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La scuola nel postdigitale

 

 

La scuola di una volta, anche con i suoi errori e limiti, era sicuramente diversa e più scuola, senza corse né corsi né ricorsi né troppi discorsi. Era riconosciuta come scuola e non svolgeva altre funzioni. E la scuola di oggi com’è o com’è considerata?

Una delle ragioni per cui la scuola di oggi non funziona più come tale è perché si ritrova a colmare, calmare, calmierare le ansie, le lacune, i sensi di colpa, le richieste (o le pretese), i ricorsi ai T.A.R. dei genitori. I genitori devono ricordare (o sapere, se non ne sono ancora consapevoli) che i figli escono come figli da casa e vi fanno ritorno come figli e nel frattempo sono alunni (parola che, etimologicamente, deriva da una radice con il significato di “nutrire, far crescere”) e devono essere alunni a scuola. Tra famiglia e scuola non c’è e non ci deve essere separazione ma distinzione: i genitori danno la vita, la scuola dà la cultura e insieme danno la cultura della e per la vita.

“[…] sarà essenziale promuovere l’idea di «educazione della comunità», dove la scuola è un soggetto – il soggetto principale – all’interno di una rete di attori protagonisti: le famiglie, il mondo culturale, sportivo, economico, ecclesiale e sociale. All’interno di questa comunità si può costruire un progetto educativo capace di ridurre le disuguaglianze e di promuovere la mobilità sociale” (cit.). La scuola può fare tanto ma non tutto, perché ha bisogno di coerenza, coralità, collaborazione educativa con la famiglia nell’“adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2 Cost.).

“La scuola è stata ridotta ad una sorta di Grande Fratello: registro elettronico, pubblicazione di foto sui siti delle scuole, richiesta di videocamere di sorveglianza…(il docente Alfio Briguglia nel convegno “L’educazione attraverso i saperi” il 1° marzo 2019 a Matera). Per ri-dare senso e consenso alla scuola bisognerebbe riscoprire il significato etimologico di “scuola”, cioè “tempo libero” e “studio”, cioè “aspirare a qualcosa”.

A proposito di parole, il termine stesso “parola” deriva da “parabola” e la scuola deve ritrovare anche il suo ruolo di parabola di vita. Il formatore Franco Lorenzoni sottolinea: “Nella scuola ci sono poi troppe volte le parole vuote, le parole non credute, le parole senza corpo, senza energia. Quelle che sovente ci accontentiamo di usare noi docenti, e che gli studenti fanno fatica ad ascoltare. Parole che non comunicano e non generano nulla perché non suscitano inquietudine, non mettono in movimento e in discussione, non inducono a porci domande e a dubitare, e dunque non producono scintille e non fanno scaturire nuove idee. […] È dunque il tempo di compiere nella scuola un grande lavoro di ecologia della parola. Nel senso etimologico: trovare casa alle parole, offrire casa alle parole. La casa delle parole è insieme un luogo e una tensione: il luogo è il corpo di chi le pronuncia tutto intero, sempre bisognoso di attenzione, la tensione è lo sforzo di avvicinarci agli oggetti della conoscenza. In qualche modo mi verrebbe da dire che autentica è la parola che non si accontenta, la parola che ricerca. Molto meno la parola che chiude il discorso, che afferma definitivamente”. Urge un’“ecologia della parola”, soprattutto a scuola dove incalzano acronimi, anglicismi e altri gerghi. Nella scuola sempre più aziendalizzata si usano sempre più espressioni inglesi per indicare attività che si sono sempre svolte o obiettivi che si sono sempre perseguiti ma con nomi diversi, come il coding (pensiero computazionale) e il coaching (allenamento), variamente denominato. La scuola non deve e non può adeguarsi. Adeguandosi al mondo circostante la scuola è passata dall’essere “bottega della cultura” all’essere, purtroppo, assimilabile a un discount o centro commerciale o sito di vendita online (basti vedere quanto si fa durante gli open day per orientare le iscrizioni scolastiche).

Nella scuola deve tornare la pedagogia in modo da essere un laboratorio pedagogico dell’immaginario. “L’espressione «immaginario educativo» sta a indicare la prospettiva umanistica e personalistica dell’educazione, interessando in primo luogo le aree della scuola, della pedagogia e della formazione. Da qui il bisogno di sognare un futuro migliore per le nuove generazioni, valorizzando la capacità dell’uomo di reagire di fronte all’imprevedibilità del destino, scommettendo sulla possibilità che l’immaginario educativo trovi un nuovo punto di equilibrio centrato sulla resilienza, evitando sia le fughe in avanti nei sogni utopici sganciati dalla realtà, sia le nostalgie retrotopiche che si perdono nel passato, sia infine le previsioni apocalittiche e catastrofiche della distopia. […] «Educare» (da e-ducere, «tirar fuori») vuol dire infatti liberare la persona, e quindi l’educazione non potrà mai fare a meno dell’immaginazione, capace di spalancare orizzonti inediti” (gli esperti Antonella Fucecchi, studiosa di didattica interculturale, e Antonio Nanni, pedagogista, in “Immaginario e resilienza. La scuola dopo il virus”, 2021). Educare è dire e dare futuro e anche per questo è difficile. È quanto espresso altresì nell’art. 29 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in particolare nella lettera a: “promuovere lo sviluppo della personalità del fanciullo, dei suoi talenti, delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutto l’arco delle sue potenzialità”.

