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Identità di figli

Abstract: L’articolo mostra, anche attraverso alcuni richiami ad alcune fonti normative, quale sia l’attenzione da prestare al fatto che i figli sono “altro” dai genitori, indicando la strada da percorrere per acquisire e maturare tale consapevolezza

La psicopedagogista Maria Vinciguerra scrive: “L’essere adulti generativi presuppone un sacrificio, senza il quale si rischia di rimanere in una stagnazione che non permette né il superamento della tarda adolescenza né un autentico poter essere adulti” (in “L’adulto generativo. Relazioni educative e scelte di vita familiare”, 2015). Il primo gesto dell’adulto generativo è riconoscere che un figlio non è oggetto di desiderio né di un diritto ma un’altra persona, un’altra vita di cui rispondere, cui rispondere. I bambini hanno diritto a una famiglia e non il contrario, come si ricava dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dalla legge 184/1983 rubricata “Diritto del minore ad una famiglia”.

I figli non devono completare la coppia, ma la coppia si deve completare nell’amore (come nell’amplesso). Dall’amore fecondo nascono i figli e non dalla nascita dei figli si deve aspettare che l’amore diventi fecondo. E non si deve confondere la fecondità (fertilità) con la generatività, da cui scaturiscono le scelte di adozione e di affidamento. Nell’art. 6 comma 2 della legge 184/1983 sull’adozione, come novellata, si prevede che: “I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendano adottare”. Quello che è il nucleo della genitorialità e si noti pure come la capacità educativa sia anteposta agli altri aspetti. Al n. 1 del “Decalogo dei bisogni o desideri dei bambini”, elaborato da Claus Dieter Kaul, formatore Montessori, si legge: “Dateci amore. Concepiteci per amore, chiamateci alla vita per il desiderio di esprimere la vita. Solo l’amore consente, infatti, di crescere provando l’amore per la vita, per gli altri, per gli animali, per il sapere, per le regole e per il rispetto”.

I figli non sono un proprio prodotto ma un frutto, un frutto con una propria vita. L’art. 6 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia recita: “Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto innato alla vita”. Si può volere un figlio, ma un figlio non può essere quello che si vuole o si vorrebbe. I genitori sono un tramite della vita e i figli sono i tedofori nelle continue olimpiadi della vita.

Ogni bambino è una speranza per tutta l’umanità, è figlio dell’intera famiglia umana, ecco perché, per esempio, “[…] i lavoratori possono cedere a titolo gratuito i riposi e le ferie da loro maturati ai lavoratori dipendenti dallo stesso datore di lavoro, al fine di consentire a questi ultimi di assistere i figli minori che per le particolari condizioni di salute necessitano di cure costanti […]” (art. 24 decreto legislativo 151/2015). Questa previsione normativa è una concretizzazione dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale di cui all’art. 2 della Costituzione (così come le malattie rare riguardano tutti e bisogna incentivarne lo studio scientifico, la ricerca farmaceutica e il relativo associazionismo).

“Lo splendore di un figlio consiste nel suo segreto, che si sottrae alla retorica dell’empatia e del dialogo oggi conformisticamente dominante. Un figlio è un’esistenza unica, distinta e irriducibile a quella dei suoi genitori. Contro ogni autoritarismo e contro una pedagogia falsamente libertaria che vorrebbe annullare la differenza simbolica tra le generazioni, un figlio ha diritto a custodire il segreto della sua vita e del suo desiderio. Il confronto tra due figure mitiche di figlio – quella dell’Edipo di Sofocle e quella del figlio ritrovato (cosiddetto “prodigo”) della famosa parabola del Vangelo di Luca, alle quali fanno eco quelle di Isacco e di Amleto – offre una prospettiva particolare attraverso la quale osservare il segreto del figlio. Edipo resta imprigionato in un destino che non gli lascia scampo, dove tutto è già scritto sin dall’inizio: il tentato figlicidio del padre si rovescia nel parricidio e nell’incesto del figlio. Diversamente, il figlio ritrovato di cui Gesù narra la vicenda è colui che sa, pur nell’erranza e nel fallimento, distinguersi dalle sue origini. L’abbraccio del padre, in questo caso, non vuole soffocare o punire il figlio, ma riconoscerlo nella differenza incomprensibile e incondivisibile di una vita diversa” (dal pensiero dello psicoanalista Massimo Recalcati in “Il segreto del figlio. Da Edipo al figlio ritrovato”, 2017). Ogni figlio è un mondo a sé e ha diritto al suo mondo. Aver diritto al proprio mondo è aver diritto al rispetto della propria identità ed età. Si è bambini una sola volta e si è figli “a tutto tondo” sin quando si sta in famiglia, poi a ciascuno spetta il proprio percorso di scelte e il proprio corso degli eventi. Anche per questo nel codice civile si ripete di rispettare (prima si diceva “tener conto”) le capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni dei figli (artt. 147, 315 bis comma 1, 316 comma 1 cod. civ.).

I genitori si sono appiattiti al ruolo affettivo e hanno abbandonato quello etico-valoriale. Confondono i desideri con i bisogni e si fanno prendere dai sensi di colpa. Sono sempre presenti nella vita dei figli e pronti a intervenire tanto che sono definiti “genitori elicottero” o con altre etichette che evidenziano atteggiamenti genitoriali inadeguati (“genitori spazzaneve” o “genitori tigre”). Si sa che un’alimentazione scorretta e troppo ricca di zuccheri, alla lunga, causa il diabete o altre malattie, mentre si strascura che il “troppo bene” nuoce alla vita dei figli e, conseguentemente, alla vita degli altri. Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia è ricorrente l’aggettivo “necessario” (né di più né di meno), come nella locuzione “assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere” (dall’art. 3 par. 2).

Un figlio ha bisogno di regole come il corpo ha bisogno della colonna vertebrale, altrimenti diventa un burattino o un pupazzo molliccio e non si regge in piedi. Un figlio è come un treno che ha bisogno di un binario e di un capostazione per non deragliare e per non scontrasi con gli altri treni.

