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Diventare padre, fare il papà

Abstract: L’articolo conduce alla riscoperta della figura del padre, del suo ruolo indispensabile per la crescita e lo sviluppo dei figli affinché diventino anche adulti autonomi e responsabili

 

“[…] con l’eclissi della figura paterna viene meno la capacità del padre di dettare regole di vita e norme morali nella gradualità della crescita dei figli, come anche i diversi modi nei diversi tempi di un ingresso maturo e sereno dei giovani negli ambienti extrafamiliari come la scuola, gli amici, il tempo libero, la vita culturale, lo sport ecc. Sono compiti che vengono ignorati o mal vissuti da padri insicuri, che rendono a loro volta insicuri i figli, nei confronti dei quali a volte si reagisce con l’indifferenza o con un autoritarismo privo di fondamento e inefficace sul piano dialogico-educativo, oppure con forme di cameratismo fuori posto anzi nocive. Si tratta di un modo facile per scaricare gli esiti della propria fragilità sulle generazioni più giovani, alle quali spesso viene ingiustamente attribuita ogni incapacità e ogni genere di insicurezza. Appare sempre più urgente un servizio di consulenza gratuito messo a disposizione dalle istituzioni per accompagnare i genitori, specialmente sulla figura del padre, perché si riapproprino del loro ruolo educativo, con canoni e principi proposti in termini appropriati al nostro tempo, con linguaggi e forme di nuova comunicazione, per aprirsi un varco anche nell’universo virtuale nel quale i nostri figli sono immersi già dalla prima infanzia. Ma in questa situazione di assenza del padre non è consigliabile alle madri di sommare i due ruoli nella sua sola persona. In altre parole, la donna non è chiamata a supplire il partner nel suo ruolo di padre. Tutt’al più alla donna deve stare a cuore che il partner riacquisti sicurezza, e assicuri in tal modo un futuro più stabile, sia nella vita coniugale, sia in relazione ai figli” (la studiosa Ina Siviglia, novembre 2023). La figura paterna sembra essere legata a stereotipi, per cui prima si è passati dal “padre padrone” al “mammo” e ora all’eclissi del padre. Il termine “eclissi” induce a riflettere sull’immagine del sistema solare con cui può essere paragonata la famiglia, mentre il rapporto tra genitori e tra genitori e figli può essere assimilato a quello tra pianeti e satelliti: ognuno ha la propria orbita, la propria atmosfera, la propria forza di gravità, risponde a delle regole.

 

Significativa la formulazione dell’art. 1 della L. 405/1975 “Istituzione dei consultori familiari” in cui si legge del servizio di “assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile”, ancor più necessarie oggi. La paternità ha sempre suscitato più problemi rispetto alla maternità, per esempio in passato per il riconoscimento giuridico, oggi per il riconoscimento sociale.

Lo psicoanalista Massimo Recalcati puntualizza: “La parola che rappresenta il padre è il “no”. Il padre è il custode della legge. Il “no” rappresenta l’esistenza dell’impossibile, cioè che non tutto è possibile, che non si può fare tutto, che non tutto è dovuto. Non in maniera sadica, patibolare, ma umana e con la possibilità dell’eccezione” (nella lectio magistralis del 15 febbraio 2020 a Matera). Che sia paternità o figura paterna o ruolo paterno o codice paterno, ogni figlio e qualsiasi famiglia (con qualsiasi compagine, omogenitoriale, monogenitoriale, ricomposta…) ne hanno bisogno.

 

Anche nei casi di maternità surrogata o di famiglie omogenitoriali o altre configurazioni familiari, bambini e ragazzi hanno bisogno di “conoscere” e “credere” nella paternità (che sia divina o umana, spirituale o fisica, biologica o adottiva), hanno bisogno di credere in un’origine per affrontare e edificare la loro vita. A tale proposito è bene ricordare il diritto a conoscere le proprie origini riconosciuto ai figli adottivi (art. 28 L. 184/1983 novellata) e le teorie (o studi) della psicogenealogia, tra cui la cosiddetta “sindrome degli antenati”.

Non si devono “togliere” i papà ai bambini perché ne hanno bisogno, nel bene e nel male, e hanno innato il senso di paternità per elaborare, poi, una loro identità (si veda, tra i tanti film sul tema, “Papà per amore” o si legga il libro per l’infanzia “Bastoncino”). Se credono in Babbo Natale, figuriamoci nei loro papà!

 

La paternità adotta un codice differente e deve trasmettere queste differenze: anche così si esprime l’autorità (dal latino “auctor”) paterna di cui si ha bisogno e la cui mancanza ha portato allo smarrimento e all’esautorazione generale. Il pedagogista Cesare Scurati, nel suo elenco dei diritti dell’infanzia, annoverava “il diritto all’autorità” dopo il “diritto alle radici” e altri (in “Fra presente e futuro. Analisi e riflessioni di pedagogia”, 2001). La paternità è coronamento, completamento, consolidamento della maternità. Come si ricava dal film “post-apocalittico” “The Road” (2009): “Un padre e il suo bambino camminano su strade sconnesse, piovose e deserte, morsi dal freddo, dalla fame e dalla paura. Spingono un carrello del supermercato con viveri e indumenti essenziali, verso un’introvabile costa del Sud, dove sperano di sopravvivere ai prossimi gelidi inverni. La notte è «più buia del buio e un giorno più grigio di quello passato». Gli alberi cadono, gli uccelli hanno disimparato a volare. La mamma non c’è. Lei, bellissima, sensuale, affettuosa, talentuosa anche nella musica, era troppo sensibile al dolore e non riuscì a reggere quello spettacolo di rovine” (dalla recensione del bioeticista Paolo Marino Cattorini, aprile 2021).

 

Efficaci le parole della scrittrice Melania Gaia Mazzucco “[…] è stato il peggior padre che si possa immaginare. Mi ha ostacolato, intralciato, ha tentato di assassinare le mie passioni e i miei sogni […]. Eppure gli devo tutto ciò che sono, e se potessi dare la vita per la sua non esiterei un istante” (dal romanzo “L’architettrice”, 2019). Il legame non è un vincolo, è qualcosa che si sente anche se non si vede e che non si deve affinché lo si veda: così la paternità, un legame molto particolare. Paternità: entrare in rapporto, stabilire un contatto con un proprio codice di comunicazione con i figli, ancor di più se si tratta di figlie. Uno degli esempi più belli di paternità nei confronti di una figlia è stato quello di Teone di Alessandria (IV sec. d. C.), filosofo e matematico greco, che tenne come allieva e, poi, come collaboratrice sua figlia Ipazia (presumibilmente rimasta senza madre).

 

La difficoltà del ri-conoscimento del padre è ben descritta dallo scrittore Paolo Di Paolo: “[…] un uomo che sta per diventare padre non lo riconosci da niente: nessuno gli cede il posto, nessuno gli fa largo, nessuno suppone di doverlo proteggere o compatire, […] non è così per le donne, perché, poi, da qualche parte – visibili, stupefatte, e sole, in quella devastante metamorfosi – ci sono le madri” (nel romanzo “Lontano dagli occhi”, 2019). Paternità non è solo riconoscere il figlio ma essere conosciuto e riconosciuto come padre e diventare papà. Perché ogni parola ha la sua essenza: genitori, genitore, padre, papà. Occorre riflettere sulla differenza tra paternità, figura paterna, padre e papà (o babbo), anche per il bene dei figli.