Secondo la formatrice Jessica Omizzolo la scuola deve essere “[…] una scuola che si prende cura dell’eterogeneità e la coltiva. […] una scuola attiva che promuove autonomie, che sostiene il senso di autoefficacia. […] una scuola attenta. Una scuola che NON: non incasella, non chiude, non dà risposte preconfezionate e non addestra all’ubbidienza, alla performance. […] una scuola in ascolto delle domande, che condivide dialoghi, che si pone in osservazione dei silenzi, che offre rilanci divergenti e sostenenti. […] una scuola dove adulti e bambini possano sentirsi a proprio agio nel loro essere unici. Adulti professionisti aperti, attenti, sensibili”. È triste sentire parlare e assistere che nella scuola si spinga per la visibilità e pubblicità di quello che si fa o si deve fare correndo e competendo tra insegnanti tanto affannati e poco affiatati. E la centralità del bambino? E i diritti dei bambini? E i loro bisogni e i loro tempi? E l’ascolto? La scuola è sempre più adultocentrata o egocentrata e la pandemia ha spesso fornito un alibi per renderla ancora più “a distanza”, “online” e non vicina e in linea con i soggetti principali della vita, i bambini e i ragazzi.

“[…] c’è anche una mentalità su cui lavorare perché il sistema di istruzione riacquisti credibilità e rispetto: la scuola aperta a tutti è una comunità educante nella quale i bambini, gli adolescenti e i giovani sono i protagonisti” (cit.). Bambini e ragazzi non devono essere (o non solo) ricettori ma ricercatori del sapere, di ogni forma del sapere. La scuola non è solo imparare ma stare bene insieme per imparare.

Anche il pedagogista Daniele Novara afferma: “A scuola ci vuole la capacità di creare tra gli alunni modalità di relazione tali da consentire alla classe di vivere assieme e costruire le conoscenze necessarie”. Per insegnare, come pure per la genitorialità, bisogna avere le basi come in una casa e non improvvisarsi muratori o arrivare in un appartamento già finito.

La qualità della scuola non dipende dalle riforme, dalle innovazioni tecnologiche, dalla normativa, ma da chi vi opera e da chi la vive e la rende viva. L’insegnante non deve convincere ma coinvolgere, non solo trasmettere le sue conoscenze ma far trapelare le sue emozioni, essere motivato e motivante, appassionato e appassionante, emozionare ed empatizzare…

L’insegnante deve essere curioso e suscitare curiosità. Insegnare è incuriosire, innovare, indurre, iniziare, incontrare, includere… tutt’altro che indottrinare. Non si dimentichi che la scuola è una delle fucine di salute, come si ricava dal paragrafo “Sviluppare le abilità personali” della Carta di Ottawa per la promozione della salute (1986).

Già l’antropologa statunitense Margaret Mead sosteneva che “bisogna insegnare ai bambini a pensare, non a cosa pensare”. Nell’art. 14 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge: “Gli Stati parti devono rispettare il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”. Bisogna interrogarsi se, in particolare nella scuola basata su progetti, metodi brevettati, uso di device e altro ancora, si educhi bambini e ragazzi a pensare o piuttosto all’obbedienza. I bambini hanno semplicemente bisogno di pensare ed essere pensati: questo è il pensiero puerocentrico.

Occorrerebbero maestri come Mario Lodi. Maestro di libertà, come don Lorenzo Milani (di cui aveva le stesse iniziali invertite), è considerato ancora un maestro straordinario, “il maestro che ogni bimbo vorrebbe”, ma era semplicemente maestro dell’ordinario, come ancora la scuola non è. Mario Lodi era per la gentilezza, la mitezza, la fiducia nei bambini, che non è qualcosa che scatta subito ma si costruisce e perdura, era contro la frettolosità e per il dare tempo ai bambini. L’educazione, la relazione educativa (prima in famiglia e poi a scuola) dovrebbe essere questo. 

Lo psicologo statunitense Howard Gardner, nel libro “Verità, bellezza, bontà. Educare alle virtù nel ventunesimo secolo”, ha scritto che bisogna educare al bello, buono e vero: questa è la corresponsabilità della famiglia e della scuola, della famiglia con la scuola e non solo dell’una o dell’altra.