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“Ma-estro” oggi

Lucio Lombardo Radice, tra l’altro pedagogista del ‘900 (1916-1982), definiva i maestri del 2° dopoguerra, tra cui Mario Lodi e il maestro televisivo Alberto Manzi, “maestri missionari, operai della scuola ed anche rivoluzionari”. Il XXI secolo ha ancora più bisogno di “maestri missionari, operai della scuola ed anche rivoluzionari”: da annoverare i “maestri di strada” e tutti quei maestri che continuano a operare con passione e senso del dovere aiutando i discenti lungo la strada della vita.

 

Il maestro contemporaneo Davide Tamagnini afferma: “Mettere al centro bambine e bambini significa considerarli soggetti autorevoli, capaci di dialogo, portatori di contenuti, persone da cui imparare e a cui insegnare, persone con cui è bello crescere […] È chiaramente possibile portare a scuola mille proposte, ma possiamo far parlare la vita stessa che la scuola ci fa condividere e imparare a leggere il nostro fare con lo sguardo di chi si educa insieme a diventare cittadini. Questa è la direzione verso cui dobbiamo tendere ciò che viene vissuto tra i banchi di scuola può cambiare la società. Per questo è necessaria una scuola che sappia valorizzare l’umano e permettergli di crescere in armonia con l’ambiente, che metta al centro il bambino, che lo consideri protagonista”. Nel secolo scorso ci sono stati insigni maestri o educatori (e non teorici o pedagogisti) che hanno messo veramente al centro bambini e ragazzi e hanno concretizzato i principi costituzionali della scuola pur in tempi e condizioni difficili, senza progetti o riforme o materiale adeguato, da don Lorenzo Milani a Danilo Dolci.

 

Tra gli altri grandi maestri è sempre attuale Gianni Rodari, nato da famiglia povera, autodidatta, “maestro di resilienza” diventando pietra miliare della e nella cultura italiana, dalla pedagogia alla letteratura per l’infanzia. Il suo metodo: attingere dalla gioia e dalle risorse dei bambini stessi e basarsi sul giocare e sul ridere. Tra le sue espressioni e opere geniali: “grammatica della fantasia”, “errore creativo”, “fiabe a rovescio”, “giocattoli poetici”. La sua poesia “La parola piangere” è una bella pagina di educazione emotiva (non solamente a scuola), soprattutto per il ruolo della “vecchia maestra”, il “Museo delle lacrime” e il verbo “narrare”, dimensione da recuperare e fondamentale nelle relazioni e nelle emozioni.

 

Altri maestri da ricordare lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, maestro di scuola elementare (1921-1989) e lo scrittore lucano Leonardo Sinisgalli, ingegnere (1908-1981), che sostenne l’esperienza dei cosiddetti “bambini incisori” del maestro Gianni Faè: Sciascia e Sinisgalli, due meridionali che si sono “fatti da soli”, hanno superato le ristrettezze dei posti in cui sono nati, hanno superato le difficoltà dei loro tempi, hanno studiato e sudato, hanno coltivato i loro talenti e interessi, sono stati eclettici andando oltre il loro titolo di studio e la professione esercitata. Esemplari per quello che hanno fatto e come lo hanno fatto, la loro resilienza dimostra che la vita è più di un’esistenza: sono da conoscere e far conoscere in ogni tempo e alle generazioni di ogni tempo. Come recita l’art. 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”.

 

“Nei primi anni dopo la sua ratifica in Italia, avvenuta nel 1991, in alcune città il 20 del mese di novembre si distribuirono agli studenti copie della Convenzione; ma certamente ciò non può essere considerato un «far largamente conoscere». Di fatto, dopo ripetute verifiche, si nota come i diritti salvaguardati da tale Convenzione rimangano ancora sconosciuti ai politici, agli amministratori, agli educatori e ai genitori. Probabilmente molti sanno degli impegni assunti rispetto alla fame, alle malattie, all’ignoranza e allo sfruttamento, ma quasi nessuno sospetta che si parli di cittadinanza, di diritto alla parola, alla libera espressione e associazione nei riguardi dei bambini” (lo storico gesuita Giancarlo Pani in “I diritti dell’infanzia”, 2019). La Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia non riguarda solo i rapporti internazionali o le grandi violazioni ma definisce i diritti nella quotidianità dell’infanzia, in famiglia e a scuola. Da un’interpretazione sistematica si ricava il diritto del bambino al tempo, al suo tempo, al tempo libero, all’ozio. Tutto quello che è confluito nel “decalogo dei diritti naturali” stilato dal compianto maestro Gianfranco Zavalloni.

 

Il bioeticista Paolo Marino Cattorini sostiene: “Tutti abbiamo da apprendere qualcosa dai bambini, che sono maestri di speranza, se il loro immaginario non viene soffocato dalle ansie degli adulti, dell’opportunismo, dalla pigrizia di chi rimanda le decisioni e si fa mantenere come un parassita”. “Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto innato alla vita” (art. 6 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). I bambini sono tedofori di speranza e vita e nascono con questi diritti. Coloro che hanno autorità la devono esercitare nel senso letterale della parola: “autorità” deriva dal verbo latino “augere”, far crescere, aumentare.

 

I bambini sono “maestri” di vita nel senso etimologico, perché “maestro” deriva dal latino “magis” che significa “più”. Per esempio i bambini passano dal contendersi qualcosa al difendersi l’un l’altro: si impara a vivere ogni giorno e i bambini hanno da insegnare tanto in tal senso.

 

Lo scrittore Alessandro D’Avenia sottolinea: “La scuola che moltissimi colleghi già fanno: quella in cui la relazione è non solo centrale ma viene al primo posto. Chiunque di noi ricorda un professore, anche solo uno, che lo ha segnato. E in genere è quello che lo ha sfidato e al contempo gli ha voluto bene. Lì c’è la vera scuola, e continuerà a esserci: dove c’è questa relazione generativa. E questo prescinde da muri, innovazioni, età dei professori e tanti altri aspetti contingenti. La scuola c’è dove si difende e si fa crescere ciò che è umano nell’uomo. Per primi sono chiamati a farlo i maestri con se stessi. Tutto il resto viene a cascata…”. “I bambini hanno diritto a frequentare musei, teatri, biblioteche, cinema e altri luoghi di cultura, insieme ai propri compagni di scuola; a vivere esperienze artistiche e culturali accompagnati dai propri insegnanti, quali mediatori necessari per sostenere e valorizzare le loro percezioni” (artt. 11 e 12 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura, Bologna 2011). E il maestro, oggi più che mai, è colui che accompagna, media, sostiene e valorizza.

 

Secondo il maestro e scrittore Albino Bernardini “esistono maestri d’occasione e i maestri”. Non ci si può improvvisare maestri (che è cosa differente dall’essere o fare gli insegnanti): è una scelta di vita, uno stile di vita, una visione di vita.

Tutti gli insegnanti dovrebbero porsi come “maestri di strada” (come Cesare Moreno), cioè avvicinarsi ai bambini e ai ragazzi nelle loro situazioni di vita per condurli al bello e nuovo della cultura.

 

La psicologa Daniela Lucangeli spiega: “Negli ultimi anni si è sviluppato un nuovo filone di ricerca scientifica, a cui è stato dato il nome di warm cognition, letteralmente «cognizione calda». Abbiamo imparato che le nozioni si fissano nel cervello insieme alle emozioni e queste ultime, a loro volta, influiscono concretamente sui processi cognitivi, come attenzione, memoria, comprensione. Se un bambino impara con gioia, nella sua memoria resterà traccia dell’emozione positiva che gli dirà: “Ti fa bene, continua a cercare”. Se un bambino impara con gioia, impara di più e meglio. Il bravo maestro, ergo, è colui che aiuta, che dà fiducia e coraggio, non che ingozza e giudica, somministra e verifica”. Per emozionare un insegnante deve continuare a provare, nonostante tutto e tutti, emozione in e per quello che fa, anche quando sono emozioni negative. Con le emozioni il bambino è sollecitato “in tutto l’arco delle sue potenzialità” (dall’art. 29 lettera a Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

 

Anagrammando la parola “maestro” si ricavano tante altre parole significative: mastro, estro, mostra, arte, arto, roseo, astro,… Perché ai maestri si richiede che abbiano e siano questo e altro, quali “cattedrali di senso nel deserto di significati” (cit.). 