Nell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si ribadisce che l’educazione deve tendere a preparare il fanciullo e a inculcargli il rispetto.

Ci si lamenta di come cambino i figli crescendo con l’età. Sempre più spesso, però, si trascura che i figli hanno bisogno durante la crescita di esempio e dell’essenziale che è invisibile agli occhi: una mano che trasmetta sicurezza e calore da ricordare, piedi che lascino orme da seguire, occhi che sprigionino la luce della vita per illuminare il cammino futuro. I figli hanno bisogno di biofilia e non (solo) di cose. Nel Documento dell’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza redatto nel 30° anniversario della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (20 novembre 2019) è precisato il “diritto a non essere lasciati soli”: “Tutti i bambini hanno diritto a non essere lasciati in solitudine. Ogni bambino ha bisogno di vivere la presenza effettiva dei genitori: deve poter condividere con loro le sue esperienze di vita, di studio, di gioco e le scoperte quotidiane. Tutti i bambini hanno diritto a essere felici e trovare negli adulti ogni forma di aiuto per allontanare la tristezza, la sfiducia e la rabbia”.

“Sono stufo degli errori dei grandi. Io sono solo un bambino. L’avete capito?” (da una fiction). Questa frase riecheggi durante l’agire quotidiano e gli adulti ricordino quando loro stessi da bambini avrebbero voluto dirla anche loro a quegli adulti che, più o meno grossolanamente, hanno sbagliato durante la loro infanzia. Oggi gli adulti restano adultescenti e i bambini sono adultizzati. Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si usa il verbo “allevare”, che significa letteralmente “allevare, alzare verso”. Abbassarsi a livello dei bambini (e non abbassare i propri livelli, a cominciare da quelli di guardia) e mettersi in ascolto (art. 12 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), anche della loro richiesta di giocare insieme, è uno dei primi passi da fare per avviarsi nel loro mondo e avviarli alla loro vita, per allevarli.

“I figli non possono sottrarsi al compito che è stato anche dei loro padri: essere abitanti responsabili e creativi del loro proprio tempo. Tutto sommato, ognuno deve continuamente ritrovare la propria e altrui identità, nel gioco del lasciar andare e dell’accogliere, del rispettare i tempi di ognuno e del saper aspettare con fiducia” (fra Fabio Scarsato, esperto di problematiche giovanili). L’identità dei figli comincia col ri-conoscere quella dei genitori da rispettare e da cui distinguersi e distaccarsi, come si evince pure dall’art. 29 lettera c della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

I consulenti e formatori Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini richiamano: “Mai rinfacciare ai giovani non solo di essere nati, ma anche i sacrifici. […] La vita è un dono che non si paga, che si riceve gratuitamente e gratuitamente si dà”. I figli non vanno educati alla logica del “do ut des” ma a quella del “do ut facias”, ovvero bisogna dare loro la vita, gli strumenti necessari e i valori fondamentali affinché facciano la loro vita, vita che non va intesa come un tornaconto quanto, piuttosto, come acconto e rendiconto, come un dare anticipatamente e rispondere successivamente di quello che si è fatto.

Tra genitori e figli è fondamentale la comunicazione, a tutte le età e in tutte le situazioni, in particolare in caso di separazione/divorzio o comunque di crisi o conflitti tra i genitori.

Qualcuno ha detto (ha osato dire) che le coppie, per separarsi, dovrebbero farlo in estate così i bambini, presi dal clima vacanziero, se ne accorgono di meno e soffrono di meno e, fino a Natale, hanno modo di abituarsi al nuovo assetto familiare. Ci si preoccupa della maturazione del sistema immunitario dei figli ma non adeguatamente della prevenzione di sofferenze più grandi delle loro capacità emozionali e di dare ascolto al loro dolore, al loro silenzio, al loro annichilimento. Si consideri quanto scritto nell’art. 3 della Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori (ottobre 2018): “I figli hanno il diritto di non essere coinvolti nella decisione della separazione e di essere informati da entrambi i genitori, in modo adeguato alla loro età e maturità, senza essere caricati di responsabilità o colpe, senza essere messi a conoscenza di informazioni che possano influenzare negativamente il rapporto con uno o entrambi i genitori. Hanno il diritto di non subire la separazione come un fulmine, né di essere inondati dalle incertezze e dalle emozioni dei genitori. Hanno il diritto di essere accompagnati dai genitori a comprendere e a vivere il passaggio ad una nuova fase familiare”.

Genitori: “geni” e “tori”, perché possono fare grandi cose come i geni, ma anche far male come tori.

Figli: fili di vita che hanno bisogno di mani accorte ed esperte (soprattutto di vita e non di manuali).

I bambini nei diritti

Abstract: L’articolo mette in risalto, anche attraverso il richiamo di varie fonti, la corrispondenza, un po’ trascurata, tra diritti dei bambini e doveri degli adulti

Essere adulti è dare le risposte a domande, bisogni, esigenze, diritti dei bambini, ai bambini: questo è la dovuta responsabilità, il resto non conta. È un dovere genitoriale, costituzionale, internazionale.

Il pedagogista Daniele Novara afferma: “I diritti dei bambini e delle bambine devono rappresentare il punto di convergenza di tutte le decisioni nei loro confronti, derogare è sempre pericoloso e può creare precedenti che confondono”. I diritti dei bambini, dal diritto alla vita al diritto al gioco, sono prioritari, non seguono né devono seguire mode, teorie, gusti e interessi dei genitori e degli altri adulti.

Si parla continuamente dei diritti dei bambini, ma si è certi che nelle nostre famiglie i diritti dei bambini siano veramente tutelati? Genitori che danno tutto ma non l’ascolto, che non educano i figli a mangiare tutto e li fanno mangiare inadeguatamente, che li portano nei passeggini o in braccio fino a più anni di età, che li assecondano o giustificano in tutto, che accusano i figli degli altri, che puntano il dito contro la scuola, che non dicono no e si fanno tiranneggiare... E così i figli crescono fragili, disorientati, con un vuoto dentro e basta poco per farli crollare o esplodere.