 

Nel gennaio 2023 è stato avviato per la promozione della paternità (ma anche con altri obiettivi, in primis la prevenzione della violenza di genere) il progetto europeo 4E-PARENT (in Italia è organizzato dall’ISS, Istituto Superiore della Sanità), sulla scia di un precedente progetto. Le quattro “E” riepilogano i presupposti del progetto: Early, per la partecipazione da subito, Equal a indicare un approccio paritario ed equo, Engaged che richiama la partecipazione attiva e Empathetic per la valenza empatica, accudente e responsiva. Le quattro “E” dovrebbero caratterizzare la genitorialità, indipendentemente dal progetto europeo. Quell’accudimento già attribuito ad entrambi i genitori nell’art. 7 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Il pari (che non significa uguale) accudimento che è già gestito nel mondo animale, come i casi più riportati dell’ippocampo e del pinguino.

 

Mentre la maternità si palesa con segni evidenti già nel corpo, la paternità è una potenzialità per cui il padre, più della madre, deve imparare a palesare, a manifestare, ad esercitare la sua genitorialità. E, per questo, in talune situazioni i padri sono più “accondiscendenti” nei confronti dei figli perché provano difficoltà simili a quelle dei figli nel loro percorso di maturazione. Un padre è capace di dare o togliere tanto: quanto dipende da lui, nel bene e nel male. Quanti grandi uomini sono diventati tali anche per reazione al padre o per azione del padre, dal poeta Giacomo Leopardi, contrastato dal padre, allo schermidore Paolo Pizzo, allenato dal padre. Non si impedisca ai padri di esercitare la paternità e i padri non siano impediti nell’esercitare la loro personale paternità.

 

Papà separati, disoccupati, allontanati, inadeguati, rifiutati, bistrattati... talvolta è proprio nell’assenza e nelle mancanze che si coglie il vero (o autentico) senso della paternità.

 

“Il nostro mondo ha bisogno di riscoprire la paternità: il prendersi cura dei figli senza trattenerli per sé, ma educandoli all’autonomia, perché possano spiccare il volo con gratitudine” (cit.). La paternità non è (solo) geneticità ma generatività di cui si ha bisogno ogni giorno nell’aridità circostante.

Uno degli aspetti più profondi della paternità: braccia che, in silenzio o invisibilmente, avvolgono e sostengono nel bisogno e nel sogno (braccia che fanno venire in mente com’è cominciata la paternità adottiva del giornalista Franco Di Mare quando “prese” la figlia adottiva tra gli orfani di guerra). Come il muratore, uno dei lavori più rappresentativi della paternità: mettere su la vita del figlio che, poi, se la gestisce autonomamente.

 

La paternità non è e non sia una palla al piede o un palliativo per i propri irrisolti o, in tarda età, garantirsi un erede.

Padre: non è superare il test di paternità ma essere teste di paternità. Paternità: passare dalla forza di padre all’amore di papà.

Un bimbo si strofina affettuosamente al viso barbuto del papà: una bella immagine di vita come, tenera e ispida, è la paternità, la vita.

“Edu-care” al “ben-essere”

Abstract: L’articolo si propone di indicare agli adulti il percorso da seguire per non intrappolare i bambini nei loro schemi preconfezionati ma condurli e accompagnarli alla piena realizzazione di se stessi

 

A causa dello stile di vita odierno (uso incessante di device, maggior parte del tempo passato fuori casa, figli unici, individualismo,…) aumentano il malessere, l’incomunicabilità, disturbi della personalità e di altra natura.

Si trascura quella che è la principale forma di prevenzione e che è la relazione alla base di ogni altra relazione umana: l’educazione. Relazioni fondamentali e imprescindibili come dichiarato nella Carta di Ottawa per la promozione della salute (1986), in particolare: “Gli inestricabili legami che esistono tra le persone e il loro ambiente costituiscono la base per un approccio socio-ecologico alla salute” (obiettivo che è nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile).

 

Una delle branche delle scienze umane che si occupano di queste tematiche è la pedagogia interculturale i cui esperti, tra cui Agostino Portera, affermano che perseguire obiettivi educativi a lungo termine in una società «liquida», che vive tutto a breve termine, e contribuire alla formazione dell’identità personale e culturale senza provocare crisi di identità o generare conflitti ma trasmettendo ai ragazzi «la consapevolezza delle proprie radici», è la sfida più impegnativa cui sono chiamati oggi insegnanti ed educatori riscoprendo i vari significati scientifici di “identità”, “conflitti” e “radici”; si pensi, per esempio, alla rilevanza dei concetti di “identità”, “conflitti” e “radici” nella psicogenealogia. Concetti altrettanto espressi nell’art. 29 lettera c Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “[…] inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali del Paese in cui vive, del Paese di cui è originario e delle civiltà diverse dalla propria”. Solo un albero ben coltivato, con radici profonde e ben irrorate, può essere poi potato e/o innestato. Come richiama la pedagogista Luigina Mortari: “Pensare al bambino come ad un essere mancante di certe capacità o pensarlo, invece, come una persona intera le cui forme dell’esserci sono già tutte presenti seppure in forma germinale e attendono solo di essere nutrite ha implicazioni rilevanti nel modo di intendere la cura educativa” (in “La filosofia della cura”, 2015). Educare è avere cura dell’essere, creare e preservare il ben-essere: “cura”, “benessere” e altre espressioni introdotte per la prima volta in maniera specifica in un atto normativo nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, si veda innanzitutto l’art. 3.

 

Anche Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, sottolinea l’importanza delle radici: “La ricerca di radici è uno dei motivi fondamentali dell’esistenza umana. Dovremmo fare in modo che anche ai minori privi di radici venga offerta la possibilità di crearsene di nuove”. Le radici servono per cominciare e continuare, per attingere ed elevarsi, per divenire unici e uniti. Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si menziona il termine “identità” per due volte, come uno dei diritti personalissimi (o diritti della personalità) nell’art. 8 e come obiettivo dell’educazione nell’art. 29 lettera c; è, pertanto, una delle più grandi responsabilità degli adulti.

Il pedagogista Daniele Novara afferma: “[…] si parla tanto con i bambini e i ragazzi, è diventato un obbligo essere espansivi, chiacchierare, discutere. La faccenda funziona finché resta nei binari dell’educazione, viceversa diventa un equivoco quando i genitori non considerano l’età dei figli e suppongono che i loro discorsi debbano essere presi alla lettera e gestiti come parole uscite da persone già adulte. In questo modo i conflitti diventano inevitabili”. Non a caso nell’art. 12 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si precisa “[…] dando alle opinioni del fanciullo il giusto peso in relazione alla sua età ed al suo grado di maturità”.

 

Sul ruolo educativo dei genitori la saggista Lucetta Scaraffia scrive: “[…] il tempo che abbiamo a disposizione, nonostante l’allungamento della vita, non è poi così lungo: o fai una cosa o ne fai un’altra. La vita quotidiana è piena di piccole scelte che influiscono sul nostro futuro. E quei ragazzi che sprecano la vita nelle notti di sballo […] mi fanno solo una pena infinita perché so per esperienza che solo pochi di loro riusciranno a riprendersi da un inizio così povero e negativo. E sono furiosa, sì, furiosa con tutti quei genitori che permettono ai figli di rovinarsi la vita, perché non sanno fare la fatica di dire dei no. Perché non vogliono fare gli educatori, ma pensano di essere i proprietari di un oggetto gratificante”. Dire no ai propri figli non è solo educativo, ma anche doveroso perché il no fa parte della vita, a cominciare dal concepimento in cui solo uno spermatozoo ce la fa e agli altri viene detto no dalla vita stessa. “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

 