Cosa fa la famiglia, cosa fa famiglia

Abstract: L’articolo si interroga sul ruolo e sugli elementi costitutivi della realtà familiare, evidenziandone l’insostituibile funzione nella vita dei singoli e della comunità

 

1. Cosa fa la famiglia

A marzo 2024 i risultati di un referendum sulla famiglia svoltosi in Irlanda, dove non sono passate le riforme della Costituzione del 1937 sulla tipologia di famiglia e sul ruolo della donna in famiglia, hanno suscitato scalpore e rinnovato le annose discussioni sulla famiglia.

 

La famiglia era ed è ogni giorno attaccata da più parti, a cominciare dalla pubblicità che propaganda solo bellezza esteriore, sesso spiccio e fatica zero. La famiglia è sempre stata problematica e privilegiata, uno spazio esclusivo e, al tempo stesso, inclusivo, un luogo che diviene, spesso, “nonluogo”, privo di una propria identità e da cui si transita solo senza fermarsi e conoscersi più di tanto.

 

La famiglia è il luogo di pre-parazione alla vita: coltivare e condividere l’amore per moltiplicarlo, il reciproco rispetto pur conservando le proprie differenze, la serena e paziente attesa, la sana autorità con cui credere, esprimere, vivere e trasmettere convinzioni e valori. Così la famiglia è “società naturale” (art. 29 comma 1 Cost.): “società”, unione di soci, compagni, coloro che seguono, che accompagnano, “naturale”, dal verbo nascere e, quindi, capacità di generare.

 

Molto interessante la rappresentazione grafica adottata dalle Nazioni Unite per ogni azione sulla famiglia: all’interno di un cerchio, verde scuro (come gli alberi sempreverdi), ben definito a rappresentare il mondo, è rappresentato “un cuore coperto e protetto da un tetto, collegato ad un cuore più piccolo, a rappresentare la vita e l’amore in una dimora dove ciascuno trova calore, cura, sicurezza, unità, tolleranza e accettazione […]. Il disegno è aperto, a significare che la continuità è collegata ad una certa dose di incertezza. Il colpo di pennello che completa la parte aperta del tetto sta a simbolizzare la complessità della famiglia” (cit.). Famiglia e casa, famiglia è casa: tetto e affetto, appartarsi ma al tempo stesso aprirsi, tratti comuni con altre famiglie e proprie peculiarità.

 

Una delle tante novità introdotte dalla riforma del diritto di famiglia nel testo degli artt. 143 e ss. del codice civile è l’espressione “bisogni della famiglia” nel 3° comma dell’art. 143. La famiglia non è quella dei propri sogni o per realizzare i propri sogni ma quella che si costituisce e si vive nella quotidianità ed esprime la sua esistenza ed essenza. Nel testo previgente, invece, prevaleva una mentalità più “individualistica” per cui si diceva che “il marito è il capo della famiglia” (art. 144 cod. civ. fino al 1975) e “ha il dovere di proteggere la moglie, di tenerla presso di sé e di somministrarle tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita in proporzione alle sue sostanze” (art. 145 cod. civ. ante 1975). La famiglia non è intesa più come una sistemazione personale ma un sistema interpersonale e intrapersonale.

 

Il sociologo Pietro Boffi scrive: “Le famiglie, con i loro legami, i loro progetti di vita, la loro funzione riproduttiva, educativa, di trasmissione di valori, infatti non sono un optional. Sono lo snodo fondamentale attorno al quale si generano le identità e i progetti di vita dei singoli, e la capacità di tenuta di tutto il sistema, anche nei suoi risvolti socio-assistenziali. Il loro venir meno, il loro essere ridotte a micro-unità, rende estremamente difficile, se non impossibile, l’esercizio di queste funzioni. Pensiamo semplicemente alla questione anziani: siamo il Paese, insieme al Giappone, con il maggior numero di persone anziane, delle quali si fanno carico in via quasi esclusiva proprio le loro famiglie: ma le generazioni dei figli unici come faranno?” (nell’articolo “Una su tre è single: la famiglia “Lilliput” fa bene all’Italia?” del 30-12-2019). La famiglia è scuola di vita, di diritti, di solidarietà (art. 2 Cost.) e con l’aumento dei figli unici o delle famiglie monoparentali o altre situazioni simili vengono meno questi presupposti e si determinano faglie nel tessuto sociale.

 

Dal primo Rapporto internazionale del Family International Monitor (progetto di ricerca internazionale nato nel dicembre 2018 e presentato a giugno 2020) si ricava che in ogni nazione le relazioni familiari sono la più importante risorsa per affrontare le tensioni e le difficoltà interne ed esterne nella vita quotidiana delle famiglie, ma la loro importanza è ancora più decisiva per le persone più vulnerabili e marginali, a conferma della “fondamentalità” della famiglia, nonostante crisi e lacerazioni, come riconosciuta nelle fonti di diritto internazionale e dalle scienze umane e obiettivo anche dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

 

Le ferite delle famiglie “possono essere risanate se saremo capaci di rivitalizzare la comunità. Esperienze comunitarie come il cohousing, ancora poco diffuso ma ricco di potenzialità, l’impegno nel volontariato di quartiere e vicinato, l’impegno per il welfare territoriale, l’affidabilità di tante “nuove famiglie”, il supporto reciproco che si sviluppa tra coppie giovani con figli di una stessa scuola o di uno stesso quartiere, sono tutti segnali di ricomposizione del vissuto familiare su base comunitaria che, se opportunamente messi a fuoco e sostenuti, possono contribuire in maniera determinante alla ricucitura della realtà familiare ed al superamento delle sue ferite” (la sociologa Carla Collicelli, in “Dalle relazioni ferite alle relazioni risanate: la solidità dell’amore”, 2020). Se la famiglia tornasse ad essere tale si avrebbe la piena attuazione dell’art. 2 della Costituzione e si realizzerebbe la cosiddetta ecologia delle relazioni: esercizio dei diritti inviolabili dell’uomo, formazione sociale per eccellenza, svolgimento della personalità, adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà.

 

Tra le tante famiglie ferite, lacerate quelle dei detenuti, come scrive Alessandra Bialetti, pedagogista sociale e consulente della coppia e della famiglia: “La perdita di una figura di riferimento importante ricade pesantemente su chi, fuori, deve lottare ogni giorno per la sopravvivenza propria e dei propri figli, su chi deve far da madre e padre a piccole vite in crescita, deve “tamponare” esigenze di ogni tipo soprattutto emotive e affettive. Un’ulteriore criticità è rappresentata dal giudizio che la famiglia di un detenuto vive sulla propria pelle. La discriminazione davanti a storie di vita così pesanti, ma anche la paura che ognuno di noi può sperimentare davanti a una realtà sconosciuta e critica, chiude l’intera famiglia in una solitudine relazionale che spesso pesa ancora di più della detenzione stessa” (in un articolo del 7 febbraio 2020). “Gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di mantenere relazioni personali e contatti diretti in modo regolare con entrambi i genitori, salvo quando ciò sia contrario all’interesse superiore del fanciullo” (art. 9 par. 3 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

 

Alessandra Bialetti aggiunge: “[...] Nel carcere si incontrano tante storie, visi che portano dentro un vissuto e che rimandano, non solo alla storia personale, ma anche a un tessuto familiare fortemente compromesso. Dietro ogni detenuto c’è un’esistenza complessa, una famiglia, legami coniugali e genitoriali. Compito del percorso riabilitativo non è solo quello di far scontare una pena e reinserire nella società ma di prendersi carico di tutto il tessuto relazionale che il detenuto porta dentro di sé. [...] Occorre quindi chiedersi come porsi in ascolto di queste famiglie senza aprirsi al giudizio e al pregiudizio. Occorre accompagnare il loro cammino, confortare, tenere i contatti anche solo con una telefonata, poche parole per trasmettere consolazione, vicinanza e coraggio. “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia” (art. 1 legge 4 maggio 1983 n. 184 “Diritto del minore ad una famiglia”): questo diritto non deve essere trascurato in caso di bambini e ragazzi con genitore/i detenuto/i, casi in cui la comunità dovrebbe farsi ancor di più “famiglia di famiglie”. Si ricordi, tra l’altro, la formulazione dell’art. 5 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “Gli Stati parti rispettano la responsabilità, i diritti ed i doveri dei genitori o, all’occorrenza, dei membri della famiglia allargata o della comunità, secondo quanto previsto dalle usanze locali, dei tutori o delle altre persone legalmente responsabili del fanciullo, di impartire a quest’ultimo, in modo consono alle sue capacità evolutive, l’orientamento ed i consigli necessari all’esercizio dei diritti che gli riconosce la presente Convenzione”.