La psicologa e psicoterapeuta Elena Massardi precisa: “Occuparsi di un bambino non significa stare con lui, ma disintonizzarsi e risintonizzarsi in modo tale che il bambino impari pure a stare da solo, ad autorassicurarsi” (in un webinar dell’11 dicembre 2020). I diritti dei bambini corrispondono ad altrettanti doveri degli adulti, in particolare dei genitori. Questi ultimi devono garantire lo sviluppo e non solo la crescita dei figli, per cui devono far sì di non cadere in forme di ipercura.

Gianni Rodari scriveva: “Quanto pesa una lacrima? La lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la terra”. Bambini che piangono per un nonnulla e genitori apprensivi e iperprotettivi (che vanno pure alla ricerca di colpe nella scuola o negli altri). Bambini che piangono per la fame, la guerra e altre infamie e gli adulti indifferenti tanto sono figli degli altri: alcuni adulti trascurano che i diritti dei bambini riguardano tutti i bambini e non solo i loro figli. Si ricordi che esiste pure la Carta africana sui diritti e il benessere del minore che, tra l’altro, stabilisce esplicitamente doveri dei genitori.

L’art. 32 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia recita: “Gli Stati parti riconoscono il diritto del fanciullo ad essere protetto contro lo sfruttamento economico e qualsiasi tipo di lavoro rischioso o che interferisca con la sua educazione o che sia nocivo per la sua salute o per il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale”. Il riconoscimento e la difesa dei diritti dei bambini richiedono anche equità generazionale, nella sua duplice accezione di equità intergenerazionale e di equità intragenerazionale, perché non bisogna dimenticare che ci sono bambini che non hanno nulla e costretti a lavorare nelle miniere o nelle discariche e bambini che hanno tutto e sono passivizzati e resi svogliati e diseducati al lavoro e a qualsiasi impegno.

“L’enfasi posta sui diritti senza doveri ha svuotato il significato di esperienze relazionali primarie - sessualità, matrimonio, gravidanza, educazione, infermità -” (cit.). Si è dimenticato e si dimentica che non tutto è diritto, che i diritti corrispondono a doveri e che i diritti si iscrivono in relazioni umane e non in astratto. Così a cominciare dai diritti dei bambini.

Il bioeticista Paolo Marino Cattorini sottolinea: “Nel dibattito bioetico, la “gestazione per altri” è criticata per diversi motivi: la moltiplicazione e frantumazione delle figure genitoriali, il rischio di conflitti tra madre biologica e sostitutiva, le difficoltà educative dei bambini che vivranno complicate relazioni familiari. Inoltre è quasi impossibile (oltre che controindicato) nascondere al bambino le modalità della sua nascita e occorrerà perciò prepararsi a comunicazioni emotivamente impegnative”. Gli adulti, anche nella scelta del concepire un figlio, devono essere consapevoli e responsabili che i diritti dei bambini sanciti nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia sono doveri per loro adulti e diritti anche per i bambini nascituri, tra cui il diritto a conoscere i propri genitori (art. 7) e la libertà di ricercare e ricevere informazioni (art. 13).

Rivolgendosi agli adulti, l’educatore Paolo Mai, cofondatore dell’Asilo nel Bosco, scrive: “Uno degli strumenti più poderosi che abbiamo si chiama Educazione Emozionale. Il suo orizzonte è spacciare felicità, prevenire disagio e malessere e migliorare il rendimento scolastico e la qualità del lavoro e delle relazioni, cammina verso questo obiettivo favorendo lo sviluppo delle competenze socioemotive attraverso un approccio sistemico, che lavora certo sui bambini ma in primis sugli adulti che se ne prendono cura a cominciare da noi stessi. Diverse ricerche neuroscientifiche e psicologiche lo dimostrano e noi ne siamo testimoni. Un bambino che nutre una sana autostima, che sviluppa empatia, resilienza e un’attitudine positiva alla vita, che conosce le emozioni e sa orientare i propri sentimenti, non cade nel disagio, incontra il suo posto nel mondo e costruisce relazioni virtuose”. Genitori e educatori devono essere consapevoli che tra i diritti dei bambini esistono anche i diritti emotivi dei bambini (su cui sono stati formulati decaloghi o carte), alcuni dei quali si possono evincere dalla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Decisiva per l’educazione emozionale e per la promozione dei diritti emotivi è la lettura. “La favola, la lettura delle fiabe diventa un mezzo efficace per comprendere la sfera emotiva dei nostri bambini, e poter rendere loro un valido sostegno, affinché possano acquisire la consapevolezza di ciò che provano, diventando sempre più sicuri di sé, affinando molte delle potenzialità che acquisiranno nel tempo. Le favole parlano un finissimo linguaggio, molto comprensibile ai bambini, parlano di loro e si rivolgono a loro con delicatezza anche affrontando tematiche non semplici, la favola cura le angosce dei nostri bimbi e li aiuta anche ad affrontare le loro piccole e grandi paure quotidiane, anche incubi che possono preoccuparli e renderli frustrati” (un team di esperti). “Favola” e “fiaba” hanno la stessa origine etimologica, vale a dire racconto, narrazione di fatto inventato, di qualcosa di fantastico, e hanno origine antica. Rispondono all’esigenza dell’essere umano di mettersi in rapporto con l’altro, di raccontare, raccontarsi, immaginare, mettersi in un circolo di emozioni, conoscere altro, l’ignoto. La lettura di favole e fiabe è polivalente, tra l’altro consente pure all’adulto di impartire l’orientamento ed i consigli necessari all’esercizio dei diritti dei bambini (art. 5 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), di promuovere la vera natura dei bambini e di educare alla natura in senso generale.

