ai genitori e agli altri adulti di riferimento, come gli insegnanti”. Quando si parla di educazione digitale bisognerebbe ricordare che ne hanno dapprima bisogno i genitori e gli adulti in generale visto l’abuso che fanno dei device.

Il pedagogista Stefano Manici richiama: “L’umanesimo digitale riconosce l’importanza della tecnica e le esigenze proprie degli esseri umani, si distingue dalle visioni apocalittiche del futuro perché confida nella ragione umana, ma non assume un atteggiamento entusiastico nei confronti delle potenzialità della tecnologia, riconoscendone e sottolineandone i limiti” (in un articolo del 20 settembre 2023). Occorre promuovere l’umanesimo digitale anche in seno alla famiglia diventata sempre più connessa o ibridata, in cui ci si guarda e ascolta poco o nulla, basti pensare alle audiofiabe per la buonanotte o alle mamme che allattano mentre sono intente al cellulare.

“Perché non c’è sostenibilità senza health, human e happiness” (gli esperti aziendali Massimo Lapucci e Stefano Lucchini). Il “fattore H”, cioè salute, umanità e felicità: da recuperare e promuovere in ogni processo non solo produttivo, ma innanzitutto in quello di insegnamento-apprendimento e in ogni processo educativo. Il benessere è innanzitutto un concetto “biopsicologico” ed è questa la dimensione che bisogna o urge recuperare e salvaguardare.

“L’arte del magnificare, cuore di ogni esperienza educativa” (cit.). Educare: appassionare alla vita, appassionarsi alla vita altrui. La scuola non è una fabbrica ma una bottega artigiana, deve fare la differenza e non le differenze.

“Il sapere rende liberi. Tutti i bambini hanno diritto a un’istruzione, con maggiore attenzione per quelli in difficoltà. Perché tutti possano raggiungere gli stessi traguardi” (dal Documento dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza nel 30° anniversario della Convenzione di New York).

La famiglia nella sua quotidianità

Sintesi: La famiglia in genere è un sistema di relazioni solidali circolari

Abstract: L’articolo propone varie immagini per descrivere la ricchezza della vita familiare

Si parla continuamente della crisi di famiglia, del tramonto della famiglia tradizionale, della pluralità delle famiglie ma non adeguatamente di cosa sia la famiglia.

Famiglia: legami (essere legati) e vincoli (sentirsi legati); meccanismi (elementi) e dinamiche (movimenti interiori ed esteriori). La famiglia non è monolitica né statica: bisogna acquisire questa consapevolezza per non cadere e cedere alle prime difficoltà. La famiglia ha bisogno di manutenzione. Come spiega lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro: “‘Manutenzione’ è un termine a prima vista fuori dal nostro contesto perché richiama quelle operazioni che servono a mantenere efficienti e in buono stato impianti, macchinari, edifici. Non è comune un’espressione quale ‘manutenzione d’amore’, anzi si potrebbe ritenere sconsigliabile, perché unisce in una sorta di ossimoro due immagini in apparenza contraddittorie, la presunta pesantezza della manutenzione e la presunta levità dell’amore. Invece, nella manutenzione c’è spesso tanto amore, nel senso di un forte legame di affetto e interesse, o almeno di impegno e diligenza, affinché l’oggetto ‘ben mantenuto’ duri nel tempo nelle migliori condizioni possibili”.

Il sociologo Francesco Belletti scrive: “Ogni famiglia ha nel corso della sua vita persone fragili, dipendenti, spesso per brevi periodi, spesso per lunghissimi anni, o anche per tutta la vita, come nel caso di tanti figli disabili, che i genitori accolgono comunque, ma verso i quali, al termine della propria vita, si rinnova quella domanda inquietante: “E quando noi non ci saremo più, a chi affideremo nostro figlio?”. E se non si riesce a dare risposta, a confidare in qualcun altro, allora la belva della disperazione vince nuovamente”. La famiglia può essere segnata da ferite, pesi, problemi di ogni sorta in ogni fase e non solo quando vi sono bambini o crisi di coppia. La famiglia ha bisogno di solidarietà (e non di chiacchiere) ed è espressione di solidarietà, uno dei principali valori costituzionali (art. 2 Cost.).