 

La famiglia è altresì un soggetto economico perché luogo di economia ed economie e fonte di esternalità, effetti negativi o positivi su altri soggetti, dalla scelta della scuola privata o pubblica per i figli ai costi sociali ed economici di separazioni o divorzi più o meno conflittuali. La rilevanza economica della famiglia è presa anche in considerazione nell’Agenda 2030: “Riconoscere e valorizzare la cura e il lavoro domestico non retribuito, fornendo un servizio pubblico, infrastrutture e politiche di protezione sociale e la promozione di responsabilità condivise all’interno delle famiglie, conformemente agli standard nazionali” (punto 5.4). Rilievo alla famiglia è stato dato pure nel 6° principio del Pilastro europeo dei diritti sociali.

 

“[…] al di là di analisi sociologiche, politiche o economiche, una cosa certa è che, in questo contesto, la famiglia soffre, tra le altre cose, soprattutto di solitudine, e se la famiglia soffre, soffrono di più gli ultimi, gli emarginati. Nessuna istituzione, infatti, può aiutare, come le famiglie, i poveri, gli orfani, gli immigrati in modo continuativo e non emergenziale” (l’avv. Vincenzo Bassi in un articolo su L’Osservatore Romano, l’8 settembre 2020). Nell’art. 29 della Costituzione si parla di “diritti della famiglia” e nelle fonti di diritto internazionale si ribadisce l’aiuto alla famiglia o la protezione della famiglia (per es. l’art. 33 par. 1 della Carta di Nizza recita: “È garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale”) ma nella realtà avviene sempre meno perché la “macropolitica” è in altro occupata o preoccupata, per cui si sviluppano forme di “solidarietà interfamiliare”.

 

Lo scrittore Erri De Luca: “Gli uomini hanno inventato i minuziosi codici, ma appena c’è occasione si azzannano senza legge”. Quant’è tristemente vero soprattutto per le questioni di famiglia, dal divorzio alla divisione di un’eredità: l’uomo ha fame di amore e famiglia, tutto il resto è solo surrogato.

 

2. Cosa fa famiglia

 

“Non credo che ci si debba amare solo per fare i figli. […] Dico solo che una società che considera i figli come seconda o terza priorità, che ne fa sempre meno e non li educa nel giusto modo, non ha futuro. Privilegiare la comodità, l’egoismo, avanzare come giustificazione il costo, i rischi e la rottura di scatole rispetto alla poesia, alla tenerezza, alla faticosa dolcezza di una di una maternità e di una paternità pazienti e presenti, non è segno di maturità e coscienza adulta. […] Ho solo una tristezza immensa che mi coglie, fino a portarmi alla domanda pericolosa: se l’amore sia sempre più straniero in questa nostra società preoccupata dalla recessione, ma sempre meno impegnata ad affrontare e a risolvere la vera recessione, ovvero quella riguardante la famiglia, l’amore, i figli, l’altruismo e la capacità di relazioni profonde e autentiche”. Così don Antonio Mazzi, cresciuto senza padre e divenuto “padre” di tante generazioni con problemi di tossicodipendenza o di altra natura. Parecchi ragazzi caduti nella tossicodipendenza o altra forma di dipendenza affermano che dai genitori hanno avuto tutto, anche il superfluo, ma non quello di cui avevano bisogno, come l’ascolto, l’attenzione, il tempo, anche qualche limite. Ciò che dovrebbe caratterizzare l’amore genitoriale, l’amore in famiglia. Non sono i figli che fanno la famiglia, ma la famiglia che fa i figli.

 

Lo psicologo Simone Olianti conclude: “Essere fecondi non è solo generare vita biologica, ma coltivare la vita, custodirla e proteggerla. Ed è solo quando la nostra vita genera vita bella intorno a noi, ed è fertile per qualcun altro, che siamo davvero felici”. Essere fecondi non è concepire figli ma generare amore, quello sano e sanante.

 

“Ogni bambino ci dice a modo suo la bellezza e le ferite della vita e ci richiama così alla nostra responsabilità. La sua nascita rappresenta un’esperienza nuova per l’umanità che gli deve ciò che essa ha di meglio” (dalla Charte du BICE, Parigi, giugno 2007). Ogni bambino suscita amore e stupore (anche se non sempre è così, altrimenti non si spiegherebbero i casi di infanticidio), come quello che manifestano i genitori i figli con disabilità: “Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te” (la scrittrice Ada D’Adamo riferendosi alla figlia disabile).

 

“[...] in una famiglia, l’arrivo di una sofferenza può avere l’effetto di una bomba a mano. Di solito gli uomini entrano in una sofferenza che unisce il dolore per l’altro perduto all’incapacità di accettare di non essere il centro esclusivo delle cose. Per una donna il dolore è sempre una sfida da accettare, qualcosa da cui è impensabile fuggire” (cit.). Se l’uomo e la donna si unissero nel provare il dolore, o almeno lo convogliassero, sarebbe l’estrema, o forse la più sublime, forma d’amore: anche questa è una forma di assistenza, innanzitutto morale (art. 143 comma 2 cod. civ.).

 

Lo scrittore francese Pierre-Marc-Gaston de Lévis: “Il segno che non si ama più lo si ha quando i sacrifici cominciano a costare; il segno che si ama poco lo si ha quando ci si accorge di farne”. Quando in una coppia o in famiglia si parla in termini di sacrifici e rinunce significa che non si è compreso il senso e il linguaggio dell’amore. Quello che si fa è una scelta nella libertà e responsabilità: questo è l’amore.

 

Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, spiega: “Si deve al grande etologo austriaco del secolo scorso Konrad Lorenz la scoperta dell’imprinting, termine inglese che sta a indicare una forma di apprendimento precoce che fa sì che l’animale poche ore dopo la nascita riceva una sorta di impronta dal primo oggetto in movimento che compare nel suo campo visivo. Ne resta «impressionato» e non può fare a meno di seguirlo, corteggiarlo e restargli legato, assumendo tutti i suoi comportamenti. Lorenz addirittura si era immerso in un lago e aveva fatto in modo che allo schiudersi delle uova gli anatroccoli vedessero per prima cosa la sua massiccia figura. Così era stato e i piccoli avevano continuato ad andargli dietro, al punto che una volta che il ricercatore introdusse nel lago la vera madre biologica, si rifiutarono di seguirla. Questo tipo di apprendimento segue, però, regole ben precise e può verificarsi soltanto in quelli che sono definiti «periodi sensibili» che spesso si consumano nell’arco di pochissimi giorni”. I primi giorni di vita e soprattutto alcuni momenti sono fondamentali perché i bambini hanno bisogno di cure che sono la manifestazione massima dell’amore gratuito. Esplicativo in tal senso l’art. 4 della Carta dei diritti del bambino natoprematuro (2010): “Il neonato prematuro ha diritto al contatto immediato e continuo con la propria famiglia, dalla quale deve essere accudito. A tal fine nel percorso assistenziale deve essere sostenuta la presenza attiva del genitore accanto al bambino, evitando ogni dispersione tra i componenti il nucleo familiare”. L’amore è un bisogno umano, un’esigenza vitale per ciascuno, ancor di più per i bambini, per i neonati. Nelle fonti normative si è parlato di “bisogno di amore” per la prima volta nell’art. 6 della Dichiarazione dei diritti del fanciullo (1959), oggi se ne parla diffusamente (anche in “carte” e documenti vari stilati da psicologi e altri esperti) tanto che si può profilare un diritto d’amore (il giurista Stefano Rodotà).