“Io parlo di “educare con la natura”, una preposizione semplice che esprime relazione, unione, partecipazione, collegamento; tra la natura e noi ci può essere un rapporto di compagnia, cum-panis, nel quale il pane, il nutrimento, viene condiviso. Questa relazione è una possibilità, non una condizione data, è la conseguenza di una scelta consapevole, di un’intenzionalità progettuale, in cui il progetto afferisce all’essere e al modo di vivere ancor prima che alla dimensione educativa” (cit.). Più che educare alla natura e nella natura, i bambini vanno educati alla loro natura e nel rispetto della loro natura, come già promosso da tanti tra cui Gianfranco Zavalloni anche con il suo decalogo dei diritti naturali dei bambini.

Il decalogo dei diritti naturali dei bambini formulato da Zavalloni comincia col diritto all’ozio e finisce col diritto alle sfumature, ovvero il diritto al tempo. Il tempo di essere e di vivere bambini per divenire adulti col tempo. Tempo: proprio quello che gli adulti perdono e di cui vanno, poi, alla vana ricerca.

I dieci diritti naturali (in primis il diritto alla strada e il diritto al selvaggio) sembrano ripercorrere la storia di Pinocchio, che fa di tutto perché non vuol essere un burattino, come talvolta sono trattati i bambini.

Infanzia negata di oggi, nel cosiddetto mondo occidentale: è desolante (ma senza voler generalizzare) vedere bambini che, pur crescendo, non camminano bene, non sanno correre, non sanno giocare insieme e con i giocattoli (che lanciano o distruggono volutamente), hanno paura di sporcarsi, si stancano subito, non vogliono colorare, usano prevalentemente colori scuri, non sanno impugnare bene la matita o le posate (anche a più anni di età), non si strofinano le mani per lavarsele ma le mettono semplicemente sotto il rubinetto, piangono per un nonnulla... Altro che diritti naturali dei bambini: oggi c’è un’involuzione delle funzioni naturali!

A fronte di tutto ciò lo psicologo Simone Olianti richiama: “[…] in nessun manuale di pedagogia ho trovato scritto quanto sia importante educare alla semplificazione, parola che ha una radice etimologica molto bella: togliere pieghe alla realtà. Quanto importante è saper potare, per far fiorire la vita!”. I genitori e gli altri adulti di riferimento spesso dimenticano o ignorano il diritto di ogni fanciullo ad un livello di vita sufficiente atto a garantire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale (art. 27 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e che loro hanno primariamente la responsabilità di assicurare questo sviluppo (liberare dal viluppo, intreccio confuso di fili), per cui bisogna educare all’essenziale, fornire l’essenziale e non coprire del superfluo.

E, di certo, è essenziale e non superfluo, come scrive lo psicoterapeuta Alberto Pellai nel decalogo per proteggere i nostri bambini (novembre 2018), garantire il: “10. Diritto a un futuro. Ovvero uno spazio di progetto in cui dare senso alla loro fatica di crescere, alla loro motivazione a impegnarsi, a studiare, a fare fatica. In questi ultimi anni, chi cresce si sente già da piccolo derubato del proprio futuro. E di tutti i diritti negati, forse questo è quello che fa più male a chi è nato e sta crescendo nel terzo millennio”. 

La famiglia fa miglia

Sintesi: I tratti identitari della famiglia senza i quali è un comune gruppo di persone

Abstract: L’articolo propone al lettore, anche attraverso giochi di parole, la bellezza insostituibile del fare famiglia

Una bambina ripete gioiosamente: “Noi siamo famiglia!”. La famiglia è la più bella realizzazione del noi in cui si rispetta ogni io. Se si conserva o prevale la mentalità individualistica (come succede spesso, dalle abitudini culinarie all’educazione dei figli), prima o poi i contrasti diventano conflitti laceranti e insanabili.

Secondo lo scrittore Bruno Ferrero: “I pavimenti delle nostre case sono ricoperti di parole. E i cuori sono vuoti”. In molte famiglie di oggi si parla ma non si comunica, si guarda ma non si osserva, si mangia ma non si gusta, si divide ma non si condivide...

Dopo ore dalla tragedia del terremoto gioia immensa per il ritrovamento di bambini sotto le macerie. Questo dovrebbe far riflettere i genitori e gli altri adulti con responsabilità sui danni che subiscono i bambini quando le famiglie vanno in frantumi.

Nelle famiglie del passato si pativa la fame, in quelle attuali si patisce spesso la fame d’amore che, spesso, si manifesta con disturbi del comportamento alimentare o con disturbi della personalità.

I genitori (e anche gli altri adulti) trascurano troppo spesso la salute mentale dei figli cadendo in vari errori: uso inadeguato di parole che vanno a minare l’autostima dei figli; eccessiva femminilizzazione dell’educazione; non abituare i figli all’autonomia (nemmeno di pensiero); non dare loro attenzione e ascolto quando richiesto; lasciarli soli davanti a schermi; conflittualità esacerbata tra i genitori (che agli occhi dei figli risulta una “bestializzazione”). Vari i richiami nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, a cominciare dal binomio “crescita e benessere” menzionato nel Preambolo ove è definita la famiglia. L’IFS-Institute for Family Studies (U.S.A.) ha approfondito in una ricerca (condotta tra il 1996 e il 2019 e pubblicata nell’agosto 2022) il tema delle performance scolastiche dei ragazzi provenienti da famiglie stabili e basate sul matrimonio rispetto a quelli provenienti da famiglie disgregate, monogenitoriali, ricostituite. Ne è emerso che nell’arco di vent’anni è aumentata la percentuale di studenti provenienti da famiglie disgregate e la struttura familiare rappresenta un fattore predittivo del successo o dell’insuccesso scolastico. I ragazzi provenienti da famiglie stabili e durature hanno maggiori possibilità di ricevere il supporto di cui hanno bisogno per avere buone performance rispetto a quelli provenienti da famiglie disgregate o ricostituite. Ciò non significa che gli studenti provenienti da famiglie non tradizionali non possano andare bene a scuola, ma questo fattore è significativo (almeno quanto l’etnia e il contesto socio-culturale, sebbene ottenga minor attenzione nelle discussioni pubbliche) nella probabilità di incorrere in sospensioni, bocciature, condotte scorrette e conseguenti etichettamenti. I dati della ricerca confermano quanto sia rilevante e insostituibile la famiglia e la cosiddetta alleanza educativa scuola-famiglia.