Belletti afferma: “La famiglia in genere è un sistema di relazioni solidali circolari, dove ogni persona, l’anziano, il figlio, il bambino, l’adulto, di volta in volta sa/può essere risorsa o bisognoso di cura, e il dono si scambia in una circolarità che si estende anche nel tempo: i nonni sono spesso risorsa di cura ed economica per le nuove generazioni, ma poi chiedono aiuto, compagnia, prossimità, e così, nel tempo, si dà e si riceve, in un circuito in cui nessuno è solo “dipendente dagli altri”, ma è anche risorsa – anche se bloccato in un letto, anche se non più autosufficiente. Alle famiglie servono quindi politiche specifiche, che sappiano leggere queste relazioni, le valorizzino e le sostengano. In modo che anche la società sappia trasformarsi in un circuito di scambi di solidarietà, e non solo in un ambito in cui gli interessi si scontrano, e ogni individuo o categoria è in competizione con gli altri. Per questo il tema della natalità – […] – non riguarda solo i giovani e i bambini, ma interessa tutte le generazioni, e il futuro di un intero popolo” (in un articolo del 24 luglio 2022). Le crisi individuali si riverberano sulla famiglia e viceversa a conferma della rilevanza della famiglia. Non si può stare senza famiglia, basti pensare anche alle discussioni per far riconoscere le varie compagini familiari. Nella famiglia si realizzano vari principi costituzionali, oltre alla solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., anche tutti quei fini sociali o funzioni sociali attribuiti ad altri “campi” umani, quale “la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata” (art. 45 Cost., definizione che si attaglia alla famiglia) o l’elevazione sociale del lavoro (art. 46 Cost. - perché, se si riflette, si lavora sì per se stessi ma soprattutto per il benessere della famiglia e conseguentemente degli altri).

Ancora secondo Belletti bisogna “[…] pensare – e attuare – politiche familiari che non considerino le famiglie come puro “luogo di produzione e riproduzione delle nuove generazioni”, come “strumento per la società”, ma piuttosto le valorizzino come un vero e irrinunciabile ambito di senso, libertà e significato di vita, luogo privilegiato per proteggere la dignità e l’integrità di ogni vita, spazio educativo, generativo e rigenerativo della società, da promuovere e rispettare nella sua intima essenza, fatta di libertà e legami, di dono reciproco, di affetto, cura e corresponsabilità” (in un articolo dell’8 novembre 2022). Nelle politiche familiari e nelle scelte personali bisogna tornare a considerare la famiglia per quella che è, fonte di amore, vita e cura (si legga pure il nuovo Piano nazionale per la famiglia 2025-2027, adottato il 9 dicembre 2024). Bisogna ri-tornare al senso dell’art. 29 della Costituzione, innanzitutto a quello di “società naturale”.

La famiglia è sacrifici immensi e immersi in un oceano di relazioni, situazioni ed emozioni. La famiglia è immagine proprio del sacrificio in senso etimologico, “fare sacro”: “Il sacrificio è il compimento di un’azione sacra che, in quanto tale, celebra il sacro, celebra ciò che importa, celebra il valore che dà un senso a noi stessi e alla vita e non va trascurato, specie nella minutezza della quotidianità” (cit.).

Famiglia, fare famiglia: essere al servizio l’uno dell’altro, mantenersi a vicenda, aiutare a mantenere la croce del componente più debole nell’atassia della vita quotidiana. La famiglia ha dei compiti peculiari per i quali, in caso di difficoltà, deve ricevere l’adeguato sostegno. “Convinti che la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli debba ricevere l’assistenza e la protezione necessarie per assumere pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

La famiglia è quel “luogo” (e non “posto”) in cui si ricevono come non in altri: ascolto (che è altro dall’assentire), aiuto, assistenza, amorevolezza (e non la parola “amore” a ogni piè sospinto come, ormai, si dice a chiunque), attenzione (e non solo attenzioni), accoglienza, accettazione, accordo (che è più dell’andarsi incontro). Tutto ciò fa l’armonia che copre anche le immancabili note stonate.

“[…] Il bosco, se non viene interessato da notevoli eventi devastanti o catastrofici, è perenne, non muore mai, perché si rinnova di continuo, naturalmente, attraverso la disseminazione delle piante mature e la crescita del novellame, in un perpetuo ritmo rinnovatore assieme a tutta la comunità vegetale” (da “Alberologia” di Antonio De Bona). La famiglia è come un bosco con piante mature e novellame e che ha bisogno di essere mantenuto pulito e di prevenzione da incendi.