 

L’art. 8 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia recita: “[…] il diritto del fanciullo di conservare la propria identità, nazionalità, nome e relazioni familiari”. Si noti che in quest’articolo si usa il verbo “conservare”, con tutta la pregnanza che può avere, e la successione dei diritti si conclude con “relazioni familiari”, che ha una portata più vasta e profonda di “famiglia”. Quest’articolo è da leggere alla luce di quelli precedenti e in particolare dell’art. 3 ove si enuncia, tra l’altro, l’interesse superiore del fanciullo. Così nel procedere all’affidamento o all’adozione di un bambino. La psicologa Rosa Rosnati: “Il bisogno del bambino ha tempi che possono anche non essere i tempi di cui un adulto può avere bisogno per fruire di un percorso o di un programma, penso ad esempio a un programma di cura nel caso di una dipendenza… a volte questi tempi non corrispondono ai tempi del bambino, che restano però prioritari. Inoltre si investe troppo poco per la prevenzione, troppo poco per diffondere l’affido e per sostenere le famiglie affidatarie, troppo poco per sostenere le famiglie adottive. L’affido e l’adozione hanno una valenza sociale che merita di essere sostenuta, mentre la risonanza che episodi di cronaca come quello della Val d’Enza [cosiddetto “caso di Bibbiano”] hanno sull’opinione pubblica purtroppo rischia di offuscare questa valenza sociale. Teniamo presente che ad oggi ci sono in Italia circa 15mila minori che vivono in comunità: molte sono ottime, ma anche in quel caso la comunità può andar bene per periodi brevi o in emergenza ma non può essere il luogo dove un bambino può crescere. Il bambino per crescere deve poter sperimentare un legame di attaccamento sicuro. L’appello allora è per valorizzare forme di affido anche più fluide, che ad esempio permettano a un bambino di trascorrere il pomeriggio o il weekend o le vacanze nella famiglia affidataria, sperimentando legami famigliari solidi e di lungo periodo. Lo chiamano “affido leggero” ma è leggero solo in termini di tempo perché la valenza psicologica per il bambino è tutt’altro che leggera” (in un’intervista del 17 luglio 2019). Ogni figlio in famiglia dovrebbe essere considerato in “affido leggero”.

 

“A vederla luccicare tra le colline sulla stradina di campagna, la giardinetta rossa piena zeppa di bambini – bambine nella fattispecie – sembrava venir fuori da una di quelle scene di famigliole felici che, appena possono, i pubblicitari infilano nei loro filmati. Eppure, nella macchina mancava la mamma […]” (lo scrittore Gaetano Cappelli). Esistono molte famiglie monogenitoriali anche in presenza di entrambi i genitori, a danno dei figli, nel presente e per il futuro: coniugi separati in casa; genitore cui non si fa o che non sa esercitare la propria distinta funzione genitoriale; omologazione o duplicazione della figura genitoriale (con eclissi del padre) e altro ancora (sempre attuale sui figli alla mercé delle scelte dei genitori il film drammatico “I bambini ci guardano”).

 

Infine il sociologo Boffi sottolinea: “Non si tratta di essere più o meno catastrofisti, ma di guardare in faccia la realtà. E domandarsi: una società in cui le famiglie che l’Istat tecnicamente definisce “unipersonali”, e che qualcuno già chiama “famiglie single”, sono ormai un terzo del totale e – se le tendenze che abbiamo delineato non subiranno un deciso cambio di rotta – sembrano destinate a diventare la maggioranza, può ancora stare in piedi? La frammentazione della popolazione che emerge dai dati sarà in grado di reggere il tessuto economico, sociale, civico che finora – bene o male – ha retto il nostro Paese?” (nell’articolo del 30-12-2019). La famiglia non può essere definita unipersonale o single perché viene meno la sua essenza (o funzione) come le è riconosciuta dalla Costituzione (artt. 29-31), dagli atti internazionali e dalle scienze umane in generale. La famiglia ha una identità o configurazione distinguibile e riconoscibile dall’esterno che è principalmente quella di essere finalizzata alla procreazione (nel senso lato di generatività) e alla protezione dei suoi membri, dimensioni che non si possono attribuire alle famiglie monopersonali. Quelle peculiarità che si evincono esplicitamente pure dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e che sono avvalorate dalla sfida e dal coraggio delle cosiddette famiglie ricostituite e ricomposte.

 

Il saggista Goffredo Fofi evidenzia: “E quanti oggi soffrono davvero di questo sentimento di inadempimento, di non essere all’altezza, di non fare tutto quel che si dovrebbe fare per combattere i mali del mondo, per attenuarne la forza? La società odierna mira a tutt’altro, mira a deresponsabilizzare, ad accentrare il senso di colpa sul privato famigliare e sessuale, a eliminare quell’altro, che è certamente di ostacolo al dominio dei pochissimi sui tantissimi. Viva dunque i sensi di colpa, viva la paura del rimprovero, se collocati al posto giusto nei nostri sentimenti, e richiamo alle nostre responsabilità”. Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia vi è un richiamo alla responsabilità sin dal Preambolo: “Convinti che la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli debba ricevere l’assistenza e la protezione necessarie per assumere pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità”. Deresponsabilizzarsi e fare a scaricabarile tra i due genitori, tra famiglia e scuola, tra i vari ordini di scuola e così via è un’appropriazione indebita della vita dei bambini e degli altri.

 

Un sociologo americano: “Le nuove idee hanno bisogno di antichi luoghi”. “Antico”, “che sta prima, che sta dinanzi”, e “luogo”, “spazio che un corpo occupa o può occupare”: locuzioni dense di significati. Le singole vite e in particolare le nuove vite hanno bisogno di antichi luoghi: le famiglie. 

I diritti dei bambini all’arte e alla cultura nel postdigitale

Abstract: L’articolo esamina le potenzialità dell’educazione all’arte e alla cultura, anche per migliorare i rapporti tra genitori e figli e per costruire un futuro migliore

 

Tra i vari esperti lo psichiatra Paolo Crepet mette in guardia da uno dei crescenti pericoli di oggi: “L’utilizzo prolungato dei social media e dei device tecnologici, aumentato negli anni di pandemia, atrofizza il cervello e influisce drasticamente sulla forma mentis dei giovani, il cui apparato cognitivo è continuamente interrotto in un incessante «zapping mentale». Ne consegue un calo delle capacità di attenzione, di lettura, di apprendimento e di memoria: sicuramente un allarme preoccupante da non sottovalutare. I ragazzi non sono più abituati a ragionare con la propria testa, in piena libertà, ma sono condizionati nelle loro scelte dalle opinioni degli influencer”. I genitori dovrebbero avviare (che non significa iscriverli e accompagnarli ai numerosi corsi pomeridiani) e condividere con i figli esperienze di arte, cultura e natura, come previsto anche nella Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (Bologna, 2011).

 

Già Giovanni Cavina (1924-2009), “educatore visionario” e ideatore e direttore di una residenza universitaria organizzata come un sorta di “tempio della cultura”, a proposito di scienza e dell’incredibile progresso scientifico, nel 1981 parlava di “amico computer” e affermava: “Se i fruitori delle conoscenze computerizzate saranno più seri, più corretti, più colti, tutto andrà per il meglio; altrimenti, correremo il rischio di essere totalmente manipolati da perdere, con le capacità di immaginazione, di inventiva e di fantasia, la libertà e quindi la felicità” (nella rivista “Panorama per i giovani”). Bambini e ragazzi devono essere educati a usare mezzi tecnologici e device di ogni genere, come mezzi e non come obiettivi della loro vita quotidiana, “senza essere trattati da consumatori ma da soggetti competenti e sensibili” (mutuando la terminologia dell’art. 6 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura) e preservando tutti i loro diritti.