Il pediatra Giorgio Tamburlini precisa: “Ricordando che i bambini più piccoli apprendono soprattutto implicitamente, cioè attraverso l’osservazione e le interazioni con gli altri membri della famiglia, i genitori possono aiutare i propri figli a sviluppare competenze sociali offrendo modelli di relazioni positive, esperienze emotivamente ricche (storie, letture, giochi, musica) e opportunità di collaborare ad attività di routine, quali prendersi cura di faccende domestiche o dei propri fratelli” (in uno studio del 2020). I genitori devono essere consapevoli che l’apprendimento non è un processo scolastico ma di vita che comincia già dal concepimento e che ogni loro gesto o atteggiamento produce effetti sull’apprendimento dei figli.

“Quando l’attenzione è costretta o richiesta attraverso minacce, il paradosso è che non aiutiamo a creare vera attenzione e in aggiunta i bambini crederanno che l’attenzione sia quella: una condizione di paura e stress. Questo è un apprendimento falso, le neuroscienze ci insegnano che quando siamo attenti siamo in pace, perché quando la mente è focalizzata il nostro cervello produce endorfine (le cosiddette sostanze del benessere). Non è chiedendo attenzione alla classe che la otterremo, ma aiutando i bambini a scoprirla, attivarla e allenarla, così che possano sperimentarne la forza e la bellezza” (un team di esperti). Dare attenzione in una relazione interpersonale, far provare l’attenzione, suscitare attenzione, educare all’attenzione per arrivare a richiedere attenzione e non pretenderla o imporla. Così prima in famiglia e poi a scuola ma, purtroppo, non è così.

Sulla priorità dell’educazione il sociologo Francesco Belletti sostiene: “[…] rimane una delle parole irrinunciabili per qualificare l’identità della famiglia: non c’è famiglia senza educazione, non solo verso i figli, ma anche nei confronti delle persone adulte, che “crescono insieme”, anche nella fede e nella propria vocazione, proprio attraverso la quotidianità della famiglia”. Educazione, interrelazione, fiducia nella vita, quotidianità: i tratti identitari della famiglia senza i quali è un comune gruppo di persone.

Il verbo “custodire” contiene “dire”, “udire”, “cuore”, “cure”, “storie”: sia così il custodire i bambini, gli affetti, le relazioni, in altre parole la famiglia.

La famiglia è culla anche dell’amicizia ma i genitori non devono atteggiarsi da amici dei figli né tanto meno degli amici dei figli. Bisogna inculcare nel fanciullo il rispetto dei genitori (art. 29 lettera c Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

La scrittrice Michela Murgia affermava: “La famiglia è il luogo in cui si può passare la vita a farsi perdonare per l’essere come l’altro non avrebbe voluto, il luogo in cui i sogni dell’uno possono diventare gli incubi dell’altro” (a Matera il 10 giugno 2016). La famiglia è un roseto e la rosa si caratterizza per le spine, altrimenti sarebbe come gli altri fiori.

Edoardo e Chiara Vian, esperti di famiglie in difficoltà, commentano: “Anche una coppia è sempre grano e zizzania insieme; nessuna relazione è priva di elementi infestanti né di elementi fruttuosi e nutrienti. [...] Questo lo si vede anche nella relazione con i figli. Quando smettiamo di concentrarci sui loro limiti, sulle loro mancanze e ci prendiamo cura e valorizziamo le loro capacità, la loro bellezza, allora essi fioriscono, perché si sentono amati e visti nella loro parte migliore e il loro seme buono cresce e porta frutto. Anche tra marito e moglie succede lo stesso”. In famiglia non si deve minare l’autostima altrui con continue critiche e richiami né alimentare un’ingiustificata iperstima ma aiutarsi reciprocamente adempiendo così all’obbligo di assistenza. La famiglia e ogni persona non sono nate già belle e fatte ma vanno costruite e la costruzione di ogni cosa comporta fatica e sudore.

In famiglia ci si dovrebbe preoccupare più della “manutenzione” delle relazioni che del mantenimento dei membri: famiglia quale ambiente naturale per la crescita e il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Il pedagogista Pier Cesare Rivoltella spiega: “Siamo di fronte a una generazione che non è abituata a fare i conti con il limite, ma non è colpa dei ragazzi, è frutto dell’educazione della famiglia affettiva, che tende, al contrario di quella di una volta, ad assecondare i desideri, piuttosto che a imporre regole. E questo incide anche sulla scuola”. I genitori devono avere presente la differenza tra addolcire la vita e edulcorarla e che la scuola non deve essere né l’appendice né un surrogato della famiglia: prima o poi loro non ci saranno e i figli cadranno e potrebbero non essere in grado di rialzarsi.

Si può pure non nascere da una famiglia ma non si può vivere senza famiglia. La parola “famiglia” evoca “maniglia” e “caviglia”: la famiglia è una maniglia che fa aprire la porta della vita ed è un’articolazione importante come la caviglia che regge il peso e fa fare passi nella vita.

Famiglia, centro della società, deve essere o tornare al centro della società. 

I diritti dei bambini nella pedagogia di Daniele Novara

Abstract: L’articolo, partendo dalle riflessioni del noto pedagogista, propone un breve elenco di diritti spettanti ai bambini, tutt’altro che scontati, di cui gli adulti dovrebbero prendere consapevolezza

Dopo il periodo della pedagogia nera e dell’antipedagogia, oggi, sia in famiglia sia a scuola, si tende a trascurare la vera pedagogia. Un pedagogista contemporaneo, spesso controcorrente e dalla parte dei bambini, è Daniele Novara.