Secondo il filosofo Adriano Fabris: “Abbiamo paura di rimarcare differenze e specificità anche quando esse riguardano l’essere umano. Pare che sia meglio arrenderci all’indifferenza. E questo paradossalmente accade proprio quando, nel mondo, ciascuno – collettività, gruppi, individui – tende invece a rimarcare la propria differenza dagli altri e manifesta il diritto a rivendicarla pubblicamente: sia essa religiosa, etnica, oppure sessuale. Fino alla parcellizzazione estrema. Fino all’indifferenza che, paradossalmente, è generata dal proliferare di tutte le possibili differenze. Se le cose stanno così, si comprende il motivo del nostro disorientamento riguardo a noi stessi, con tutto ciò che comporta. E allora diventa indispensabile tornare a riflettere su quello che siamo e che possiamo essere”. I bambini hanno bisogno e devono essere educati alle differenze. Oltre alle motivazioni psicologiche e sociologiche vi sono quelle giuridiche che si possono ricavare, tra l’altro, dall’art. 7 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia ove si legge “acquisire una nazionalità” che è una delle prime specificità che caratterizza ogni persona. Nel successivo art. 8 della Convenzione vi è scritto “il diritto del fanciullo di conservare la propria identità, nazionalità, nome e relazioni familiari”. I due verbi usati “acquisire” e “conservare” inducono adulti e istituzioni a riflettere.

 

A proposito di educare alle differenze, uno degli errori educativi più frequenti è chiedere ai bambini quale genitore o nonno o insegnante preferiscano. I bambini vanno educati ad accettare e non a selezionare, ad accogliere e non a respingere, come si evince pure dall’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Sull’educazione alle differenze di genere Lucetta Scaraffia sostiene: “Non basta dire agli uomini che devono cambiare: bisogna prepararli fin da piccoli, in famiglia e a scuola. E alle ragazze va insegnato che l’eguaglianza sessuale per loro può essere una trappola, perché in tale ambito sono diverse dagli uomini. Quando l’ideologia prende il sopravvento sulla realtà a pagare sono sempre i più deboli. Lo insegna la storia”. Significativo è quanto scritto nell’art. 29 lettera d della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “preparare il fanciullo a […] uguaglianza tra i sessi”. “Uguaglianza tra i sessi” non è “uguaglianza dei sessi”: il “tra” prelude a una relazione interlocutoria, continua e costruttiva con persone portatrici di differenze. Sulla sensibilità degli uomini: “Quando gli uomini parlano in nome e per conto delle donne, riescono a dire cose che una donna non riuscirebbe a dire” (cit.). Uomini e donne sono “differenti”, “che portano da una parte all’altra”, e non “diversi”, “che volgono in opposta direzione”, e solo insieme possono “scrivere” bei versi: in tal senso deve essere orientata l’educazione sentimentale e sessuale.

 

“Testiamo le nostre emozioni lasciando per una volta le briglie sciolte al desiderio. Soprattutto non esageriamo con le pretese verso noi stessi. Teniamo in serbo il nostro rigore per quando ci sarà da lottare” (lo scrittore Simone Perotti). La propria conoscenza è la base per ogni educazione, ancor di più dell’educazione emozionale e socio-affettiva (in altre parole quella educazione all’affettività, generalmente demandata alla scuola).

Lo psichiatra Eugenio Borgna spiega: “Ci sono emozioni forti ed emozioni deboli, virtù forti e virtù deboli, e sono fragili alcune delle emozioni più significative della vita. Sono fragili la tristezza e la timidezza, la speranza e l’inquietudine, la gioia e il dolore dell’anima. E in cosa consiste la loro fragilità?”. Fragilità: un aspetto su cui interrogarsi e confrontarsi nell’educazione per non tirare su persone apparentemente forti ma fragili e non resilienti né empatici, come “cubetti di ghiaccio” (che si sciolgono) o “thermos” (con isolamento termico). Conoscere i propri limiti, lati oscuri e fragilità, fa affrontare le situazioni, emergere risorse inesplorate e relazionarsi meglio con gli altri.

 

E il miglior mezzo educativo è e rimane l’esempio (etimologicamente da “trarre fuori”, come uno dei significati etimologici di “educazione”) – da sempre sostenuto dai pedagogisti –, che è confortante, edificante, itinerante, nell’educazione o ogni altra situazione (altresì nella fede, da non trascurare per lo sviluppo spirituale). “Gli Stati parti riconoscono il diritto di ogni fanciullo ad un livello di vita sufficiente a garantire il suo sviluppo fisico, mentale, morale e sociale” (art. 27 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Vivere in un certo modo indica, indirizza e insegna a vivere in quel modo.

 

Da bambini si impara l’alfabeto delle lettere ma crescendo si disimpara l’alfabeto dei gesti di vita: l’educazione emotiva e affettiva vale e serve a tutte le età.

 

Il vero specchio dell’anima non è uno sguardo qualunque ma quello dei bambini, i quali scrutano, percepiscono ogni sfumatura e rivelano aspetti spesso sconosciuti agli adulti stessi. I bambini hanno bisogno di educazione emozionale? Non proprio: gli adulti hanno il compito di incanalare e salvaguardare le innate e spontanee emozioni dei bambini, esemplari in tutto, nel bene e nel male, perché forieri di vita e di quel che è la vita. Peccato che crescendo ci si dimentichi di essere stati bambini, semplici e genuini!

È ancora possibile l’amore

Sintesi: L’amore significa e genera vita e la sua misura è la vita dell’altro

Abstract: L’articolo, mediante riferimenti normativi e letterari, mette in luce l’essenzialità dell’amore, peculiarità solo umana, tutta umana

 

Oggi si tende a parlare dell’amore spesso in maniera negativa, come amore tossico, possessivo, virtuale o altro, riducendo la fiducia e la speranza delle nuove generazioni nell’amore, quello vero e duraturo. Urge, perciò, educarsi e educare a ri-conoscere l’amore.

“L’amore non nasce dalle misure del corpo ma da qualcosa di inesprimibile che appartiene soprattutto allo sguardo” (la scrittrice Susanna Tamaro). L’amore non è fisico, ma corporeità che comincia dallo sguardo (come il primo incrocio di sguardo tra mamma e figlio) e finisce proprio quando lo sguardo è distratto o distolto. Educazione allo sguardo, educazione dello sguardo, in altre parole educazione sentimentale e non solo sessuale.

 

Lo psichiatra statunitense George Vaillant afferma: “I dati rivelano che la felicità è l’amore. Punto”. I figli nascono (o così dovrebbe essere) per amore e chiedono solo amore. Figli: tante emozioni e altrettante preoccupazioni perché hanno diritto alla vita, chiedono solamente vita.

“Porta amore a qualcuno porgi il te stesso ma fino alla soglia. Fa’ che si chini per alzarlo a sé, mai che debba staccarselo di dosso. Fa’ che non sia proiettile contro sagoma attinta, ma la deposta offerta” (lo scrittore Erri De Luca). Deve essere così pure nelle relazioni familiari, innanzitutto nella relazione genitoriale. Amare qualcuno, in particolare un figlio, è arrivare sino alla soglia del suo cuore e non invaderlo.

 

“Aiutare ogni creatura a fiorire. Il mondo combatte per fiorire. Io posso capire se amo il mondo se combatto per lui, di combattiva tenerezza, per farvi crescere bellezza e tenerezza. Affrettiamoci ad amare, le creature se ne vanno così in fretta” (il teologo Ermes Ronchi). Così l’amore genitoriale che si manifesta in tal modo ancor di più in caso dei nati pretermine (si veda la Carta dei diritti del bambino nato prematuro, 2010).