 

Alla fine del XIX secolo Lev Tolstoj, scrittore e anche educatore russo, scriveva: “[...] i ragazzi non si lasciano ingannare... Noi cerchiamo di dimostrare che siamo intelligenti, ma essi non se ne interessano affatto, e vogliono sapere se siamo onesti, se siamo sinceri, se siamo buoni, se siamo compassionevoli, se abbiamo una coscienza [...]. Un buon insegnante deve avere una buona vita ed una sola è la caratteristica generale e principale di una buona vita: l’aspirazione al perfezionamento nell’amore”. “I bambini hanno diritto […] a essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze” (art. 3 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura). I genitori non si devono preoccupare solo dell’alimentazione necessaria al corpo dei figli, ma anche del nutrimento della loro interiorità recuperando il vero senso dell’essere genitori: “padre”, colui che sostiene, “madre”, colei che produce. La vita stessa è un processo artistico che richiede intelligenza emotiva: quello di cui dovrebbero occuparsi e preoccuparsi i genitori, ma non sempre è così perché loro stessi non la vivono così o non la rendono così.

 

L’esistenza dei bambini, lo stare con loro è una delle conferme che il tempo è impalpabile e gli si dà senso e consistenza con relazioni e emozioni, col dare, dire e condire la vita in ogni luogo e uopo. Anche per questo è opportuno che i bambini possano “condividere con la famiglia il piacere di un’esperienza artistica” (art. 9 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).

 

A tale proposito lo psicologo e psicoterapeuta Fabrizio Fantoni precisa: “Come educatori, spesso ci si lamenta che le famiglie sono disunite e poco accoglienti, ma non si lavora abbastanza per formare gruppi in cui i ragazzi si sentano bene e possano costruire la propria identità nelle acque tranquille della squadra. Non tutti sono amici, nel gruppo, e le differenze individuali talvolta pesano nel creare tensioni e malesseri. Occorre che il gruppo si doti di strumenti di manutenzione. Questo è il compito degli educatori: custodire l’idea che si sta percorrendo insieme un cammino comune, dove si sta facendo qualcosa che vale. Tenere vivo l’orgoglio di appartenere a un gruppo speciale. Dare una mano a mediare, delegando loro le responsabilità e dando fiducia ai ragazzi anche quando sbagliano”. “I bambini hanno diritto a vivere esperienze artistiche e culturali accompagnati dai propri insegnanti, quali mediatori necessari per sostenere e valorizzare le loro percezioni” (art. 12 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).

 

“L’arte è unica, insostituibile e universale, perché da sempre, attraverso di essa, l’uomo racconta quello che le parole non sanno e non possono esprimere. Così, rivolgendosi all’arte, egli assegna una forma alle emozioni, ai sentimenti e agli stati d’animo più profondi e inconfessabili che accomunano l’intero genere umano, confidando nella capacità dei suoi simili di comprenderlo fino in fondo” (cit.). L’arte è libertà, linguaggio, comunicazione, emozione, movimento e altro ancora, per cui favorisce lo sviluppo olistico del bambino (art. 27 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Il bambino ha “bisogno” di arte e “diritto” all’arte, di cui ci sono espliciti riferimenti negli artt. 13 e 31 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.

 

A ciò si aggiunge la valenza terapeutica dell’arte: “L’Arteterapia è uno strumento terapeutico che utilizza i materiali artistici per favorire l’esplorazione, l’espressione e l’integrazione dei vissuti corporei, psicologici ed emotivi. Gli elaborati creativi che vengono prodotti non hanno finalità tecniche/estetiche. Sono, bensì, utilizzati come strumento di ascolto, di comunicazione e di espressione del sé, grazie al contatto profondo con alcune sue parti che spesso rimangono inespresse” (cit.). L’arte, prima ancora di essere una forma di terapia, è la principale forma di espressione dei bambini e la scuola dell’infanzia dovrebbe essere la fucina di ogni arte. I bambini sono “artisti” ma gli adulti spesso li reprimono e li rendono stereotipati, conformisti o omologati, come quando nella scuola dell’infanzia si propongono pedissequamente schede fotocopiate, modelli da seguire o altro. Tra i tanti suggerimenti, per esempio, la pedagogista Serena Gaiani propone di incoraggiare bambine e bambini a liberare la propria creatività offrendo esperienze di esplorazione del colore blu, come il pittore Yves Klein. “Disegnare fa bene al cervello” (lo scrittore Luca Novelli).

 

Anche la musica è fondamentale per i bambini: li abitua all’ascolto, all’espressione, al muoversi, produce effetti benefici sulla loro salute psicofisica, favorisce l’esercizio dei loro diritti. Si potrebbe parlare di diritto dei bambini alla musica nell’ambito dei loro diritti all’arte e alla cultura. Gli esperti di musica Emiliano Toso e Tea Baldini spiegano: “Quando nasce una Vita, riusciamo a sentire una nuova musica che arriva sul pianeta Terra. Le cellule si incontrano e creano un piccolo miracolo nel grembo di una mamma che da quel momento si mette in ascolto e cerca una danza per entrare in connessione con la sua piccola creatura. La gravidanza è un periodo unico e delicato nella vita di una donna, caratterizzato da notevoli cambiamenti fisici ed emotivi. La musica può essere d’aiuto poiché fornisce un ambiente tranquillo e rilassante, aiutando a ridurre lo stress e l’ansia che possono essere associati a questo momento. Numerosi studi dimostrano che la musica può avere un effetto positivo anche sullo sviluppo fetale. Il battito cardiaco e i ritmi respiratori del feto possono sincronizzarsi con la musica, un processo che può favorire il loro sviluppo. Alcuni studi suggeriscono anche che l’esposizione alla musica prima della nascita può migliorare le capacità di apprendimento e di memoria del bambino. Inoltre, la musica in gravidanza offre un’opportunità unica per rafforzare il legame tra madre e figlio. Quindi, può essere visto non solo come un beneficio per lo sviluppo del bambino, ma anche come uno strumento per migliorare la salute emotiva e mentale della madre”.

 

Alla musica segue la danza. “La danza è una delle rare attività umane in cui l’uomo si trova totalmente impegnato: corpo, cuore e spirito. Per il bambino danzare è importante quanto parlare, contare o imparare la geografia. È essenziale per il bambino, nato danzante, non dissipare questo linguaggio sotto l’influsso di un’educazione repressiva e frustante” (il coreografo francese Maurice Béjart). La danza (etimologicamente da “tirare, stendere”) è ancestrale e universale, esiste dagli albori dell’umanità e dal grembo materno. “I bambini hanno diritto ad avvicinarsi all’arte, in tutte le sue forme: teatro, musica, danza, letteratura, poesia, cinema, arti visuali e multimediali” (art. 1 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura). Bisogna recuperare la “biodanza” insita nella vita e nell’infanzia.

 

Altrettanto importanti sono le fiabe (ricordando che esiste pure la fiaba terapia). Quando un bambino chiede “Mi racconti una storia?” è una richiesta di attenzione, di tempo, di sosta, di sguardi, di emozioni condivise, di espressioni... Raccontare una storia è srotolare quel filo indefinito che annoda e avvolge tutti sin dalla primordiale esigenza di raccontare e raccontarsi nei graffiti degli uomini primitivi. Italo Calvino: “Io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano” (in “Fiabe italiane”, 1956). Da considerare anche quello che ha scritto Gianni Rodari nella “Grammatica della fantasia”, una specie di statuto in cui sono stati fissati i primi diritti dei bambini, in cui è stato il primo a parlare di “giocare con le parole” e di “matematica delle storie”. “I bambini hanno diritto a essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze” (art. 3 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura). È quello che cerca di perseguire e far conseguire il “Premio Fabula”, un’iniziativa culturale nata nel 2010 nel comune di Bellizzi, in provincia di Salerno (da un’idea del campano Andrea Volpe, conduttore e autore radiotelevisivo) con il fine di stimolare la creatività dei ragazzi attraverso la scrittura (rammentando che è stata la più grande scoperta e conquista nell’evoluzione umana). L’obiettivo principale è dare ai ragazzi l’opportunità di riappropriarsi del momento creativo e di farlo lontano dalla tecnologia, facendo leva sulla loro naturale creatività e sulla valorizzazione dei contesti d’appartenenza da un punto di vista sia geografico sia sociale coinvolgendo le eccellenze e le professioni del territorio (mettendo in atto così l’art. 9 della Costituzione) fornendo ai giovani esempi sani e punti di riferimento. “I bambini hanno diritto ad avere un rapporto con l’arte e la cultura senza essere trattati da consumatori ma da soggetti competenti e sensibili” (art. 6 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).