In uno dei suoi numerosi scritti si legge: “È il mito della vicinanza a tutti i costi che rischia di sfociare in una sorta di morbosità, specie quando i figli dopo i 6 anni ottengono di essere ancora puliti in bagno dai genitori. Questi eccessi di promiscuità rischiano di interferire sul futuro desiderio sessuale e di mortificare l’autostima. Il pudore resta un’impronta educativa importante che non va gestita, come in passato, in modo autoritario e dispotico. Non si tratta di negare il contatto fisico con i figli, ma di rispettare i confini reciproci, specialmente a partire dai 5 anni, quando per i bambini diventa più consapevole l’incombenza del corpo adulto e la necessità di costruire il riconoscimento di quello proprio come confine da rispettare”. Nell’art. 29 lettera c della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si prevede: “[…] inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori, della sua identità”. “Rispetto dei genitori” è da intendere in ogni senso, anche fisico: sono frequenti, invece, le scene di bambini che sono violenti nei confronti dei genitori o che toccano le tette delle mamme anche in luoghi pubblici e in età di scuola primaria e altro ancora. Dal rispetto dei genitori scaturisce il rispetto della propria identità. Si noti che nella locuzione “rispetto dei genitori” non si usa l’aggettivo possessivo che, invece, compare in “sua identità”.

Daniele Novara scrive: “Che si tratti di Babbo Natale, figura nordica entrata a far parte di recente anche della nostra tradizione natalizia, di Santa Lucia, San Nicola o di Gesù Bambino, che invece sono protagonisti di tradizioni molto più antiche, è importante che i bambini possano immergersi nel rito. I piccoli fino ai 7-8 anni, non hanno la logica degli adulti, ma il dono del pensiero magico. Possono parlare con l’amico immaginario, trasformare un bastone in una spada e uno straccio in un mantello. Negare questa dimensione vuol dire negare il pensiero infantile, fino a cancellarlo”. “Pensare” deriva da “pesare”, quindi è dare peso alle cose: i bambini vanno perciò aiutati, stimolati a pensare (fantasticare, immaginare, ideare…) anche per dare il giusto peso o leggerezza alle cose (tanto che si parla di “educazione alla leggerezza”), per essere in grado di elaborare un loro pensiero libero di librarsi. “Gli Stati parti devono rispettare il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione” (art. 14 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Daniele Novara spiega: “Ogni cosa ha il suo posto, come sa ogni bambino che ha bisogno di un territorio riconoscibile. Ci vuole però gradualità, perché il mettere in ordine come lo intende l’adulto è ben lontano dalle possibilità di un bambino di tre-quattro anni ma anche di sei-sette anni. Anche se ciò che si può pretendere da un bambino di sei-sette anni è diverso da quello che si può pretendere da uno di tre: ben difficilmente, infatti, un piccolo potrà rifarsi il letto, cosa invece possibile per un bambino di qualche anno più grande”. Educare a mettere in ordine i giocattoli, la cameretta, l’aula scolastica è essenziale nonché doveroso perché dà un ordine mentale ai bambini e li educa alla responsabilità, a prendere un posto nello spazio fisico e sociale: “preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera […]” (lettera d dell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

A proposito di “posto” o “spazio” (ovvero ambiente), Novara afferma: “Non lasciamo soli i bambini con i videogiochi. Accorgiamoci di loro: hanno diritto a essere educati e a incontrare i coetanei in presenza, fuggendo da contesti sempre più virtuali e più pericolosi”. Non grandi cose o videogiochi o altri marchingegni ma semplicemente momenti divertenti, quello di cui hanno bisogno i bambini per continuare a sorridere alla vita, sviluppare anche il pensiero divergente e prendere la vita controcorrente come i salmoni durante le loro migrazioni.

Sui giochi Novara si chiede: “Ma sarà utile soffocare i bambini con mucchi di giochi? Le ricerche su questo versante sono inequivocabili: quelli che dispongono di troppi giocattoli rischiano una sorta di spegnimento creativo, ossia una forma di interferenza nella loro stessa capacità di giocare perché, come dice anche il proverbio, «il troppo, stroppia». Viceversa, una misura più asciutta ed essenziale di giocattoli permette ai piccoli di sviluppare una maggiore creatività, dandosi da fare per tirar fuori il molto dal poco”. Anziché lamentarsi dei bambini di oggi dicendo che sono viziati, apatici, insoddisfatti, pigri e altro, bisognerebbe interrogarsi sulle cause di ciò e sulle responsabilità di ciascuno, anche nella scelta di un regalo che deve essere finalizzata a quel bambino e non al bambino che si ha nella propria mente.

Novara prosegue: “Il criterio per definire educativo un regalo è che sia adeguato ai bisogni infantili, che sia in grado di sviluppare le risorse dei bambini e che li faccia giocare insieme. Si tratta ancora una volta di consentire all’infanzia di mantenere tutta la magia di un’età nella quale si pongono le basi per tutto il resto della vita”. La magia dell’infanzia è nel giocare e non nei giocattoli costosi e innovativi. La gioia del giocare e la capacità di mettersi in gioco si portano sempre con e in sé, i giocattoli si rompono e si buttano come tutte le cose.

I bambini imparano a giocare e a mettersi in gioco anche litigando tra loro, aspetto tanto dibattuto dal pedagogista: “I bambini hanno il diritto di litigare”. I bambini devono poter litigare (di cui il suffisso -igare significa etimologicamente “spingere, fare, agire”) per imparare a litigare senza interferenze da parte dei genitori e di altri adulti che intervengono impropriamente prendendo le difese dell’uno o dell’altro e chiedendo, quasi sotto forma di interrogatorio, chi sia stato il primo a cominciare, perché si sia cominciato, inducendo a chiedere delle scuse non sentite e non interiorizzate e altro ancora, considerato solo dal punto di vista degli adulti. Litigare consente ai bambini di conoscersi meglio, di esprimersi (artt. 13 e 14 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), di svilupparsi (liberarsi da ogni inviluppo, art. 27 Convenzione), di vivere le proprie esperienze e di formarsi anche la memoria della propria infanzia.

