Abstract: L’articolo si propone di dispiegare la natura e le dinamiche del ruolo genitoriale da salvaguardare nella complessità dell’alveo familiare e della quotidianità
1. Essere genitori
In passato si parlava di “madre” e “padre” e di “maternità” e “paternità”, poi si è cominciato a parlare di “genitori” (art. 30 comma 1 Cost.) e a usare l’aggettivo “genitoriale”, ora si parla continuamente di “genitorialità” includendo ogni aspetto, psicologico e giuridico, personale e interpersonale. Cosa caratterizza, cosa riempie questa sfera dagli incerti confini?
Innanzitutto si rimarca che la genitorialità è più del concepire figli, è generatività. “[…] generatività: un termine che va inteso non solo e non tanto in senso biologico, ma soprattutto simbolico. Infatti, per contrastare la tendenza al consumo sfrenato, oggi prevalente, è necessario mettere in campo qualcosa di forte e di profondamente radicato nell’umano, in grado di portarlo a realizzazione. Generare significa entrare in relazione e percepire che proprio nella relazione trova pieno compimento la propria libertà; significa «mettere al mondo» valori da condividere che arricchiscono la vita di tutti. Generatività è anche un atteggiamento di fiducia profonda nell’essere umano, nel futuro e nelle generazioni che verranno, perché significa essere disposti a dedicare la vita «per», anche mettendosi a disposizione di qualcosa che ci supera nel tempo” (dal pensiero dei sociologi Mauro Magatti e Chiara Giaccardi in “Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi”, 2014). I genitori non devono essere solo generatori, ma anche generativi (sul modello dei genitori adottivi). Non devono solo mettere al mondo i figli, ma accoglierli e spingerli nel mondo con il bagaglio giusto per quello che sarà il loro viaggio. Tutto quello che è compreso nel verbo “accudire” usato nell’art. 7 par. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.
Sino alla riforma del diritto di famiglia del 1975 i genitori esercitavano la loro funzione con autoritarismo (che è differente dall’autorità – dal verbo latino “augere”, accrescere – necessaria per svolgere ogni ruolo di responsabilità) - tanto che il marito era “capo della famiglia” secondo l’art. 144 cod. civ. ante riforma -, avevano potere di correzione (abrogato art. 319 cod. civ.: “Il padre che non riesce a frenare la cattiva condotta del figlio, può, […] collocarlo in un istituto di correzione, con l’autorizzazione del presidente del tribunale”) e i figli dovevano onorarli (art. 315 cod. civ. previgente). Oggi si richiedono autorevolezza o amorevolezza, che lo psicoanalista Massimo Recalcati spiega in tal modo: “L’autorevolezza non è più garantita dalla funzione. Non basta più essere genitori per essere rispettati. L’autorevolezza deve scaturire dal basso, dal gesto, dalla testimonianza. Un genitore autorevole è colui che prova a trarre tutte le conseguenze dalle sue parole”. Il diventare genitori comincia con l’aspettare un figlio e continua con l’imparare a rispettare il figlio come altro da sé ai sensi degli artt. 147 e 315 bis cod. civ.: “[…] nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”. Nell’art. 29 lettera c della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “[…] inculcare al fanciullo il rispetto dei genitori, della sua identità”. Il rispetto dei genitori è fondamentale per il rispetto di se stessi e di ogni altro soggetto o altra cosa.
Il complesso dei compiti e delle competenze attinenti alla genitorialità è designato come “idoneità”, per cui si parla sempre più spesso, purtroppo, di genitori inadeguati, anaffettivi o altro. Peccato che la valutazione dell’idoneità genitoriale sia prevista solo nella legge sull’adozione e non per tutti i futuri genitori e che sia esaminata giudizialmente solo in caso di problemi (per esempio art. 316 comma 3 cod. civ.).
Sull’anaffettività lo studioso gesuita Giovanni Cucci scrive: “La tendenza alla anaffettività può essere ulteriormente alimentata dalla rivoluzione digitale, che ha evidenziato, insieme a una indubbia gamma di possibilità e risorse, anche nuove forme di trappole per la mente. L’offerta enorme che i social network propongono può essere anche una maniera per sfuggire alla tristezza e all’incapacità di restare soli. Si è già avuto modo di rivelare come la dimensione corporea sia indispensabile per la verità delle relazioni, soprattutto per la capacità di riconoscere ed esprimere i sentimenti. Le ricerche compiute in proposito tra studenti universitari rilevano una preoccupante carenza nelle capacità empatiche (di riconoscere e comprendere uno stato d’animo differente dal proprio), legate in particolare alla grande quantità di tempo dedicata ai mezzi di comunicazione digitale. Questi vengono visti come un modo di fuggire sensazioni spiacevoli, come appunto la solitudine e la tristezza”. I genitori si preoccupano tanto e di tutto ma non di alfabetizzare e fortificare i figli nell’interiorità. “Il suo [relativo al bambino] benessere psicologico è altresì essenziale” (dalla Charte du BICE, Paris 2007).
2. “Dover essere” genitori
L’arrivo di un figlio cambia la vita, ma non l’annienta: si diventa madre e padre, ma non significa che si è solo quello. Non si vive per i figli, ma si vive genitori e figli. Perché si è persone differenti e distinte, destinate fisiologicamente a separarsi, prima o poi. Genitori: dare la pappa, ma non diventare pappamolla né far diventare pappamolla (in particolare il papà). L’obbligo dei genitori di “istruire” previsto nell’art. 30 Cost. e nell’art. 147 cod. civ. comporta quello di “costruire”.