 

Un’altra iniziativa degna di nota è la “psicantria, ovvero “psicopatologia cantata”, una locuzione e un progetto nati, anche nel 2010, dalla collaborazione tra Gaspare Palmieri (in arte Gappa), psichiatra e cantautore e Cristian Grassilli, psicoterapeuta e cantautore, con la finalità di far conoscere i disturbi psichici e lo “psicomondo” in forma ironica attraverso la canzone. “Attualmente, il 15-20% della popolazione tra 0 e 18 anni manifesta un qualche tipo di difficoltà di carattere e di questi solo il 10-15% viene preso in cura da servizi, pubblici o privati, mentre il restante rimane impigliato in vario modo nella condizione psicopatologica. Tutto ciò rende evidente quanto sia importante dar voce all’infanzia e alla sofferenza infantile. L’obiettivo della psicantria è mettere al centro dell’attenzione – non solo degli specialisti, ma anche del lettore/ascoltatore comune – il tema dell’infanzia e delle possibili forme di sofferenze infantile, con la loro ricca, variegata e talora sorprendente espressività sintomatologica” (G. Palmieri e C. Grassilli in “La neuropsicantria infantile. Manuale cantato di psicopatologia dell’età evolutiva”, 2017). Tutti i bambini hanno un loro “psicomondo” e hanno bisogno di strumenti per scoprirsi ed essere scoperti tenendo conto che molti disturbi (e pregiudizi) nascono da emozioni inespresse o represse. “I bambini hanno diritto a sperimentare i linguaggi artistici in quanto anch’essi saperi fondamentali” (art. 2 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).

 

Bisogna richiamare quello che scrive Alberto Pellai al n. 7 del suo Decalogo per proteggere i bambini (2018): “Diritto ad essere educati alla bellezza. Bellezza delle parole, bellezza delle immagini, bellezza delle relazioni, bellezza della natura. Città grigie e inquinate, canzoni e film pieni di situazioni e parole ostili e volgari; musei, cinema e teatri con costi elevatissimi per genitori che ci vogliono accompagnare i figli: come possono i bambini imparare ad amare il bello quando non è loro reso accessibile e disponibile?”.

 

I bambini: i colori dei loro sorrisi, delle loro guanciotte, delle loro emozioni, della loro presenza, della loro esistenza, i colori della tavolozza della vita. 

Coppia o cappio?

Sintesi: Una coppia deve darsi e farsi decalogo d’amore

Abstract: L’articolo ricerca il senso della coppia evidenziando fraintendimenti che rischiano di minare l’amore

 

Sempre più coppie (di coniugi, di partner o di genitori) sono disfunzionali perché non si è colto o coltivato il vero senso di amore e quello di coppia.

“L’amore non è fusione ma unione; le persone non vi si confondono ma si sublimano” (cit.): così dall’amore di coppia a quello genitoriale.

“Il contrario dell’amore è il possesso” (cit.). Voce del verbo amore è libertà: liberarsi e liberare. Amare è essere liberi di e liberi da e soprattutto liberi con e liberi per.

 

Kahlil Gibran scriveva: “Il vero amore è l’accettazione di tutto ciò che è, è stato, sarà e non sarà. Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno. La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia”. Così la vita di coppia, la vita in famiglia.

“A volte, certe storie d’amore non dovrebbero nemmeno cominciare perché portano sin dall’inizio i segni di una tragedia” (dalla trasmissione televisiva “Amore criminale”). L’amore non è né giustificazione né sopportazione ma “comunione” (dal latino “cum”, con, insieme, e “munus”, parola polisemica che significa da “regalo” a “impegno”). La vita di coppia non deve essere mai un ripiego, innanzitutto per rispetto di se stessi. Spesso ci si butta in storie sbagliate, oggettivamente sbagliate, viste chiaramente tali da tutti. E, poi, lo si riconosce solo dopo, quando ci si separa e si sente dire: “Me lo dicevano tutti che non era per me, però...”.

Bisogna fare attenzione a non confondere l’amore con altro, perché si rischia di compromettere il benessere della singola persona, della coppia e dell’eventuale famiglia. L’amore non è soccorso ma sostegno, non è assistenzialismo ma assistenza, non è convenienza dell’altro ma convivenza nell’altro, non è compatimento ma compassione. “Quante persone scambiano l’amore per il soccorso, quanti “infermieri” e quante “crocerossine” corrono in aiuto scambiando l’amore (che in sé porterebbe il farsi carico delle pene e delle offese altrui, ma in modo adulto) con un assistenzialismo che in realtà foraggia il proprio ego, l’eroe o l’eroina che con i loro atti salvano l’altro dal pericolo e dal dolore” (don Fabio Rosini). Non si tratta di sano egoismo ma di autostima e rispetto di sé.

 

“Una coppia, ad esempio, sin dal fidanzamento, dovrebbe sempre avere il decalogo delle cose che fanno bene al loro rapporto e dalla cura e dall’assiduità a queste cose buone sorgeranno dei genitori saggi, sereni, rasserenanti” (don Fabio Rosini). Una coppia deve darsi e farsi decalogo d’amore e di vita insieme, quell’indirizzo della vita familiare di cui all’art. 144 cod. civ.. La coppia può essere sintonica o distonica: è frutto della scelta iniziale e, soprattutto, di quella quotidiana ricordando che comporta conseguenze anche nella vita degli altri, in primo luogo dei figli.

Lo studioso gesuita Giovanni Cucci afferma: “È proprio di chi è innamorato vedere le cose attorno a sé con occhi nuovi; esse rimangono le medesime di prima, ma è lo sguardo a essere differente, uno sguardo pacificante, agli antipodi dell’ansia e della paura”. L’amore di una coppia comincia con uno sguardo attento e finisce quando lo sguardo si distrae, si distoglie, si distorce verso altro. Quello sguardo da cui deriva etimologicamente il “rispetto” (dal verbo latino “respicere”, “guardare di nuovo, guardare indietro”) che è alla base di ogni relazione.

Un’immagine significativa di coppia è quella descritta dallo scrittore Erri De Luca: “Non sono al tuo fianco, io sono il tuo fianco. Sei la parte mancante che torna da lontano a combaciare” (in “Il giorno prima della felicità”): quello che ci si dovrebbe dire e soprattutto vivere in una coppia. Non è tanto importante esprimere il “ti amo” quanto vivere il “ci amiamo”: uno più uno non fa due, ma fa coppia che è una nuova entità fatta di due che restano due. Una lezione di educazione sentimentale, ancor prima di quella sessuale. Non ci si sposa (o, comunque, si fa una scelta di vita di coppia) solo per avere qualcuno accanto nel letto o a tavola, ma soprattutto per averlo accanto nella vita. L’educazione sentimentale e sessuale non è fatta di lezioni di scuola, ma di scuola di vita.

E una delle manifestazioni più rispettose di amore nella coppia, perché non co-stringe né opprime è la tenerezza, come scrivono Edoardo e Chiara Vian, esperti di famiglie in difficoltà: “La tenerezza è elemento fondante di un rapporto di coppia. E se la si trascura o dimentica, va riscoperta, pena l’inaridirsi del rapporto. In una coppia è importante ricavarsi ogni giorno un momento per una parola gentile, una carezza, uno sguardo d’amore per l’altro: tutto ciò nutre la tenerezza. Cominciare a coltivare uno sguardo di meravigliata tenerezza su ciò che l’altro è, nel mistero della sua persona, nella complessità del suo corpo, nel mistero profondo della quotidianità: tutto ciò porta a riconoscere la profonda bellezza abitata dall’altro”. La tenerezza dà contenuto agli obblighi coniugali di cui all’art. 143 comma 2 cod. civ., in particolare a quello dell’assistenza morale e materiale. Quella tenerezza la cui mancanza causa una sincope della comunicazione e della comunione tra coniugi e in molti casi la rottura definitiva della coppia.

 

“Prendimi per mano e insegnami ad imparare di nuovo quello che ho disimparato [...] prendimi per mano e dimostrami che non è finita” (cit.). Quello che si dovrebbe comunicare una coppia nei momenti di crisi senza affrettare alcuna conclusione.