Il filosofo spagnolo Raimon Panikkar spiega: “La relazione umana è rituale quando il prossimo è qualcosa di più che un oggetto; l’amore umano è un rito quando si scopre che la persona non è soltanto un oggetto di piacere e neppure d’amore; ma una relazione costitutiva che consente all’io di essere io, e al tu d’essere tu”. “Rito” etimologicamente deriva dalla radice “ri”, “andare, scorrere”. Nell’amore coniugale ci si ricordi del rito del matrimonio, nell’amore genitoriale ci si ricordi del rito della nascita. Perché la vita stessa è rito.

 

Come il rito del bacio della buonanotte. “Bacio”, secondo alcuni deriverebbe da “mormorare, parlare”: come quello dei bambini che si divertono a stampare baci anche quando hanno la bocca sporca di cioccolato o schioccano le labbra facendo sentire chiaramente lo smack. Ogni bacio parli d’amore, di ogni amore, purché amore e fonte di vita: è questa la prima forma di educazione sentimentale e sessuale che bisogna trasmettere. Bisogna abbassarsi al livello dei bambini per sollevarli alla vita e agli alti valori della vita.

“[...] si sono spenti, in un rapporto che ha il calore di un ghiacciaio in inverno. Per tutti e due, stare insieme è una sottrazione alla vita. Non ha senso ormai, stare così, senza sapere che dirsi. Tra loro è sorto un muro. Hanno perso la strada della comunicazione e non hanno più voglia di mandarsi segnali di fumo. Sono indecisi su cosa fare: ricominciare, inventando la forza di rinnovarsi o proiettarsi di slancio in avanti, cercando ognuno un destino diverso? Nessuno dei due ha il coraggio di fare la prima mossa” (l’autore Antonio Petrocelli). Quando una relazione è finita o svanita o, addirittura, non è mai esistita, è inutile portarla avanti per salvare l’apparenza o, peggio, per reciproca convenienza: per se stessi, per gli altri intorno e per l’amore è solo una sofferenza. A cominciare dagli eventuali figli che ricevono in tal modo un pessimo esempio di educazione sentimentale. I figli devono (o dovrebbero) essere concepiti, cresciuti, educati e mantenuti nell’amore, solo per amore, come ribadito anche in alcune carte non normative, tra cui la Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori (ottobre 2018) e il Decalogo dei bisogni (o desideri) dei bambini, stilato dal formatore montessoriano Claus Dieter Kaul.

 

“E così io adesso, ogni tanto, dico alle persone che voglio bene, anche se loro mi guardano e non capiscono, ma io glielo dico lo stesso: «Meno male che ci sei!»” (dal film “Meno male che ci sei”). Dire o manifestare in altro modo il proprio amore per l’altro in qualsiasi relazione, da quella genitoriale a quella educativa, da quella amicale a quella sentimentale: quel che conta è amare e far sentire amato l’altro. Altrimenti che amore è? L’educazione sentimentale passa attraverso quello che si dice e si fa, non attraverso lezioni cattedratiche. L’amore è quell’ambiente, quell’atmosfera di cui si parla nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

 

“[…] un buon fidanzamento non è quello che termina col matrimonio, ma con la verità. Se vi dovete sposare, avanti; se non vi dovete sposare, prima lo scoprite meglio è!” (don Fabio Rosini). Contrarre matrimonio non è né una prescrizione (per una certa età anagrafica o per un certo numero di anni di relazione) né una proscrizione (per una gravidanza imprevista o per un trasferimento lavorativo), ma ci si sposa se il matrimonio è iscritto nel proprio cuore e nei condivisi progetti con l’altro/a, altrimenti ci si infelicita e ancor di più si infelicitano gli altri. Questa consapevolezza costituisce un fondamento del libero e pieno consenso dei futuri coniugi di cui all’art. 16 par. 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. L’amore è fatto di meccanismi ed ingranaggi: o funzionano o non funzionano. Tutt’al più si può usare il lubrificante, ma se si ha bisogno di interventi continui o esterni c’è più di qualcosa che non va. L’amore è la macchina della vita, ma non tutte le macchine riescono bene e bisogna fare attenzione nella guida lungo la strada. Ne va della propria vita e di quella di altri. Solo se si è adulti in amore (e non immaturi e imperituri adolescenti) si può, poi, praticare l’educazione sentimentale, soprattutto a livello genitoriale. Anche se ogni caso è a sé, è così evidente che in molte coppie ci siano apparenza, convenienza o sofferenza (forse più del passato quando si contraevano matrimoni combinati o riparatori o per procura o per interesse). Mai accontentarsi e mai svendere la propria libertà e dignità: l’autenticità nei legami è la prima lezione di educazione sentimentale (o educazione all’affettività) che non può essere data o demandata alla scuola.

 

Autenticità che è insita nei bambini e va salvaguardata nei bambini. La scrittrice Susanna Tamaro riflette: “A tutti capita, soprattutto nell’infanzia, di percepire questa straordinaria sensazione di pienezza. Può durare qualche secondo, un giorno, un mese, comunque è là, esiste, e questa sensazione è la conferma che il nostro cuore è vivo, aperto e pieno di amore. Poi qualcuno arriva e ci dice: «Non si canta se non si è cantanti» e tutto in noi si spegne, il grigiore scende nella nostra vita. Così, invece di seguire il nostro cuore, cominciamo a seguire quello che gli altri vogliono da noi. La nostra vita allora diventa molto faticosa, andiamo da una parte e dall’altra senza avere mai chiara la direzione verso cui dirigerci, in tal modo accumuliamo errori e, con gli errori, arrivano le tristezze”. L’infanzia possiede ogni bellezza ed ogni ricchezza: non la si deve deturpare, non la si deve omologare. L’infanzia è la bellezza della vita stessa, ma gli adulti, in primis alcuni genitori, la stanno deturpando con ogni forma di adultizzazione: dal farli soffrire irrimediabilmente durante le crisi di coppia ai casi di ipersessualizzazione.

 

Il “pediatra musicista” Andrea Satta racconta: “Dalla mia lunga esperienza sul campo, vedo purtroppo che i genitori tendono ad affidarsi a percorsi precostituiti e superficiali piuttosto che cercare di risolvere veramente i problemi. I bambini non sono una proprietà privata dei genitori: hanno bisogno di rispetto per maturare e di molto tempo libero per giocare. Comunque, tra tante febbri che affronto nel mio ambulatorio, la più pericolosa è la febbre dell’amore che manca e dell’amore che affoga. La qualità delle relazioni vissute nell’infanzia è fondamentale per la gioia e la salute dei bambini”. L’amore significa e genera vita e la sua misura è la vita dell’altro: la misura dell’amore genitoriale è la vita del figlio.

 

Amare è altresì lasciare andare: come un albero che d’autunno vede andar via le foglie che non torneranno più o diventeranno altro nel ciclo della natura. Così dovrebbe essere l’amore genitoriale.

Tenere all’altro, temere per l’altro, nella misura in cui si contempli e si rispetti l’altro: così deve essere l’amore coniugale e, ancor di più, l’amore genitoriale che, altrimenti, si manifesta in modo negativo come l’iperprotettività o l’anaffettività.

Affiancarsi prudentemente alla vita dell’altro, affacciarsi premurosamente nella vita dell’altro: così dovrebbe essere ogni relazione d’amore, a cominciare da quella genitoriale. I genitori (in particolare la madre) devono amare liberamente e di un amore liberante. Chi ama c’è prima e dopo, pur tacendo ma facendo del silenzio una prova d’amore, pur allontanandosi facendo della distanza una speranza: dalle mamme alle donne-Penelope.