Novara aggiunge: “La grande psicologa Clotilde Pontecorvo mi raccontava che alcuni bambini le avevano rivelato questo segreto: «Le parole servono a litigare senza farsi male». Gli adulti dovrebbero ascoltare questa frase”. Si ribadisce che i bambini hanno il diritto di litigare per cui devono imparare a “litigare bene” senza l’intervento, l’ingerenza o lo schieramento degli adulti, appostati dietro l’angolo e pronti a scattare e a litigare al posto dei bambini come fanno alcuni genitori (da tipici “genitori spazzaneve o elicottero”) durante le partite di calcio o calcetto contro le scelte dell’arbitro o nei parchi giochi quando i bambini si contendono un giro sull’altalena o sulle giostrine. Litigare per i bambini è anche un modo per esercitare i loro diritti, da quello della libertà di pensiero (art. 14 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) al diritto al gioco (art. 31). È necessario alfabetizzare i bambini ai conflitti affinché imparino a superare le difficoltà e ad assumersi le responsabilità per prepararsi ad avere una vita individuale nella società (come si ricava dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Secondo Novara: “Ci vogliono padri e madri che sappiano restituire ai figli il gusto del buon litigio, capacità che preserva dalla violenza. Perché dietro a ogni uomo violento si cela sempre un bambino che è stato inibito nella sua necessaria formazione a gestire bene le relazioni e le contrarietà con i propri compagni”. I bambini hanno il “diritto di litigare” e i genitori non devono intervenire come giudici, avvocati, sindacalisti o opinionisti. I bambini devono poter litigare per saper litigare (in particolare tra fratelli o tra pari) e sbrogliarsela da soli, per il loro sviluppo morale e sociale (art. 27 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Daniele Novara argomenta: “[...] dietro a ogni uomo violento si cela sempre un carente conflittuale, ossia un bambino che è stato o represso totalmente o inibito nella sua necessaria formazione a gestire bene le relazioni e le contrarietà con i propri compagni”. La rabbia e altre emozioni dei figli non vanno né represse né enfatizzate né celate o giustificate ma osservate e incanalate per aiutarli a decodificarle e acquisire poi un proprio linguaggio e comunicare con gli altri. È questo uno degli aspetti della responsabilità genitoriale di cui all’art. 18 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia in cui si parla di “allevamento” e “sviluppo” del bambino.

Perché il pieno e armonioso sviluppo della personalità del bambino, di ogni bambino (dal Preambolo della Convenzione), ovvero il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale (come recita l’art. 27 Convenzione) è il vero sviluppo sostenibile su cui puntare per il futuro.

Nel cuore della scuola dell’infanzia

La scuola dell’infanzia, nonostante la sua rilevanza sotto molteplici aspetti, continua a essere bistrattata o marginalizzata, soprattutto nell’immaginario collettivo o dalle stesse famiglie. Il pedagogista Daniele Novara richiama: “Una volta si chiamava scuola materna, oggi ha preso il nome di scuola dell’infanzia, per levarle quel retrogusto di maternage che non deve avere in quanto nasce proprio per togliere i bambini e bambine dal puro e semplice accudimento dei genitori. Lì si vivono esperienze, avventure, scoperte, laboratori...”. La scuola dell’infanzia è la prima istituzione pubblica ove si applicano gli articoli 2 e 3 della Costituzione a favore dei bambini ma, purtroppo, la funzione della scuola dell’infanzia non è riconosciuta, soprattutto da parte dei genitori che, tra le tante, ancora la chiamano “asilo”.

Il pedagogista Novara aggiunge: “Ritengo che siano proprio i cicli iniziali della frequenza scolastica quelli più interessanti. In particolar modo la scuola dell’infanzia che raggiunge i bambini e le bambine dai 3 ai 6 anni, periodo in cui si crea il cosiddetto «attaccamento sociale», ossia le regole a cui bisogna adeguarsi per stare assieme agli altri nel rispetto reciproco. A questa età si impara a litigare superando la frustrazione del proprio egocentrismo e cominciando a riconoscere la presenza altrui. In queste poche parole si trova il nucleo stesso dell’essere cittadini: rispetto me stesso rispettando gli altri e assumendo i miei diritti e i miei doveri in una logica di reciprocità e condivisione”. La scuola dell’infanzia è la prima scuola di cittadinanza e i primi che devono cogliere questo aspetto e contribuirvi sono i genitori, ancor di più i genitori di figli unici.

Infatti, l’educazione civica a scuola non deve essere intesa solo come un adempimento normativo ma coronamento del percorso scolastico quale educazione alla cittadinanza, di cittadini non del domani ma già del presente. In tal modo la scuola si concretizza quale formazione sociale ai sensi dell’art. 2 della Costituzione e si mostra istituzione, comunità, servizio e non una qualsiasi agenzia educativa. È un percorso che comincia già con la scuola dell’infanzia non con ore dedicate ma con lo stesso modus operandi della scuola dell’infanzia, con l’accoglienza e con i campi di esperienza, in modo particolare con il campo di esperienza “Il sé e l’altro” e con l’accoglienza anche delle famiglie con la sottoscrizione del Patto educativo di corresponsabilità.

Nella scuola dell’infanzia è prassi diffusa svolgere attività sulle cosiddette “parole gentili”, in primis il “grazie”, perché educazione civica è anche quella denominata “educazione alla gentilezza”. Nelle famiglie odierne non tutti i genitori educano i figli a dire o esprimere in altro modo il “grazie”, perché essi stessi non sono educati in tal senso rivelando spesso ingratitudine verso i loro genitori o gli altri, o perché non fanno sperimentare la gratuità ai figli nelle relazioni sempre più spesso ridotte a un “do ut des”, o perché danno tutto e subito ai figli che, poi, pretendono altrettanto a scuola e in ogni altro ambiente (a differenza di quanto avviene in altre culture o civiltà, tra cui quella giapponese). Educare è anche allevare (cioè elevare), inculcare il rispetto di valori (art. 29 lettera c Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Novara afferma: “Avere un insegnante che spieghi la filosofia in un liceo è importante, ma avere una maestra o un maestro che dai 3 ai 6 anni aiuti i bambini a stare con gli altri, non ha paragone”. La scuola dell’infanzia è la prima scuola in cui si applicano i principi costituzionali, come lo svolgimento della personalità (art. 2 Cost.), rimozione degli ostacoli (art. 3 comma 2) e altri, ma questa funzione sociale non è adeguatamente riconosciuta in Italia e, soprattutto, nel Sud.