La famiglia è come una falda acquifera: è necessaria; è fonte di vita; ha percorsi sotterranei o oscuri; ogni acqua ha le sue qualità; può essere inquinata o inaridirsi; può confluire in altre falde.

La famiglia è come una fattoria (dal verbo latino “facere”, fare) che ha una precisa collocazione abitativa, occupazione nell’attività del coltivare e dell’allevare, riconoscibilità all’esterno e ognuno vi ha un ruolo, un impegno.

Famiglia: aspettarsi e rispettarsi; donarsi e “per-donarsi”; accogliersi e raccogliersi (in caso di “cadute”); “acco-starsi” e ascoltarsi, continuare a sostenersi a vicenda, pur zoppicando.

Famiglia: gioie e dolori, di tutti i colori, dalle tinte più tenui a quelle più fosche. È così nel bene e nel male o, forse, più nel male.

“[…] la famiglia è uno straordinario laboratorio di umanizzazione ed è il luogo costitutivo della persona per eccellenza. […] Gioie e dolori, fragilità e risorse, speranze e delusioni, cadute e precipizi, fatiche e riprese sono perle preziose che rendono unica ogni storia familiare. Su queste piccole storie, molto spesso disconosciute, si è sviluppata la storia incredibile del nostro Paese che, proprio grazie alle famiglie, è sempre stato in grado di rinascere e ripartire, anche di fronte alle sfide più dure. Mettiamo le famiglie nelle condizioni di essere ancora una volta il cuore pulsante della nostra Italia” (Adriano Bordignon, direttore del consultorio familiare “Centro della famiglia”). La famiglia è storia e storie, ascese e discese, abbracci e allontanamenti, ma è e rimane il sogno e bisogno di tutti.

La famiglia è faro, bussola e strada di casa. 

L’insegnante nell’era dell’intelligenza artificiale

“Le trasformazioni sociali in atto lanciano nuove sfide educative agli insegnanti che, per rispondere in modo adeguato, sono chiamati a modificare i loro codici comunicativi abituali per creare alleanze pedagogiche valide, attraverso l’utilizzo di metodi attivi di apprendimento che favoriscano un coinvolgimento più profondo degli studenti e promuovano un’esperienza educativa più dinamica ed efficace” (cit.). Gli insegnanti sono chiamati sempre più a essere professionisti dell’apprendimento e non semplicemente esecutori o mediatori. Lo stesso vale (o varrebbe) per i genitori per il loro ruolo educativo.

Enrico Galiano, scrittore e insegnante, afferma: “Il pessimo insegnante ti tratta come uno studente, il bravo insegnante ti vede come una persona. Il pessimo ti fa sentire stupido, il bravo ti fa sentire intelligente, il pessimo ti fa sentire un contenitore da riempire, mentre il bravo ti fa vedere che sei già pieno di qualcosa e che hai solo bisogno di scoprire che cosa”. La (buona) scuola non è quella più dotata di nuovi spazi, laboratori, dispositivi, esperti e altro ancora, ma è quella costruita su relazioni incisive, positive, significative.

Il pedagogista Daniele Novara scrive: “Chi non ha avuto un insegnante che gli è rimasto nella memoria come figura positiva, che gli ha dato qualcosa in più, che ha lasciato un segno? Il bello dell’insegnare, al di là di tutte le frustrazioni, è proprio questa possibilità di relazione forte e sostanziale con i propri alunni. Certo, non sempre gli insegnanti sono all’altezza di questo compito”. Insegnare non è finalizzato ad assegnare compiti ma svolgere al massimo il proprio compito per consegnare compiti di vita.

Daniele Novara aggiunge: “[...] è più comodo e facile «usare» l’insegnante di sostegno per un’assistenza scolastica esclusiva e riservata al disabile, portandolo fuori dal gruppo, piuttosto che sviluppare una classe che sappia lavorare assieme e condividere i compiti di crescita. Ma pensare che una legge gestita male sia sbagliata e ipotizzare il ritorno a uno stato precedente è come chiedere il ripristino della pena di morte solo perché ci sono troppi delinquenti in giro”. Ogni insegnante dovrebbe essere considerato “di sostegno”, perché ogni alunno in quanto persona (e non certificato) è portatore di differenza e fragilità e l’insegnamento è dare un sostegno con-sapevole e com-petente durante la crescita più o meno irta di difficoltà, che sono le disabilità comuni.