 

Nessuno sia reso inabile ad amare e ad essere amato, anche se chiuso nella cosiddetta “sindrome del chiavistello”. Non si ama una pianta o un pesce nell’ampolla? Chi stabilisce il valore di un essere vivente e dell’amore che suscita o che si può provare per lui? A maggior ragione se si tratta di un essere umano. Alla base di tutti i diritti umani, in primis il diritto alla vita, vi è l’amore. Art. 1 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. “Tutti gli esseri umani […] devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.

 

È ancora possibile l’amore, anzi è ancora più necessario, perché rende umani, man-tiene umani.

“Ma-estro” oggi

Lucio Lombardo Radice, tra l’altro pedagogista del ‘900 (1916-1982), definiva i maestri del 2° dopoguerra, tra cui Mario Lodi e il maestro televisivo Alberto Manzi, “maestri missionari, operai della scuola ed anche rivoluzionari”. Il XXI secolo ha ancora più bisogno di “maestri missionari, operai della scuola ed anche rivoluzionari”: da annoverare i “maestri di strada” e tutti quei maestri che continuano a operare con passione e senso del dovere aiutando i discenti lungo la strada della vita.

 

Il maestro contemporaneo Davide Tamagnini afferma: “Mettere al centro bambine e bambini significa considerarli soggetti autorevoli, capaci di dialogo, portatori di contenuti, persone da cui imparare e a cui insegnare, persone con cui è bello crescere […] È chiaramente possibile portare a scuola mille proposte, ma possiamo far parlare la vita stessa che la scuola ci fa condividere e imparare a leggere il nostro fare con lo sguardo di chi si educa insieme a diventare cittadini. Questa è la direzione verso cui dobbiamo tendere ciò che viene vissuto tra i banchi di scuola può cambiare la società. Per questo è necessaria una scuola che sappia valorizzare l’umano e permettergli di crescere in armonia con l’ambiente, che metta al centro il bambino, che lo consideri protagonista”. Nel secolo scorso ci sono stati insigni maestri o educatori (e non teorici o pedagogisti) che hanno messo veramente al centro bambini e ragazzi e hanno concretizzato i principi costituzionali della scuola pur in tempi e condizioni difficili, senza progetti o riforme o materiale adeguato, da don Lorenzo Milani a Danilo Dolci.

 

Tra gli altri grandi maestri è sempre attuale Gianni Rodari, nato da famiglia povera, autodidatta, “maestro di resilienza” diventando pietra miliare della e nella cultura italiana, dalla pedagogia alla letteratura per l’infanzia. Il suo metodo: attingere dalla gioia e dalle risorse dei bambini stessi e basarsi sul giocare e sul ridere. Tra le sue espressioni e opere geniali: “grammatica della fantasia”, “errore creativo”, “fiabe a rovescio”, “giocattoli poetici”. La sua poesia “La parola piangere” è una bella pagina di educazione emotiva (non solamente a scuola), soprattutto per il ruolo della “vecchia maestra”, il “Museo delle lacrime” e il verbo “narrare”, dimensione da recuperare e fondamentale nelle relazioni e nelle emozioni.

 

Altri maestri da ricordare lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, maestro di scuola elementare (1921-1989) e lo scrittore lucano Leonardo Sinisgalli, ingegnere (1908-1981), che sostenne l’esperienza dei cosiddetti “bambini incisori” del maestro Gianni Faè: Sciascia e Sinisgalli, due meridionali che si sono “fatti da soli”, hanno superato le ristrettezze dei posti in cui sono nati, hanno superato le difficoltà dei loro tempi, hanno studiato e sudato, hanno coltivato i loro talenti e interessi, sono stati eclettici andando oltre il loro titolo di studio e la professione esercitata. Esemplari per quello che hanno fatto e come lo hanno fatto, la loro resilienza dimostra che la vita è più di un’esistenza: sono da conoscere e far conoscere in ogni tempo e alle generazioni di ogni tempo. Come recita l’art. 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”.

 

“Nei primi anni dopo la sua ratifica in Italia, avvenuta nel 1991, in alcune città il 20 del mese di novembre si distribuirono agli studenti copie della Convenzione; ma certamente ciò non può essere considerato un «far largamente conoscere». Di fatto, dopo ripetute verifiche, si nota come i diritti salvaguardati da tale Convenzione rimangano ancora sconosciuti ai politici, agli amministratori, agli educatori e ai genitori. Probabilmente molti sanno degli impegni assunti rispetto alla fame, alle malattie, all’ignoranza e allo sfruttamento, ma quasi nessuno sospetta che si parli di cittadinanza, di diritto alla parola, alla libera espressione e associazione nei riguardi dei bambini” (lo storico gesuita Giancarlo Pani in “I diritti dell’infanzia”, 2019). La Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia non riguarda solo i rapporti internazionali o le grandi violazioni ma definisce i diritti nella quotidianità dell’infanzia, in famiglia e a scuola. Da un’interpretazione sistematica si ricava il diritto del bambino al tempo, al suo tempo, al tempo libero, all’ozio. Tutto quello che è confluito nel “decalogo dei diritti naturali” stilato dal compianto maestro Gianfranco Zavalloni.

 

Il bioeticista Paolo Marino Cattorini sostiene: “Tutti abbiamo da apprendere qualcosa dai bambini, che sono maestri di speranza, se il loro immaginario non viene soffocato dalle ansie degli adulti, dell’opportunismo, dalla pigrizia di chi rimanda le decisioni e si fa mantenere come un parassita”. “Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto innato alla vita” (art. 6 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). I bambini sono tedofori di speranza e vita e nascono con questi diritti. Coloro che hanno autorità la devono esercitare nel senso letterale della parola: “autorità” deriva dal verbo latino “augere”, far crescere, aumentare.

 

I bambini sono “maestri” di vita nel senso etimologico, perché “maestro” deriva dal latino “magis” che significa “più”. Per esempio i bambini passano dal contendersi qualcosa al difendersi l’un l’altro: si impara a vivere ogni giorno e i bambini hanno da insegnare tanto in tal senso.

 

Lo scrittore Alessandro D’Avenia sottolinea: “La scuola che moltissimi colleghi già fanno: quella in cui la relazione è non solo centrale ma viene al primo posto. Chiunque di noi ricorda un professore, anche solo uno, che lo ha segnato. E in genere è quello che lo ha sfidato e al contempo gli ha voluto bene. Lì c’è la vera scuola, e continuerà a esserci: dove c’è questa relazione generativa. E questo prescinde da muri, innovazioni, età dei professori e tanti altri aspetti contingenti. La scuola c’è dove si difende e si fa crescere ciò che è umano nell’uomo. Per primi sono chiamati a farlo i maestri con se stessi. Tutto il resto viene a cascata…”. “I bambini hanno diritto a frequentare musei, teatri, biblioteche, cinema e altri luoghi di cultura, insieme ai propri compagni di scuola; a vivere esperienze artistiche e culturali accompagnati dai propri insegnanti, quali mediatori necessari per sostenere e valorizzare le loro percezioni” (artt. 11 e 12 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura, Bologna 2011). E il maestro, oggi più che mai, è colui che accompagna, media, sostiene e valorizza.

 

Secondo il maestro e scrittore Albino Bernardini “esistono maestri d’occasione e i maestri”. Non ci si può improvvisare maestri (che è cosa differente dall’essere o fare gli insegnanti): è una scelta di vita, uno stile di vita, una visione di vita.

Tutti gli insegnanti dovrebbero porsi come “maestri di strada” (come Cesare Moreno), cioè avvicinarsi ai bambini e ai ragazzi nelle loro situazioni di vita per condurli al bello e nuovo della cultura.