Lo psicologo e psicoterapeuta Osvaldo Poli esplica: “L’onnipotenza infantile è illusoria e può essere tenuta in vita solo al prezzo del “dolore” e del sacrificio altrui. A patto che la mamma, ad esempio si imponga di non essere mai stanca per rispondere a tutte le richieste del figlio, che il papà si sacrifichi ancor di più per venire incontro alle sue esigenze, che i famigliari si adattino a subire degli aspetti più negativi del suo carattere. Solo la rinuncia a tali aspetti infantili rende il figlio capace di vivere nel mondo così com’è, senza che esso sia stato preventivamente “addomesticato”, reso meno gravoso e difficile dal sacrificio materno (e di tutti gli altri). Le fatiche da lui evitate infatti, ricadono inevitabilmente su un’altra persona. L’immaturità consiste esattamente nel pretendere che il mondo intero si comporti come la mamma, che “fa sparire” le difficoltà della vita. Per tale ragione la ferita del padre coincide con la separazione simbolica dalla madre e con tutto ciò che ella garantisce in termini di aiuto, facilitazione, mediazione con le durezze della vita. Ma perché questo accada è necessario che il figlio attraversi l’esperienza della prova, termine messo al bando da una cultura che ha gettato nel discredito la sensibilità educativa maschile” (in “Cuore di papà. Il modo maschile di educare”). “I genitori o le altre persone aventi cura del fanciullo hanno primariamente la responsabilità di assicurare […] le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fanciullo” (art. 27 par. 2 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). I genitori non devono dare ai figli la “luna nel pozzo”, ma li devono far crescere cioè far andare avanti, come scritto e prescritto nella vita. E di questo hanno anche una responsabilità “esofamiliare”, perché quei figli sono pure cittadini di una comunità, del mondo.
I genitori non devono fare gli “spazzaneve” (espressione usata, per la prima volta, da una preside inglese nel 2014 per indicare i genitori che spianano la strada ai figli). Con i loro interventi (letteralmente “venire tra, venire in mezzo”) non devono provocare il pianto ma nemmeno prevenirlo, non devono inasprire la realtà ma nemmeno edulcorarla. Devono agire come il liquido amniotico che dà al feto quanto necessario per crescere e attraverso cui arriva tutto dal mondo esterno, anche se in maniera filtrata, così, poi, quando il bambino viene al mondo impara a conoscere e riconoscere tutto col suo corpo, come richiesto nella vita.
Anche lo psicoterapeuta Alberto Pellai chiarisce: “C’è un lungo elenco di azioni ed errori da non commettere con chi sta crescendo. Chiedere i voti degli altri, stilare continue classifiche di merito facendo paragoni, denigrare le prestazioni su un campo da gioco: è così che un bambino impara a sentirsi inadeguato e perde la propria autostima. Il problema non sono gli errori. Ma cosa impariamo di noi quando facciamo quegli errori. Se ci dicono: «Hai sbagliato, ma non preoccuparti, ce la farai» quell’errore ci aiuterà a superare i nostri limiti e a fare meglio in futuro. Ma se dopo un errore ci viene detto: «Sei il solito incapace, non sai fare niente di buono» non potremo che sentirci inadeguati. E alla prossima prova, l’ansia e il senso di inadeguatezza ci porteranno più facilmente a sbagliare di nuovo”. Negli articoli 147 e 315 bis comma 1 del codice civile si prevede che i genitori devono assistere moralmente i figli. Assistere significa anche “guidare” i figli, in altre parole dare impulso al loro percorso, fornire indicazioni, correggere la direzione, frenare quando necessario, ma non deviare o bloccare il cammino che è unico e personale.
Generalmente i genitori fanno figli e fanno per i figli in virtù di un sano egoismo. I figli, il più delle volte, ripagano con insano egoismo, soprattutto con omissioni (mancate telefonate, mancate visite, mancate risposte, mancate attenzioni o reazioni). Quanta miopia o presbiopia esiste nelle relazioni parentali, in primo luogo in quelle fondamentali.
Il pedagogista Pino Pellegrino richiama: “Sta aumentando sempre più il numero dei genitori che stravedono per il loro figlio. Lo considerano intoccabile, infallibile. Gli altri (insegnanti, allenatori…) sbagliano, lui no! Dare al figlio l’idea dell’onnipotenza, della perfezione, è estremamente pericoloso: può preparare un bullo, superbo ed egocentrico; un ragazzo senza amici. Un ragazzo asociale. Un ragazzo triste e solo. Triste, perché solo, e solo, perché triste!”. “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli” (art. 30 comma 1 Cost.). Viene prima il dovere e poi il diritto dei genitori: il dovere è una situazione cui non ci si può sottrarre, cui si è tenuti per sé e per gli altri e di cui si risponde e i primi che chiederanno il conto sono proprio i figli. L’educazione è elencata per ultima non perché sia l’ultimo obiettivo, ma perché è il fine ultimo e permanente dell’agire genitoriale.
“Fate come gli alberi: cambiate le foglie e conservate le radici. Quindi, cambiate le vostre idee ma conservate i vostri principi” (Victor Hugo). Così dovrebbero essere i genitori nei confronti dei figli.
“Noi siamo le api dell’invisibile. Noi raccogliamo disperatamente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile!” (il poeta austriaco Rainer Maria Rilke in una lettera del 1925): così l’opera dei genitori.
Essere genitori: vivere e imparare a essere genitori, insegnare ai figli a vivere e a imparare. Genitori: consapevolezza e prodezza.