“Cos’è l’educazione se non un processo “magico” in cui gli elementi che abbiamo a disposizione sono continuamente adattati, capovolti, rovesciati, trasformati e rimescolati come in una pozione, a seconda delle esigenze dei nostri studenti? Se così intendiamo l’educazione allora sì, noi insegnanti possiamo definirci dei maghi! In fondo troviamo soluzioni, strategie, percorsi, capaci di dare luce alle nostre idee e a quelle dei nostri allievi” (cit.). “Magia” significa etimologicamente “ingrandire, onorare, festeggiare” e l’educazione è magia perché ingrandisce, onora, festeggia

qualcosa che già c’è in ogni bambino e agisce così con ogni risorsa o in ogni situazione. “[…] l’educazione del fanciullo deve tendere a promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo, dei suoi talenti, delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutto l’arco delle sue potenzialità” (art. 29 lettera a Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

La vera magia dell’insegnamento e nell’insegnamento è la libertà di insegnamento (art. 33 Costituzione). L’insegnamento è una forma di libertà di stampa. Anche i bambini e i ragazzi hanno diritto alla libertà di stampa ai sensi dell’art. 13 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia che si esplica nei disegni, nei testi e in ogni altra forma di espressione.

Magia e libertà che si esercitano anche nella lettura, come sottolineano i formatori Federico Batini e Martina Evangelista: “Il teorico della letteratura statunitense Jonathan Gottschall sostiene che “le storie sono macchine dell’empatia” e cita uno studio che dimostra come i giovani lettori della saga di Harry Potter non solo si immergano nelle emozionanti avventure del protagonista, ma anche nel suo atteggiamento personale di tolleranza. L’insegnante che in classe legge storie, dunque, non sta solo facendo un regalo alle bambine e ai bambini, contribuendo a creare un’atmosfera piacevole, dinamica e al tempo stesso rilassata, non sta facendo italiano, non sta promuovendo la crescita di future lettrici e futuri lettori; sta facendo tutto questo, ma soprattutto sta allenando la capacità delle proprie studentesse e dei propri studenti di essere umani. Grazie all’incontro, e talvolta anche allo scontro, con tante trame differenti e insolite offriamo a ciascuno un giro intorno al mondo senza spostarsi fisicamente dall’edificio scolastico, realizzando un vero e proprio laboratorio di educazione alle differenze”. La lettura ad alta voce è un’attività polivalente che adempie a tutti gli obiettivi educativi dell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Non è necessario perciò farla seguire (ogni giorno) da altra attività come la rappresentazione grafica o la sintesi di quello che si è letto.

La lettura è anche un ottimo strumento per la valutazione e autovalutazione. “L’autovalutazione è un processo che mette lo studente al centro del proprio percorso formativo, rendendolo consapevole e attivo nei suoi apprendimenti. Questo strumento è essenziale per sviluppare autonomia e capacità di autoregolazione, permettendo allo studente di riflettere sulle proprie conoscenze, abilità e competenze. Come evidenziato nell’art. 1 del D.Lgs. 62/2017: «La valutazione… promuove l’autovalutazione di ciascuno in relazione alle acquisizioni di conoscenze, abilità e competenze»” (cit.). Valutare significa letteralmente “dare valore” e non giudizi o voti, per cui è un processo davvero importante giacché si impara a dare valore a ciò che vale, etimologicamente ciò che è sano, che merita pregio. Ancora più determinante è l’autovalutazione perché è un aspetto dello sviluppo della personalità. Quanto fa o non fa la scuola e ogni singolo insegnante!