 

“Capire coloro che parlano piuttosto che le parole” (il filosofo gesuita Gaetano Piccolo): la vera comunicazione da stabilire nella coppia, in famiglia. Perché la comunicazione è il collante di ogni coppia, dalla coppia di amici a quella di colleghi di lavoro.

“Nulla può essere unico e completo se prima non è stato lacerato” (cit.). Ogni emozione è una lacerazione perché bisogna aprirsi agli altri per completare se stessi: così la vita di coppia e quella familiare passano di lacerazione in lacerazione, dal rapporto sessuale al parto, dalla crisi al lutto.

 

“Noi due piangiamo continuamente e poi mettiamo le nostre lacrime nel frigorifero in quei contenitori del ghiaccio” (dallo spettacolo teatrale “Chi ha paura di Virginia Woolf” su incomunicabilità e conflittualità di coppia). In molte coppie si piange tanto, ma non ci si compiange affatto. Eppure ci vorrebbe poco per comunicarsi la reciproca sofferenza e soffrire di meno e insieme.

La peggiore forma di sterilità di coppia non è quella procreativa, ma quella generativa d’amore, quell’amore diffusivo e pervasivo. Quelle coppie chiuse in loro stesse fino ad incistarsi rimanendo crisalidi che non spiccheranno mai il volo come farfalle, anche se e quando hanno figli. La mancanza della vera educazione sentimentale, relazionale e sessuale segna nel profondo e per sempre.

Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini, consulenti familiari, precisano: “[…] il principio della vita: ogni coppia […] è chiamata a generare “figli divergenti” (termine tecnico per dire tutti i modi di uscire da sé stessi, di non stare centrati solo sui propri bisogni)”. Da tutto il Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, ed in particolare dal settimo enunciato, emerge che precipuamente i genitori devono far sì che i figli siano individui (etimologicamente “indivisibile” e, pertanto, tutto ciò che ha una personalità, una esistenza tutta sua speciale) ma non individualisti: “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società, ed allevarlo nello spirito degli ideali”.

 

Il pedagogista Daniele Novara richiama: “Non deve esserci confusione: una mamma e un papà non devono atteggiarsi o comportarsi come fidanzati affettuosi o come amici. Un figlio ha bisogno di un genitore che faccia il genitore. Non chiede niente di meglio”. “I coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendano adottare” (art. 6 comma 2 legge 4 maggio 1983 n. 184 “Diritto del minore ad una famiglia”). Ogni figlio può essere considerato adottivo perché è adottato, cioè “preso per sé, accettato, fatto proprio”, nella vita di una coppia e ogni figlio ha diritto a una coppia di genitori idonei.

I figli non appartengono ai genitori ma sono affidati ai genitori per cui non vanno né coinvolti né contesi nelle sempre più frequenti crisi o rotture delle coppie (come esplicitato nella Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori, ottobre 2018). Questioni che continuano anche sulla cosiddetta PAS, Sindrome d’alienazione parentale.

 

La giurisprudenza italiana di merito (ma non la Cassazione), in maniera frammentaria, riconosce la PAS, tra cui il decreto n. 778/2015 I sez. civile del Tribunale di Cosenza. La PAS non è menzionata espressamente nel DSM V (edizione 2013, traduzione italiana 2014) - Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali -, ma vi è delineata con vari riferimenti, tra cui “disturbi relazionali genitore-figlio”. Il riconoscimento della PAS non deve diventare, però, motivo di inasprimento dei rapporti già incrinati tra gli adulti ma motivo di percezione e riflessione casi dei bambini “triangolati” nelle crisi di coppia, perché non è una patologia dei bambini ma una condotta degli adulti che continuano a rivelarsi immaturi ed egoisti.

 

Quegli stessi adulti immaturi ed egoisti che non consentono ai figli di avere relazioni regolari e costruttive con i nonni. “Gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni” (art. 317-bis comma 1 cod. civ. “Rapporti con gli ascendenti”, articolo sostituito dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154). Il termine “ascendenti”, per quanto opinabile e tipicamente italiano, è significativo della pluridimensionalità delle relazioni familiari. La coppia genitoriale deve maturare nell’ottica trigenerazionale che è una di quelle dimensioni in cui covano i peggiori conflitti e su cui si basa altresì la terapia familiare trigenerazionale.

 

Occorre una consapevolizzazione sul senso di “coppia” che è diverso da “paio”: la coppia è formata da due esseri che, pur con e nelle loro differenze, si uniscono per il medesimo obiettivo. Si è membri di una coppia ma non ci si annienta nella coppia, non a caso nel codice civile non si parla di “coppia” ma si sottolinea “ambedue” o “entrambi”. Secondo l’argentino Salvador Minuchin, esperto di terapia familiare, per realizzare i compiti specifici che spettano loro, i coniugi necessitano di capacità di complementarità e reciproco accomodamento, cioè devono sostenere il modo d’agire dell’altro in molti campi, cedendo parte del loro individualismo per riguadagnarlo nel rapporto di coppia.

 

L’amore, qualsiasi amore, deve essere liberante e librante e non vincolante, costruttivo e creativo e non ostruttivo o distruttivo della singola persona.

Maria Montessori: metodo o pedagogia?

La scuola italiana trascura o ignora la pedagogia, come più volte segnalato anche dagli esperti contemporanei tra cui il pedagogista Daniele Novara, dimenticando che l’Italia è il Paese nativo di Maria Montessori e di altri pedagogisti che sono sempre attuali ma inascoltati. La scuola, purtroppo, continua a essere adultocentrica o “docente-centrata”, prospettiva che è emersa anche durante la pandemia con l’istituzione della DAD o dei LEAD (opinabili già gli acronimi). Una metodologia ben lontana da quanto scritto in varie fonti, per esempio l’art. 12 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura: “I bambini hanno diritto a vivere esperienze artistiche e culturali accompagnati dai propri insegnanti, quali mediatori necessari per sostenere e valorizzare le loro percezioni”.

 

Maria Montessori, medico, diventata mamma fuori dal matrimonio andando contro il perbenismo del tempo, si fece mamma di tutti i bambini di cui si prendeva cura. Fondatrice di un “metodo” educativo, basato sulla manualità, materiale sensoriale, meticolosità, tutto a misura dei bambini, mantenere una giusta distanza dai bambini che devono essere protagonisti e artefici di quello che fanno e vivono: come dovrebbe essere e fare ogni educatore.

“Aiutami a farlo da solo”, il motto in cui è concentrato il pensiero pedagogico di Montessori: il principio e il fine di ogni buon intervento educativo, genitoriale e scolastico.

Daniele Novara scrive: “Le mamme e i papà per Maria Montessori stanno, infatti, alla base delle conquiste e degli apprendimenti infantili. Rappresentano il punto di riferimento essenziale per l’educazione dei figli. A loro è dedicata la sua famosissima frase «Aiutami a fare da solo», cioè l’invito ai genitori a creare le condizioni perché i bambini non debbano aver bisogno di loro ma possano usare, età per età, tutte le proprie risorse. La sua fu una vera rivoluzione. […] Il bello della sua pedagogia è il concetto della valorizzazione dell’ambiente: i bambini imparano se si predispongono situazioni adeguate nelle quali possano fare esperienze. Anzitutto, quindi, si cominciano a costruire spazi della casa a misura dei piccoli, dove questi possano prendere il sapone da soli, lo spazzolino dei denti da soli, le mutande da soli e tutto il resto senza dover continuamente chiedere ai genitori. La casa di Maria Montessori, insomma, è un ambiente dove si muovono in autonomia e trovano autonomamente i materiali per i loro giochi, per le loro attività di scoperta, per le loro esplorazioni”. La pedagogia montessoriana è basata su: autonomia, attenzione, attrezzi, adeguatezza, attività, ambiente di apprendimento. Principi che si trovano espressi in altro modo nell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, articolo relativo all’educazione.