 

La psicologa Daniela Lucangeli spiega: “Negli ultimi anni si è sviluppato un nuovo filone di ricerca scientifica, a cui è stato dato il nome di warm cognition, letteralmente «cognizione calda». Abbiamo imparato che le nozioni si fissano nel cervello insieme alle emozioni e queste ultime, a loro volta, influiscono concretamente sui processi cognitivi, come attenzione, memoria, comprensione. Se un bambino impara con gioia, nella sua memoria resterà traccia dell’emozione positiva che gli dirà: “Ti fa bene, continua a cercare”. Se un bambino impara con gioia, impara di più e meglio. Il bravo maestro, ergo, è colui che aiuta, che dà fiducia e coraggio, non che ingozza e giudica, somministra e verifica”. Per emozionare un insegnante deve continuare a provare, nonostante tutto e tutti, emozione in e per quello che fa, anche quando sono emozioni negative. Con le emozioni il bambino è sollecitato “in tutto l’arco delle sue potenzialità” (dall’art. 29 lettera a Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

 

Anagrammando la parola “maestro” si ricavano tante altre parole significative: mastro, estro, mostra, arte, arto, roseo, astro,… Perché ai maestri si richiede che abbiano e siano questo e altro, quali “cattedrali di senso nel deserto di significati” (cit.). 

Cosa fa la famiglia, cosa fa famiglia

Abstract: L’articolo si interroga sul ruolo e sugli elementi costitutivi della realtà familiare, evidenziandone l’insostituibile funzione nella vita dei singoli e della comunità

 

1. Cosa fa la famiglia

A marzo 2024 i risultati di un referendum sulla famiglia svoltosi in Irlanda, dove non sono passate le riforme della Costituzione del 1937 sulla tipologia di famiglia e sul ruolo della donna in famiglia, hanno suscitato scalpore e rinnovato le annose discussioni sulla famiglia.

 

La famiglia era ed è ogni giorno attaccata da più parti, a cominciare dalla pubblicità che propaganda solo bellezza esteriore, sesso spiccio e fatica zero. La famiglia è sempre stata problematica e privilegiata, uno spazio esclusivo e, al tempo stesso, inclusivo, un luogo che diviene, spesso, “nonluogo”, privo di una propria identità e da cui si transita solo senza fermarsi e conoscersi più di tanto.

 

La famiglia è il luogo di pre-parazione alla vita: coltivare e condividere l’amore per moltiplicarlo, il reciproco rispetto pur conservando le proprie differenze, la serena e paziente attesa, la sana autorità con cui credere, esprimere, vivere e trasmettere convinzioni e valori. Così la famiglia è “società naturale” (art. 29 comma 1 Cost.): “società”, unione di soci, compagni, coloro che seguono, che accompagnano, “naturale”, dal verbo nascere e, quindi, capacità di generare.

 

Molto interessante la rappresentazione grafica adottata dalle Nazioni Unite per ogni azione sulla famiglia: all’interno di un cerchio, verde scuro (come gli alberi sempreverdi), ben definito a rappresentare il mondo, è rappresentato “un cuore coperto e protetto da un tetto, collegato ad un cuore più piccolo, a rappresentare la vita e l’amore in una dimora dove ciascuno trova calore, cura, sicurezza, unità, tolleranza e accettazione […]. Il disegno è aperto, a significare che la continuità è collegata ad una certa dose di incertezza. Il colpo di pennello che completa la parte aperta del tetto sta a simbolizzare la complessità della famiglia” (cit.). Famiglia e casa, famiglia è casa: tetto e affetto, appartarsi ma al tempo stesso aprirsi, tratti comuni con altre famiglie e proprie peculiarità.

 

Una delle tante novità introdotte dalla riforma del diritto di famiglia nel testo degli artt. 143 e ss. del codice civile è l’espressione “bisogni della famiglia” nel 3° comma dell’art. 143. La famiglia non è quella dei propri sogni o per realizzare i propri sogni ma quella che si costituisce e si vive nella quotidianità ed esprime la sua esistenza ed essenza. Nel testo previgente, invece, prevaleva una mentalità più “individualistica” per cui si diceva che “il marito è il capo della famiglia” (art. 144 cod. civ. fino al 1975) e “ha il dovere di proteggere la moglie, di tenerla presso di sé e di somministrarle tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita in proporzione alle sue sostanze” (art. 145 cod. civ. ante 1975). La famiglia non è intesa più come una sistemazione personale ma un sistema interpersonale e intrapersonale.

 

Il sociologo Pietro Boffi scrive: “Le famiglie, con i loro legami, i loro progetti di vita, la loro funzione riproduttiva, educativa, di trasmissione di valori, infatti non sono un optional. Sono lo snodo fondamentale attorno al quale si generano le identità e i progetti di vita dei singoli, e la capacità di tenuta di tutto il sistema, anche nei suoi risvolti socio-assistenziali. Il loro venir meno, il loro essere ridotte a micro-unità, rende estremamente difficile, se non impossibile, l’esercizio di queste funzioni. Pensiamo semplicemente alla questione anziani: siamo il Paese, insieme al Giappone, con il maggior numero di persone anziane, delle quali si fanno carico in via quasi esclusiva proprio le loro famiglie: ma le generazioni dei figli unici come faranno?” (nell’articolo “Una su tre è single: la famiglia “Lilliput” fa bene all’Italia?” del 30-12-2019). La famiglia è scuola di vita, di diritti, di solidarietà (art. 2 Cost.) e con l’aumento dei figli unici o delle famiglie monoparentali o altre situazioni simili vengono meno questi presupposti e si determinano faglie nel tessuto sociale.

 

Dal primo Rapporto internazionale del Family International Monitor (progetto di ricerca internazionale nato nel dicembre 2018 e presentato a giugno 2020) si ricava che in ogni nazione le relazioni familiari sono la più importante risorsa per affrontare le tensioni e le difficoltà interne ed esterne nella vita quotidiana delle famiglie, ma la loro importanza è ancora più decisiva per le persone più vulnerabili e marginali, a conferma della “fondamentalità” della famiglia, nonostante crisi e lacerazioni, come riconosciuta nelle fonti di diritto internazionale e dalle scienze umane e obiettivo anche dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

 

Le ferite delle famiglie “possono essere risanate se saremo capaci di rivitalizzare la comunità. Esperienze comunitarie come il cohousing, ancora poco diffuso ma ricco di potenzialità, l’impegno nel volontariato di quartiere e vicinato, l’impegno per il welfare territoriale, l’affidabilità di tante “nuove famiglie”, il supporto reciproco che si sviluppa tra coppie giovani con figli di una stessa scuola o di uno stesso quartiere, sono tutti segnali di ricomposizione del vissuto familiare su base comunitaria che, se opportunamente messi a fuoco e sostenuti, possono contribuire in maniera determinante alla ricucitura della realtà familiare ed al superamento delle sue ferite” (la sociologa Carla Collicelli, in “Dalle relazioni ferite alle relazioni risanate: la solidità dell’amore”, 2020). Se la famiglia tornasse ad essere tale si avrebbe la piena attuazione dell’art. 2 della Costituzione e si realizzerebbe la cosiddetta ecologia delle relazioni: esercizio dei diritti inviolabili dell’uomo, formazione sociale per eccellenza, svolgimento della personalità, adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà.