“L’insegnante creativa è una regista dell’apprendimento e maga dell’improvvisazione, trasforma ogni lezione in un’avventura su misura per menti curiose, capace di scatenare passioni e talenti di ogni studentessa e di ogni studente. L’insegnante narratore è l’erede segreto dei cantastorie, sa che un buon racconto vale più di mille schede didattiche e porta ragazze e ragazzi a bordo del tappeto volante, all’interno delle lezioni, attraverso il potere fascinoso delle storie. Per aiutarli a sprigionare e creare contenuti che ricorderanno per sempre. L’insegnante green coltiva menti come semi, costruendo lezioni che fioriscono di sostenibilità e fanno germogliare, piante, dati, idee. Nutre le idee che dissemina in classe e crea radici profonde, che si innestano nell’esperienza di ragazze e ragazzi, per far sbocciare un apprendimento destinato a durare per tutta la vita” (cit.). Per educare alla creatività, alla lettura, alla natura, l’insegnante deve avere già in sé queste qualità e crederci, lavorare in maniera laboratoriale, progettuale, senza la necessità di formalizzare progetti o altre iniziative. Per educare e insegnare bisogna avere metodo e non un determinato metodo. Occorrono principalmente osservazione e organizzazione. Teatro e educazione sono due elementi strettamente connessi perché l’aspetto fondante di entrambi è la relazione. Nel laboratorio teatrale il conduttore ha il compito progressivo di contenere, indirizzare e dirigere il gruppo, deve essere in grado di padroneggiare professionalmente competenze teatrali e pedagogiche. Così il ruolo dell’insegnante a scuola, tra compiti e competenze.

“Prima che insegnanti, siamo persone e la chiave per fare bene il nostro lavoro è essenzialmente essere noi stessi, autentici. Per esserlo “è sufficiente” portare tutti noi stessi dentro ad ogni lezione. Per prima cosa è importante conoscere noi stessi, scoprire i nostri punti di forza e quelli di debolezza, scoprire cosa ci mette in difficoltà e cosa ci esalta da matti. Se sei consapevole di tutto questo il tuo non può che essere un percorso autentico” (cit.). L’autenticità, l’autorialità, l’operare da sé, sono il contrario dell’autoreferenzialità, dell’artificiosità che caratterizzano talvolta l’insegnamento.

“Don Lorenzo Milani: «Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola… Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi, mentre loro mi hanno insegnato a vivere». Impariamo da Don Milani a guardare il mondo con occhi nuovi, capaci di scorgere la bellezza e la ricchezza presenti in ogni persona” (cit.). L’insegnante è colui che insegna, è più grande dei suoi discenti solo per età ed esperienza ma, per il resto, continua a crescere e ad apprendere con loro. L’aver seguito un corso di studi e conseguito un titolo non significa essere “arrivati”. Una delle qualità dell’insegnante “per arrivare” agli alunni è l’umiltà, strettamente correlata all’empatia continuamente evocata a scuola, in quanto si dice ripetutamente di insegnare con empatia e di insegnare l’empatia.

L’empatia non si insegna (meno che mai a scuola) ma si coltiva e si concima in relazioni empatiche, dalla famiglia in poi. E l’insegnamento-apprendimento è una delle relazioni empatiche più rilevanti nella vita di ciascuno che nessuna forma di intelligenza artificiale può uguagliare. 

La responsabilità dei genitori per la salute dei figli

Abstract: L’articolo si propone di evidenziare le ripercussioni che le scelte, spesso inconsapevoli, dei genitori hanno sulla salute e vita dei figli

Lo psicoterapeuta Alberto Pellai nel “decalogo per proteggere i nostri bambini” (2018) al n. 9 ha definito il diritto dei bambini alla salute: “Diritto alla salute, alla prevenzione primaria, alla tutela del benessere psico-fisico, condizione resa sempre più difficile dalle sollecitazioni che i minori ricevono a vivere sedentariamente, mangiare in modo sregolato e poco valido dal punto di vista nutrizionale e dal fatto che la tutela della loro salute è resa sempre più difficile in un Sistema Sanitario reso precario dalla crisi economica e in cui la figura del pediatra è quantitativamente sempre più scarsa sul territorio nazionale”. Tutti elementi che sostanziano il diritto alla salute, a cominciare dalla prevenzione primaria, di cui i primi responsabili sono i genitori e non altri.

Lo psicoterapeuta Claudio Risé denuncia: “L’Italia ha uno dei più alti tassi di bambini obesi, nei quali proprio le “malattie non comunicabili” [diabete, obesità e altre] si innescano prima del tempo, e questo genera e genererà malattie che diventano croniche, se non si attua un cambio di stile di vita. E poi non bisogna aver paura della fatica: di quella dei propri figli, ma nemmeno della propria fatica di genitori. Anzi, occorre considerare queste fatiche come una risorsa, come un fattore di sviluppo”. Nella Carta di Ottawa per la promozione della salute (1986) si legge: “La promozione della salute sostiene lo sviluppo individuale e sociale fornendo l’informazione e l’educazione alla salute, e migliorando le abilità per la vita quotidiana. In questo modo, si aumentano le possibilità delle persone di esercitare un maggior controllo sulla propria salute e sui propri ambienti, e di fare scelte favorevoli alla salute”. Occorre, più che in passato, informare e formare i genitori affinché a loro volta lo facciano con i figli.