 

Fondamentali e attuali alcuni principi espressi da Maria Montessori: il bambino nei primi anni di vita è un “embrione spirituale”; la “mente assorbente” del bambino; “casa dei bambini” (a misura di bambino e improntata al minimalismo); “educazione alla pace” (educazione e pace, educazione è pace). La pedagogia montessoriana non è valida solo per le scuole ma anche per l’educazione in famiglia, ancor di più nei casi di conflittualità tra i genitori che dovrebbero tener conto della particolare natura dei bambini nelle loro scelte affinché queste non diventino scempi avverso i figli.

Nella vita di ogni giorno chi è lumaca e chi lumachicida, come purtroppo si fa con i bambini quando si annienta tra l’altro la bellezza della lentezza, castrandoli o tarpandoli (genitori valutanti che temono errori, fallimenti e cadute dei figli, scuola competitiva e valutante…). I bambini, proprio perché tali, sono forieri di risorse (soprattutto emozionali), quello che Maria Montessori chiamava “segreto dell’infanzia” e che si può cogliere osservandoli: i bambini stringono abbracci improvvisi da dietro, esternano con trasporto affermazioni perentorie come “Lo sai che ti voglio bene!”, si aggrappano con fiducia alle mani degli adulti per essere accompagnati dagli stessi o per portare gli adulti verso le loro scoperte e nel loro mondo di primigenie emozioni. “Spontaneità” deriva dal latino “spons”, “volontà”, è perciò la spinta, la vitalità insita nella vita stessa: la spontaneità dei bambini è didascalia di vita. “Ogni fanciullo ha il diritto al rispetto dell’integrità fisica e morale della sua persona” (art. 8.19 Carta europea dei diritti del fanciullo, approvata dal Parlamento europeo con risoluzione A30172/92).

Daniele Novara aggiunge: “In realtà, come ha ricordato tante volte anche Maria Montessori, il bisogno di ordine dei bambini è connaturato alla loro crescita: trovare le cose al loro posto, recuperare i giocattoli dove sono sempre stati, avere quel senso di sicurezza che è dato dal sapere che il mondo, il mattino dopo, non subirà scossoni particolari”. I bambini hanno bisogno di ordine, hanno diritto all’ordine, nella loro casa, nella loro famiglia (e non vedere cambiare continuamente partner accanto ai loro genitori), nella cameretta, dei letti rassettati, sulla tavola, in classe, per essere educati all’ordine, per acquisire il dovere dell’ordine, il rispetto dell’ordinamento anche giuridico, per essere avviati al lavoro (“ordine” è concettualmente la disposizione delle cose nel mondo fatta dalla natura). “Riconosciuto che il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). A proposito di “armonioso sviluppo”, anche in questo Maria Montessori è stata un’antesignana perché mirava all’armonia universale e all’educazione cosmica: tutto ciò che vuol far recuperare l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

I bambini hanno diritto all’esperienza. La consulente educativa Silvia Iaccarino precisa: “La Montessori diceva: “Il bambino è fatto dal materiale” e con questa affermazione intendeva sottolineare l’importanza di fornire ai piccoli i “giusti” stimoli attraverso degli oggetti in grado di catturarne l’attenzione e favorire la concentrazione. Inoltre, va evidenziato come il bambino in età prescolare apprenda attraverso il canale corporeo, coinvolgendo tutto se stesso nell’esperienza ed acquisendo i dati sulla realtà che lo circonda e su di sé attraverso i sensi. Pertanto, implicare nell’esperienza l’uso di più sensi è ciò che, in maggior misura, favorisce l’apprendimento e la costruzione del Sé”. I bambini hanno bisogno di esperienze tridimensionali e non bidimensionali davanti a schermi.

 

“Il principio base dell’educazione è l’aiuto alla vita, e l’educatore deve far sviluppare le potenzialità del fanciullo: la vita stessa svolgerà il suo compito di «costruttore dell’uomo». A tale scopo va favorita la libertà dei bambini: a loro non va imposto nulla; essi stessi devono scegliere come giocare, che cosa fare. L’educatore li aiuta nel preparare il materiale didattico e nell’accompagnarli nella crescita”. Questo quanto si ricava dal pensiero di Maria Montessori che ha anticipato la nuova cultura dell’infanzia e la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, tra cui il testo dell’art. 6: “Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto innato alla vita. Gli Stati parti si impegnano a garantire nella più alta misura possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo”.

“Alla tradizionale disciplina dell’immobilità del bambino a scuola la Montessori oppone la «disciplina della libertà» («No ai banchi!»): «disciplina» nel senso che un individuo «è padrone di se stesso e quindi può disporre di sé ove occorra seguire una regola di vita». Essa comporta quindi il rispetto degli altri, il mantenimento dell’ordine, il muoversi senza dar fastidio ai vicini. Originale anche l’educazione al silenzio, che aiuta alla concentrazione e all’attenzione. Sono aboliti del tutto i premi e i castighi. Nulla viene trascurato per ciò che riguarda l’alimentazione, l’igiene, l’abbigliamento, l’arredo scolastico, le scatole per i materiali e i gessi colorati, i piccoli lavori, i quadri alle pareti. Un’altra delle scoperte è che «l’uomo si costruisce lavorando». Il lavoro è fondamentale per il bambino, e la manualità favorisce lo sviluppo dell’intelligenza” (cit.). La pedagogia montessoriana è in linea con l’intera Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, a cominciare dalla cura dell’ambiente circostante il bambino: se l’ambiente è curato diventa più facile e diretto educare il bambino ad averne cura (art. 29 lettera e Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

 

“Con il metodo Montessori si capì che per far passare dei contenuti era necessario lavorare insieme ai bambini, stimolando la loro mente grazie a una maggiore libertà di azione che permettesse loro di fare tentativi e arrivare a delle soluzioni, altro concetto alla base del metodo. Con questo metodo, Maria Montessori, cambiò radicalmente la concezione dell’educazione dei bambini” (cit.). Montessori asseriva che il suo non era un metodo ma un aiuto ai bambini, un approccio, per cui gli insegnanti e gli educatori devono avere lo stesso atteggiamento, ovvero modulare il loro intervento in base ai bambini e al singolo bambino e non in base al loro punto di vista.

Montessori ha individuato i “periodi sensitivi” che corrispondono alle fasi di sviluppo durante le quali i bambini sono particolarmente predisposti e interessati ad assorbire una certa abilità. Alla

prima infanzia (fase evolutiva relativa all’età da asilo nido e ingresso nella scuola dell’infanzia) corrisponde il periodo sensitivo del movimento, che appare fin dalla nascita ed è prevalente fino almeno ai 4 anni, per cui gli adulti di riferimento devono offrire opportunità di movimento che rispondano correttamente alle esigenze dei bambini, dalla nascita fino ai 4 anni. Da ricordare che movimento ed emozioni sono strettamente correlate (intelligenza emotiva).

“Il percorso montessoriano in Italia, a differenza che negli altri Paesi Europei ed extraeuropei, è poco diffuso ed è riconosciuto solo per la scuola dell’infanzia e la scuola primaria, obbligando i genitori e i ragazzi a rinunciare al proseguimento di una forte scelta metodologica. Da anni è attiva una sperimentazione della scuola secondaria di primo grado a indirizzo Montessori, che ha ottenuto diversi decreti ministeriali di autorizzazione fino a diventare una sperimentazione nazionale nel 2021. In questi anni è aumentato l’interesse di diverse scuole nei confronti dei principi Montessoriani. L’attualità del metodo della grande pedagogista si può riscontare nella straordinaria importanza dell’autoeducazione, della libera scelta, delle interconnessioni delle discipline” (cit.). Nella scuola (pubblica) non si dovrebbe richiedere agli insegnanti la specializzazione in qualche metodo ma ogni scuola dovrebbe accogliere e applicare i principi validi e effettivi dei vari metodi proposti. Tra i principi montessoriani più incisivi e più disattesi oggi: non usare le cattedre; curare l’ambiente circostante (basti guardare gli edifici scolastici); far usare le mani; far svolgere in autonomia le attività.

 

Maria Montessori nella prima metà del XX secolo e, poi, Mario Lodi nella seconda metà, entrambi sono andati controcorrente rispetto a un sistema consolidato, da quello scolastico a quello adulto, sostenendo la “vera” centralità del bambino che è fondamentale per il “vero” benessere del bambino, al quale si dà tutto ma non sempre ciò che è adeguato o che lo faccia sentire adeguato.