Daniele Novara continua: “Faccio mia l’esperienza francese e lancio un appello alla politica italiana: rendiamo le scuole dell’infanzia un luogo dove tutti i bambini e le bambine, necessariamente e obbligatoriamente, possano e debbano passare un pezzo importante della loro vita”. La scuola dell’infanzia è uno dei pochi luoghi (e non posti) dove i bambini possono essere, fare, diventare bambini.

È anche il luogo per eccellenza delle fiabe; le fiabe, soprattutto quelle classiche (tenendo conto che hanno avuto già varie riscritture), si possono usare anche per far inventare a bambini e ragazzi altri finali, la continuazione o farle riscrivere al contrario: per esempio si può proporre loro il lupo minacciato da Cappuccetto Rosso, che nella realtà succede quando si trasmette ai bambini l’ingiustificata paura degli animali o la mancanza di rispetto nei loro confronti, anche delle formiche. Così si può fare letto-scrittura creativa sin dalla scuola dell’infanzia.

Attraverso le fiabe, e non solo, si possono mettere in campo altre esperienze e attività, come l’educazione emotiva, quella motoria e lo yoga.

È necessario costruire e coltivare la memoria personale e familiare nei e dei bambini condividendo con loro esperienze, raccontando e raccontandosi, organizzando riti e routine (come si fa nella scuola dell’infanzia), raccogliendo e conservando almeno alcuni “cimeli” (fotografie, libri, giocattoli, vestitini) della loro infanzia, come si faceva in passato. È un processo importante per la formazione dell’identità personale e familiare (art. 8 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia “identità e relazioni familiari”) e della interiorità del bambino (art. 27 Convenzione “sviluppo spirituale”).

Sono in aumento i disturbi motori nei bambini, dall’iperattività alla disprassia. A parte le cause genetiche, ricerche recenti hanno rivelato che può dipendere da stimoli più o meno ricevuti nei primi sei mesi di vita. A questo si aggiungono altre cause esogene, come l’abuso della tecnologia già in tenera età, cattive abitudini dei genitori che portano in braccio i bambini per accompagnarli alla scuola dell’infanzia, non li fanno salire e scendere le scale autonomamente per paura che cadano, li portano nel passeggino anche quando hanno più anni di età e altro ancora. I genitori hanno abolito le fasce ai neonati, il girello e il box ma hanno adottato altri atteggiamenti più nocivi di quelli abbandonati. I genitori si occupano e preoccupano di tutto ciò che concerne la crescita dei figli ma non altrettanto del loro sviluppo. Lo sviluppo motorio è fondamentale per quello sviluppo integrale di cui all’art. 27 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

Lo yoga è un’occasione speciale per riconnettersi con se stessi attraverso il respiro, il movimento e la consapevolezza. Lo yoga, però, non si pratica solo sul tappetino: può essere anche un viaggio interiore che comincia dalla lettura. Etimologicamente “yoga” significa “unione”, unione tra anima e corpo, tra uomo e realtà, armonia: quello cui educare i bambini e che si pratica soprattutto nella scuola dell’infanzia, per esempio nella routine del sedersi in cerchio o nella metodologia del circle time e che si potrebbe praticare anche nei gradi successivi.

Gli insegnanti dovrebbero fare gli artigiani delle emozioni e gli architetti delle menti degli alunni, a cominciare dalla scuola dell’infanzia o, soprattutto, nella scuola dell’infanzia, da cui gli altri gradi scolastici dovrebbero prendere esempio. Spesso, però, non ci sono le condizioni soggettive e oggettive per operare in tal modo, a cominciare dalla mancata collaborazione di molti genitori.

“L’affido familiare offre al bambino un contesto in grado di accompagnarlo nella crescita, ma ha anche l’obiettivo di ricostituire una base sicura nella relazione tra il bambino e chi si prende cura di lui. Una buona relazione di attaccamento è fondamentale per crescere sereni, mettere ordine nel passato, dare un senso agli eventi sfavorevoli e favorire i rapporti con la famiglia d’origine” (cit.). Tutti i genitori dovrebbero assumere l’atteggiamento dei genitori affidatari, cioè sviluppare una “misurata” relazione di attaccamento con i figli con la consapevolezza che i figli non appartengono ai genitori e che prima o poi devono uscire da quell’ambiente e andare altrove. Oggi, purtroppo, in molte famiglie non si sviluppa un “buon attaccamento” e gli effetti si vedono negli ambienti extrafamiliari, a cominciare dalla scuola dell’infanzia. Dove, alcuni genitori non solo non facilitano l’inserimento dei figli ma, in seguito, controbattono con le/gli insegnanti e giustificano o difendono ad ogni costo i figli arrampicandosi sugli specchi come i figli stessi: “Eppure a casa sta calmo, fa di tutto, disegna, colora... e da solo!”.

La collaborazione e il confronto dei genitori con la scuola dell’infanzia, invece, è costruttivo non solo per il percorso del bambino ma anche come supporto alla genitorialità stessa, perché il modello della coppia educativa delle/gli insegnanti (che si fonda e completa sulle e nelle differenze personali e intrapersonali) e l’identità stessa della scuola dell’infanzia (che, si ricordi, non è più scuola materna) offrono spunti e stimoli alla modulazione della propria genitorialità e della coppia genitoriale per allontanarla pure dalla “maternalizzazione” educativa solitamente dominante.

I bambini arrivano dalle famiglie e ritornano nelle famiglie, per cui urge che le stesse prendano consapevolezza di “famiglie come partner di un’alleanza educativa”, così definite nelle “Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei” (adottate con il decreto ministeriale 22 novembre 2021 n. 334).