Il pedagogista Daniele Novara scrive: “Una scena comune è quella del bambino di 3-4-5 anni al ristorante che maneggia un telefonino o un tablet, «perché così sta tranquillo, non disturba e noi mangiamo in pace» si difendono i genitori. Molti di questi, infatti, non si pongono il problema, mentre ce ne sono altri che per fortuna sono estremamente allarmati dall’uso non corretto delle tecnologie e cercano di capire come sostenere ed educare i propri figli in questa direzione”. Spesso nel crescere un figlio ci si preoccupa di tutto ma non dell’essenziale, gli si fornisce tutto ma non lo si osserva trascurando la visione integrale della salute e del benessere del bambino. Per esempio molti bambini sanno maneggiare tablet, playstation o altro ma non sanno giocare, non provano il gusto di giocare, non sono avviati al gesto grafico e hanno seri problemi di fatica grafomotoria.

La consulente educativa Silvia Iaccarino riporta: “[…] come gli studi evidenziano, il bambino è un essere senziente, autocosciente, in grado di esperire la realtà in modo profondo già dalla gravidanza, il suo vissuto in utero e al momento della nascita rappresenta una pietra miliare nella sua esperienza emotiva, in grado di tracciare le prime impronte sul Sé e di generare una prima forma di imprinting nella lettura della realtà stessa da parte del neonato”. Prepararsi ad essere genitori non è tanto consultare manuali e rivolgersi a specialisti quanto partire dalla consapevolezza che il figlio è altro da sé e che è fondamentale e unica già la sua vita intrauterina che è una dimensione speciale in cui sperimenta le prime emozioni e le prime relazioni. Bisogna migliorare le conoscenze per migliorare lo stato di salute, come si legge anche nella Dichiarazione di Jakarta sulla promozione della salute nel 21° secolo (1997).

È perciò necessario che i genitori maturino e rivelino un’adeguata intelligenza emotiva, devono conoscere il mondo bambino e avere la consapevolezza che ogni loro scelta ha conseguenze immediate o successive sulla vita e la salute dei figli. Per esempio separarsi e intraprendere una nuova relazione, anche con una comunicazione chiara e diretta e senza alcuna conflittualità tra i due, non è detto che avvenga in maniera indolore perché i bambini hanno un’altra prospettiva, vivono un’altra dimensione, concepiscono i genitori uniti e temono per loro e per se stessi quando li vedono separarsi e si devono allontanare necessariamente da uno di loro perché reagisce così il loro sistema nervoso. Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro analizza: “Secondo i pediatri più attenti e sensibili, la situazione di conflittualità e tensione in famiglia non è sempre percepita dai genitori come informazione importante da comunicare al pediatra. Alcuni dei sintomi che portano il bambino alla consultazione in ambulatorio e che spesso vengono considerati in prima battuta prevalentemente dal punto di vista somatico, vanno approfonditi in vista di un corretto approccio diagnostico e terapeutico. Questi sintomi possono esprimere una situazione di sofferenza e nascondere una richiesta di aiuto da parte del bambino che solo un ascolto attento e consapevole può accogliere e comprendere. Capita spesso che i figli, di qualunque età, coinvolti in dissidi esasperati tra i loro genitori, non sappiano a che santo votarsi per chiedere aiuto”.

Fulvio Scaparro aggiunge: “Tra le paure, o meglio le angosce, che portiamo in dote alla nascita, la prima è l’angoscia della separazione. Nella storia della nostra specie i neonati, cresciuti in stretta prossimità dei genitori hanno avuto maggiori probabilità di sopravvivere alle minacce onnipresenti dei predatori esistenti nel contesto dell’evoluzione umana. La separazione dai genitori suscita angoscia nei bambini, il cui sistema nervoso è dotato di un dispositivo di allarme evolutosi durante l’età della pietra. Il sistema segnala automaticamente la separazione dall’adulto con funzioni genitoriali e il pericolo potenziale. L’attaccamento fa dunque parte della nostra eredità psicobiologica. I comportamenti di attaccamento hanno assicurato nel remoto passato la protezione contro le minacce ambientali alla sopravvivenza, accrescendo così la probabilità che l’individuo solidamente attaccato potesse vivere abbastanza a lungo da riprodursi. In questo modo, la predisposizione ad allevare i figli si è diffusa in tutto il pool genetico umano. La risposta di angoscia e di sofferenza a una separazione prematura non è caratteristica dei piccoli umani ma è evidente in tutti i primati che l’hanno selezionata come più favorevole alla sopravvivenza.