 

Tra le tante famiglie ferite, lacerate quelle dei detenuti, come scrive Alessandra Bialetti, pedagogista sociale e consulente della coppia e della famiglia: “La perdita di una figura di riferimento importante ricade pesantemente su chi, fuori, deve lottare ogni giorno per la sopravvivenza propria e dei propri figli, su chi deve far da madre e padre a piccole vite in crescita, deve “tamponare” esigenze di ogni tipo soprattutto emotive e affettive. Un’ulteriore criticità è rappresentata dal giudizio che la famiglia di un detenuto vive sulla propria pelle. La discriminazione davanti a storie di vita così pesanti, ma anche la paura che ognuno di noi può sperimentare davanti a una realtà sconosciuta e critica, chiude l’intera famiglia in una solitudine relazionale che spesso pesa ancora di più della detenzione stessa” (in un articolo del 7 febbraio 2020). “Gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di mantenere relazioni personali e contatti diretti in modo regolare con entrambi i genitori, salvo quando ciò sia contrario all’interesse superiore del fanciullo” (art. 9 par. 3 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

 

Alessandra Bialetti aggiunge: “[...] Nel carcere si incontrano tante storie, visi che portano dentro un vissuto e che rimandano, non solo alla storia personale, ma anche a un tessuto familiare fortemente compromesso. Dietro ogni detenuto c’è un’esistenza complessa, una famiglia, legami coniugali e genitoriali. Compito del percorso riabilitativo non è solo quello di far scontare una pena e reinserire nella società ma di prendersi carico di tutto il tessuto relazionale che il detenuto porta dentro di sé. [...] Occorre quindi chiedersi come porsi in ascolto di queste famiglie senza aprirsi al giudizio e al pregiudizio. Occorre accompagnare il loro cammino, confortare, tenere i contatti anche solo con una telefonata, poche parole per trasmettere consolazione, vicinanza e coraggio. “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia” (art. 1 legge 4 maggio 1983 n. 184 “Diritto del minore ad una famiglia”): questo diritto non deve essere trascurato in caso di bambini e ragazzi con genitore/i detenuto/i, casi in cui la comunità dovrebbe farsi ancor di più “famiglia di famiglie”. Si ricordi, tra l’altro, la formulazione dell’art. 5 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “Gli Stati parti rispettano la responsabilità, i diritti ed i doveri dei genitori o, all’occorrenza, dei membri della famiglia allargata o della comunità, secondo quanto previsto dalle usanze locali, dei tutori o delle altre persone legalmente responsabili del fanciullo, di impartire a quest’ultimo, in modo consono alle sue capacità evolutive, l’orientamento ed i consigli necessari all’esercizio dei diritti che gli riconosce la presente Convenzione”.

 

La famiglia è altresì un soggetto economico perché luogo di economia ed economie e fonte di esternalità, effetti negativi o positivi su altri soggetti, dalla scelta della scuola privata o pubblica per i figli ai costi sociali ed economici di separazioni o divorzi più o meno conflittuali. La rilevanza economica della famiglia è presa anche in considerazione nell’Agenda 2030: “Riconoscere e valorizzare la cura e il lavoro domestico non retribuito, fornendo un servizio pubblico, infrastrutture e politiche di protezione sociale e la promozione di responsabilità condivise all’interno delle famiglie, conformemente agli standard nazionali” (punto 5.4). Rilievo alla famiglia è stato dato pure nel 6° principio del Pilastro europeo dei diritti sociali.

 

“[…] al di là di analisi sociologiche, politiche o economiche, una cosa certa è che, in questo contesto, la famiglia soffre, tra le altre cose, soprattutto di solitudine, e se la famiglia soffre, soffrono di più gli ultimi, gli emarginati. Nessuna istituzione, infatti, può aiutare, come le famiglie, i poveri, gli orfani, gli immigrati in modo continuativo e non emergenziale” (l’avv. Vincenzo Bassi in un articolo su L’Osservatore Romano, l’8 settembre 2020). Nell’art. 29 della Costituzione si parla di “diritti della famiglia” e nelle fonti di diritto internazionale si ribadisce l’aiuto alla famiglia o la protezione della famiglia (per es. l’art. 33 par. 1 della Carta di Nizza recita: “È garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale”) ma nella realtà avviene sempre meno perché la “macropolitica” è in altro occupata o preoccupata, per cui si sviluppano forme di “solidarietà interfamiliare”.

 

Lo scrittore Erri De Luca: “Gli uomini hanno inventato i minuziosi codici, ma appena c’è occasione si azzannano senza legge”. Quant’è tristemente vero soprattutto per le questioni di famiglia, dal divorzio alla divisione di un’eredità: l’uomo ha fame di amore e famiglia, tutto il resto è solo surrogato.

 

2. Cosa fa famiglia

 

“Non credo che ci si debba amare solo per fare i figli. […] Dico solo che una società che considera i figli come seconda o terza priorità, che ne fa sempre meno e non li educa nel giusto modo, non ha futuro. Privilegiare la comodità, l’egoismo, avanzare come giustificazione il costo, i rischi e la rottura di scatole rispetto alla poesia, alla tenerezza, alla faticosa dolcezza di una di una maternità e di una paternità pazienti e presenti, non è segno di maturità e coscienza adulta. […] Ho solo una tristezza immensa che mi coglie, fino a portarmi alla domanda pericolosa: se l’amore sia sempre più straniero in questa nostra società preoccupata dalla recessione, ma sempre meno impegnata ad affrontare e a risolvere la vera recessione, ovvero quella riguardante la famiglia, l’amore, i figli, l’altruismo e la capacità di relazioni profonde e autentiche”. Così don Antonio Mazzi, cresciuto senza padre e divenuto “padre” di tante generazioni con problemi di tossicodipendenza o di altra natura. Parecchi ragazzi caduti nella tossicodipendenza o altra forma di dipendenza affermano che dai genitori hanno avuto tutto, anche il superfluo, ma non quello di cui avevano bisogno, come l’ascolto, l’attenzione, il tempo, anche qualche limite. Ciò che dovrebbe caratterizzare l’amore genitoriale, l’amore in famiglia. Non sono i figli che fanno la famiglia, ma la famiglia che fa i figli.

 

Lo psicologo Simone Olianti conclude: “Essere fecondi non è solo generare vita biologica, ma coltivare la vita, custodirla e proteggerla. Ed è solo quando la nostra vita genera vita bella intorno a noi, ed è fertile per qualcun altro, che siamo davvero felici”. Essere fecondi non è concepire figli ma generare amore, quello sano e sanante.

 

“Ogni bambino ci dice a modo suo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama così alla nostra responsabilità. La sua nascita rappresenta un’esperienza nuova per l’umanità che gli deve ciò che essa ha di meglio” (dalla Charte du BICE, Parigi, giugno 2007). Ogni bambino suscita amore e stupore (anche se non sempre è così, altrimenti non si spiegherebbero i casi di infanticidio), come quello che manifestano i genitori i figli con disabilità: “Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te” (la scrittrice Ada D’Adamo riferendosi alla figlia disabile).

 

“[...] in una famiglia, l’arrivo di una sofferenza può avere l’effetto di una bomba a mano. Di solito gli uomini entrano in una sofferenza che unisce il dolore per l’altro perduto all’incapacità di accettare di non essere il centro esclusivo delle cose. Per una donna il dolore è sempre una sfida da accettare, qualcosa da cui è impensabile fuggire” (cit.). Se l’uomo e la donna si unissero nel provare il dolore, o almeno lo convogliassero, sarebbe l’estrema, o forse la più sublime, forma d’amore: anche questa è una forma di assistenza, innanzitutto morale (art. 143 comma 2 cod. civ.).

 

Lo scrittore francese Pierre-Marc-Gaston de Lévis: “Il segno che non si ama più lo si ha quando i sacrifici cominciano a costare; il segno che si ama poco lo si ha quando ci si accorge di farne”. Quando in una coppia o in famiglia si parla in termini di sacrifici e rinunce significa che non si è compreso il senso e il linguaggio dell’amore. Quello che si fa è una scelta nella libertà e responsabilità: questo è l’amore.

 

Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, spiega: “Si deve al grande etologo austriaco del secolo scorso Konrad Lorenz la scoperta dell’imprinting, termine inglese che sta a indicare una forma di apprendimento precoce che fa sì che l’animale poche ore dopo la nascita riceva una sorta di impronta dal primo oggetto in movimento che compare nel suo campo visivo. Ne resta «impressionato» e non può fare a meno di seguirlo, corteggiarlo e restargli legato, assumendo tutti i suoi comportamenti. Lorenz addirittura si era immerso in un lago e aveva fatto in modo che allo schiudersi delle uova gli anatroccoli vedessero per prima cosa la sua massiccia figura. Così era stato e i piccoli avevano continuato ad andargli dietro, al punto che una volta che il ricercatore introdusse nel lago la vera madre biologica, si rifiutarono di seguirla. Questo tipo di apprendimento segue, però, regole ben precise e può verificarsi soltanto in quelli che sono definiti «periodi sensibili» che spesso si consumano nell’arco di pochissimi giorni”. I primi giorni di vita e soprattutto alcuni momenti sono fondamentali perché i bambini hanno bisogno di cure che sono la manifestazione massima dell’amore gratuito. Esplicativo in tal senso l’art. 4 della Carta dei diritti del bambino natoprematuro (2010): “Il neonato prematuro ha diritto al contatto immediato e continuo con la propria famiglia, dalla quale deve essere accudito. A tal fine nel percorso assistenziale deve essere sostenuta la presenza attiva del genitore accanto al bambino, evitando ogni dispersione tra i componenti il nucleo familiare”. L’amore è un bisogno umano, un’esigenza vitale per ciascuno, ancor di più per i bambini, per i neonati. Nelle fonti normative si è parlato di “bisogno di amore” per la prima volta nell’art. 6 della Dichiarazione dei diritti del fanciullo (1959), oggi se ne parla diffusamente (anche in “carte” e documenti vari stilati da psicologi e altri esperti) tanto che si può profilare un diritto d’amore (il giurista Stefano Rodotà).

 

L’art. 8 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia recita: “[…] il diritto del fanciullo di conservare la propria identità, nazionalità, nome e relazioni familiari”. Si noti che in quest’articolo si usa il verbo “conservare”, con tutta la pregnanza che può avere, e la successione dei diritti si conclude con “relazioni familiari”, che ha una portata più vasta e profonda di “famiglia”. Quest’articolo è da leggere alla luce di quelli precedenti e in particolare dell’art. 3 ove si enuncia, tra l’altro, l’interesse superiore del fanciullo. Così nel procedere all’affidamento o all’adozione di un bambino. La psicologa Rosa Rosnati: “Il bisogno del bambino ha tempi che possono anche non essere i tempi di cui un adulto può avere bisogno per fruire di un percorso o di un programma, penso ad esempio a un programma di cura nel caso di una dipendenza… a volte questi tempi non corrispondono ai tempi del bambino, che restano però prioritari. Inoltre si investe troppo poco per la prevenzione, troppo poco per diffondere l’affido e per sostenere le famiglie affidatarie, troppo poco per sostenere le famiglie adottive. L’affido e l’adozione hanno una valenza sociale che merita di essere sostenuta, mentre la risonanza che episodi di cronaca come quello della Val d’Enza [cosiddetto “caso di Bibbiano”] hanno sull’opinione pubblica purtroppo rischia di offuscare questa valenza sociale. Teniamo presente che ad oggi ci sono in Italia circa 15mila minori che vivono in comunità: molte sono ottime, ma anche in quel caso la comunità può andar bene per periodi brevi o in emergenza ma non può essere il luogo dove un bambino può crescere. Il bambino per crescere deve poter sperimentare un legame di attaccamento sicuro. L’appello allora è per valorizzare forme di affido anche più fluide, che ad esempio permettano a un bambino di trascorrere il pomeriggio o il weekend o le vacanze nella famiglia affidataria, sperimentando legami famigliari solidi e di lungo periodo. Lo chiamano “affido leggero” ma è leggero solo in termini di tempo perché la valenza psicologica per il bambino è tutt’altro che leggera” (in un’intervista del 17 luglio 2019). Ogni figlio in famiglia dovrebbe essere considerato in “affido leggero”.

 

“A vederla luccicare tra le colline sulla stradina di campagna, la giardinetta rossa piena zeppa di bambini – bambine nella fattispecie – sembrava venir fuori da una di quelle scene di famigliole felici che, appena possono, i pubblicitari infilano nei loro filmati. Eppure, nella macchina mancava la mamma […]” (lo scrittore Gaetano Cappelli). Esistono molte famiglie monogenitoriali anche in presenza di entrambi i genitori, a danno dei figli, nel presente e per il futuro: coniugi separati in casa; genitore cui non si fa o che non sa esercitare la propria distinta funzione genitoriale; omologazione o duplicazione della figura genitoriale (con eclissi del padre) e altro ancora (sempre attuale sui figli alla mercé delle scelte dei genitori il film drammatico “I bambini ci guardano”).

 

Infine il sociologo Boffi sottolinea: “Non si tratta di essere più o meno catastrofisti, ma di guardare in faccia la realtà. E domandarsi: una società in cui le famiglie che l’Istat tecnicamente definisce “unipersonali”, e che qualcuno già chiama “famiglie single”, sono ormai un terzo del totale e – se le tendenze che abbiamo delineato non subiranno un deciso cambio di rotta – sembrano destinate a diventare la maggioranza, può ancora stare in piedi? La frammentazione della popolazione che emerge dai dati sarà in grado di reggere il tessuto economico, sociale, civico che finora – bene o male – ha retto il nostro Paese?” (nell’articolo del 30-12-2019). La famiglia non può essere definita unipersonale o single perché viene meno la sua essenza (o funzione) come le è riconosciuta dalla Costituzione (artt. 29-31), dagli atti internazionali e dalle scienze umane in generale. La famiglia ha una identità o configurazione distinguibile e riconoscibile dall’esterno che è principalmente quella di essere finalizzata alla procreazione (nel senso lato di generatività) e alla protezione dei suoi membri, dimensioni che non si possono attribuire alle famiglie monopersonali. Quelle peculiarità che si evincono esplicitamente pure dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e che sono avvalorate dalla sfida e dal coraggio delle cosiddette famiglie ricostituite e ricomposte.

 

Il saggista Goffredo Fofi evidenzia: “E quanti oggi soffrono davvero di questo sentimento di inadempimento, di non essere all’altezza, di non fare tutto quel che si dovrebbe fare per combattere i mali del mondo, per attenuarne la forza? La società odierna mira a tutt’altro, mira a deresponsabilizzare, ad accentrare il senso di colpa sul privato famigliare e sessuale, a eliminare quell’altro, che è certamente di ostacolo al dominio dei pochissimi sui tantissimi. Viva dunque i sensi di colpa, viva la paura del rimprovero, se collocati al posto giusto nei nostri sentimenti, e richiamo alle nostre responsabilità”. Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia vi è un richiamo alla responsabilità sin dal Preambolo: “Convinti che la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli debba ricevere l’assistenza e la protezione necessarie per assumere pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità”. Deresponsabilizzarsi e fare a scaricabarile tra i due genitori, tra famiglia e scuola, tra i vari ordini di scuola e così via è un’appropriazione indebita della vita dei bambini e degli altri.

 

Un sociologo americano: “Le nuove idee hanno bisogno di antichi luoghi”. “Antico”, “che sta prima, che sta dinanzi”, e “luogo”, “spazio che un corpo occupa o può occupare”: locuzioni dense di significati. Le singole vite e in particolare le nuove vite hanno bisogno di antichi luoghi: le famiglie.