Questa risposta di allarme e di sofferenza per la mancanza delle provvidenze necessarie alla sopravvivenza è presente nei bambini dalla nascita. Non è culturale ma del tutto naturale e funzionale alla sopravvivenza della specie”. È vero che gli adulti hanno il diritto di separarsi quando la coppia coniugale o convivente diventa disfunzionale, ma hanno altresì il dovere di conoscere le dinamiche psicologiche e neurologiche dei bambini e fare di tutto per tutelare la loro salute. In queste circostanze i genitori dovrebbero tener conto di quanto enucleato nella Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori (2018), tra cui l’art. 3: “I figli hanno il diritto di essere informati e aiutati a comprendere la separazione dei genitori”.

Il pediatra Giorgio Tamburlini spiega: “L’ambiente familiare, nelle sue diverse componenti, dagli stili genitoriali agli spazi, agli oggetti e alle routine, è importante e può essere decisivo ai fini dello sviluppo del bambino” (in un articolo del 2020). La salute di ogni persona e di tutti dipende dalle scelte, come si ricava anche dalla Carta di Ottawa per la promozione della salute, in cui una delle parole più ripetute è “scelte”, per cui i genitori devono essere consapevoli che le loro scelte si ripercuotono sulla salute e vita dei figli (in passato mancava la conoscenza, oggi manca proprio la consapevolezza).

Un’altra dinamica di cui tener conto nell’ambiente familiare è la gelosia tra i figli. “La gelosia è un sentimento naturale che può emergere nel bambino con la nascita di un nuovo fratellino o sorellina. La gelosia che il bimbo può provare esprime la preoccupazione di non essere più l’unico bambino amato dai genitori. L’emergere di questa emozione, nonostante possa portare a delle discussioni, sarà utile al piccolo per maturare. Infatti, imparare a gestire la gelosia fin da bambini in maniera positiva aiuterà gli adulti di domani nelle loro relazioni. Il rapporto tra fratelli e sorelle si può considerare una “palestra emotiva”, dove il bambino può esercitarsi a costruire un rapporto basato sulla fiducia e la comprensione. Tutti i bambini possono provare gelosia e per questo è importante che i genitori imparino ad individuare e gestire positivamente questo sentimento nei loro figli” (un team di esperti). Gestire la gelosia dei figli nei confronti degli altri fratelli è un aspetto della responsabilità genitoriale perché riguarda anche la salute dei bambini, il loro sviluppo armonico e le loro relazioni presenti e future.

Inoltre, uno degli stili genitoriali più inadeguati è quello dei genitori “guardie del corpo”, che temono continuamente che i figli si facciano male o che si sporchino o altro che riguardi solo il fisico e l’aspetto. In realtà così facendo non tutelano la salute dei figli ma la compromettono nella sua interezza psicofisica (art. 24 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

I genitori sono coloro che danno al figlio la vita e la giusta cura (per non incorrere nelle patologie delle cure genitoriali): “Pensare al bambino come ad un essere mancante di certe capacità o pensarlo, invece, come una persona intera le cui forme dell'esserci sono già tutte presenti seppure in forma germinale e attendono solo di essere nutrite ha implicazioni rilevanti nel modo di intendere la cura educativa” (la pedagogista Luigina Mortari in “Filosofia della cura”, 2015).

In conclusione, i genitori sono i primi che dovrebbero maturare una nuova cultura dell’infanzia e dell’adolescenza e rispettare la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Già nel 1932 Maria Montessori, a proposito di pace, sosteneva: “[…] per iniziare una sana ricostruzione psichica degli uomini, bisogna rifarsi al bambino: bisogna riconoscere in lui non il figlio, non la creatura su cui si concentrano le nostre responsabilità; bisogna studiarlo non come creatura dipendente, ma come un essere indipendente che va considerato per se stesso”.